Diario di uno

 

CAPITOLO I: LA SCRITTURA

 

La scrittura è per me una valvola di sfogo importante; quando scrivo - o, meglio, digito sulla tastiera del mio computer - i miei pensieri, è come se mi alleggerissi di qualcosa che non riesco a sopportare. In altre occasioni, scrivo per fermare un pensiero che mi sembra bello e interessante, e che ho l'impressione mi possa scomparire dal cervello se non mi affretto a bloccarlo sulla carta o, piuttosto, su un file del PC. Mi rendo conto che i miei, alla fine, sono soltanto ragionamenti insignificanti, opinioni personali e piagnistei, ma riportarli sulla rete è sempre meglio che confidarli a qualche povero cristo che ne rimarrebbe annoiato e finirebbe per mandarmi a quel paese. Sono ben conscio dell'inutilità delle mie parole, eppure affidarle al vento mi aiuta; forse, se non lo facessi, mi risulterebbe più difficile superare delle crisi profonde, che di tanto in tanto emergono dentro di me e mi affliggono, oppure dei momenti di noia assoluta, superabile anche grazie alla scrittura. A volte mi sento come uno di quei personaggi che ho visto in certi film, i quali, ritrovatisi in un'isola deserta a causa di un naufragio, scrivevano messaggi di richieste di aiuto e li mettevano dentro una bottiglia ben chiusa, per poi lanciarli con forza nel mare, sperando giungessero a qualcuno che li avrebbe captati. La differenza è che la mia salvezza non consiste in un aiuto impossibile (che tra l'altro nemmeno cerco), ma nel messaggio stesso.

 

***

 

Devo ammettere che ho trascorso gran parte della mia vita nel fare cose totalmente inutili (non per questo mi rammarico), e allora mi viene in mente anche il periodo della mia gioventù in cui scrivevo poesie di scrittori italiani famosi sui miei quaderni. Ricordo che ne riempii tanti, e tanti altri li lasciai a metà. Alcuni ancora li conservo, come ricordo di quel vuoto e vacuo tempo giovanile trascorso a comperare libri di poesia e, quindi, a trascrivere versi su carta. Questa seconda azione, oggi, mi appare del tutto inutile e senza alcun senso; forse perché adesso, se mi succede di trascrivere qualcosa, lo faccio con la tastiera del computer (che allora non possedevo). Coloro che mi vedevano scrivere poesie su poesie in modo così meticoloso, mi avvertivano che stavo facendo una cosa totalmente vana, che, tra l'altro, quello che scrivevo non era opera mia, e quindi aveva ancor meno valore. Ma io non davo importanza a ciò che mi veniva giustamente detto, e continuavo imperterrito a scrivere sui miei quaderni quei versi così essenziali per me. Iniziai col riempire di versi scritti le mie agende, facendo attenzione che ad ogni giorno dell'anno corrispondesse una poesia consona, adatta a descrivere quel particolare periodo del mese e dell'anno. Non soddisfatto delle agende, in seguito cominciai a comperare dei quaderni di varia grandezza, tutti a righe e, possibilmente, con delle copertine che mi fossero gradite (preferivo quelle "monocolore"). Scrivevo soltanto in stampatello, perché era il modo di scrittura che mi riusciva meglio. Utilizzavo, per le mie scritture, tre penne ad inchiostro: una rossa per il titolo della poesia, una verde o blu per l'autore, e una nera per il testo. La consecuzione dei versi doveva seguire un filo logico; le poesie che si susseguivano, praticamente, dovevano essere collegate tra loro per argomento. Più raramente adottavo altri criteri di trascrizione, riguardanti il valore dei testi poetici o le date di pubblicazione delle opere da cui attingevo il contenuto. Ma questa mania di scrivere cose inutili (che soltanto un bravo psicologo potrebbe forse spiegare) era nata in me già nell'adolescenza; a quel tempo, infatti, cominciai a collezionare gli almanacchi del calcio della Panini di Modena e, nello stesso tempo, cominciai a trascrivere, ancora una volta sui quaderni (in questo caso, però, a quadretti), tutte le formazioni titolari delle squadre calcistiche dei campionati di serie A e di serie B. Questa specie di capriccio durò almeno cinque anni. Se poi, andando a ritroso nel tempo, ripenso ad un periodo della mia vita ancora più remoto, mi viene in mente quello compreso tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza, quando compravo i giornalini dei supereroi della Marvel Comics (l'Uomo Ragno, i Fantastici 4, Capitan America, Thor ecc.); ebbene anche allora, non contento di leggerli soltanto, iniziai a riprodurli; però, non soddisfatto dei miei disegni, volli perfezionare quelle riproduzioni usando la carta velina, ricopiandoli in modo quasi perfetto tramite una penna o un pennarello nero; quindi, riportavo quell'abbozzo su carta bianca, la cui leggera trasparenza mi permetteva di ricopiare ciò che avevo impresso sulla carta velina. Insomma, questa necessità di riportare, riscrivere, ridisegnare, mi ha accompagnato lungo tutta la mia esistenza, e tutt'ora non si è estinta.

 

***

 

 Una croce di legno.

Un po' di terra smossa.

Non un fiore,

non un pianto,

solo qualche sguardo fugace.

Questo è il timbro

dei dimenticati.

 

Pur riconoscendo i miei evidenti limiti, anch'io ho avuto la sfacciataggine di scrivere dei versi. I primi risalgono a cinque lustri or sono, più o meno; fu, probabilmente, all'inizio dell'ultimo decennio del secolo scorso, ovvero quando nacque in me la passione per la poesia. Intitolai questo mio primo componimento Una croce di legno. È sicuro che non faticai più di tanto nel redigerlo, visto che è così breve da definirsi, più appropriatamente, un epigramma; d'altronde, all'epoca mi rincuorava il fatto che, celebri poeti come Ungaretti e Quasimodo, avessero scritto poesie più corte della mia. L'argomento riguarda i poveri morti dimenticati: coloro che hanno lasciato la vita in condizioni di povertà estrema e di solitudine totale. Tutto scaturì dalla mia prima visita al cimitero romano di Prima Porta, nel lontano 1985, in occasione della morte di mio nonno. All'interno del camposanto vidi un campo trascurato, con tante croci di legno; su alcune di esse c'era appeso un cartello che serviva ad identificare il defunto. Io domandai a mia madre il perché di quelle croci così scarne, e lei mi disse che, molto probabilmente, si trattava di persone morte in povertà. Per la verità, io, a ripensarci oggi, non sono affatto sicuro che fosse questa la spiegazione reale, e nemmeno sono a conoscenza di come vengano tumulate le salme dei poveri; fatto sta che quell'immagine rimase a lungo nella mia testa, insieme al pensiero di tutti quegli esseri umani, come i barboni, che concludono la loro misera esistenza completamente soli e privi di qualsiasi affetto; poi, appena morti e seppelliti, cadono nel dimenticatoio per sempre. Ebbene, a distanza di un lustro o poco più, quell'immagine ancora balenava nel mio cervello, così intensamente da farmi decidere di scrivere pochi versi (i primi) proprio sul tema dei morti dimenticati. Li riportai quindi su un'agenda vecchia, da me ritrovata e rispolverata tra gli oggetti in disuso dei miei genitori. In quest'agenda riportai anche molte ulteriori poesie trovate nei libri di scuola e non solo, insieme a qualche altra mia poesiola. I versi li scrivevo in stampatello, senza maiuscole o minuscole; i titoli delle poesie con la penna ad inchiostro rosso, il resto con la penna ad inchiostro blu. L'autore lo riportavo su una riga al di sotto dell'ultimo verso, sulla destra, in corsivo. Quando ricopiai la mia prima poesia, ebbi vergogna di firmarmi col vero nome, e allora adottai uno pseudonimo: Lamberto Barzeri; col medesimo nome mi firmai anche quando scrissi altri versi.

 

***

 

Tanto mi piacque certa poesia di Corrado Govoni, che, nel mio piccolo, provai ad imitarla. Per farlo m'ispirai ad un determinato tipo di composizione poetica, praticamente inventato dall'originalissimo poeta emiliano: una serie più o meno lunga di versi-frasi (definizione del critico Pier Vincenzo Mengaldo), che vogliono comunicare la meraviglia e l'emozione del poeta nell'osservare, nel sentire e nel ricordare determinati aspetti della natura e dell'umanità. Tra queste poesie, si possono citare Le dolcezze e Le cose che fanno la domenica, dalla raccolta Gli aborti (1907), e Le cose che fanno la primavera, da L'inaugurazione della primavera (1915). Infine, a proposito di Govoni, vorrei manifestare il mio rammarico per lo scarso interesse che oggi gode la sua ottima poesia; infatti, a parte qualche ristampa di libri usciti più di un secolo fa, ancora oggi non esiste un volume che raccolga la sua intera opera poetica, e questo è incredibile. Un'attenuante può essere individuata nel fatto che Govoni fu un poeta particolarmente prolifico, ma, comunque, si potrebbe trovare un modo di ripubblicare tutti i suoi versi, magari facendolo in vari libri e in vari anni. Ecco, infine, la mia imitazione (sfacciata) del grande poeta di Tamara.

 

 

PICCOLE E GRANDI EMOZIONI

 

I primi raggi di sole del mattino sui muri delle case.

I luoghi dell'infanzia.

Le vecchie foto di persone care.

Rivivere con la mente le cose perdute per sempre.

Piangere di malinconia.

Le poesie di Giacomo Leopardi.

I quadri di Claude Monet.

Un pesco fiorito.

Un prato tutto verde.

Il giardino pieno di fiori colorati.

Il silenzio immenso del bosco.

Il rumore dei grilli durante una afosa notte estiva.

Una farfalla variopinta che si posa su di un fiore.

Un gattino che miagola.

I passerotti che beccano le mollichine sparse in terra.

I gabbiani sulla spiaggia.

Le rondini che volano nel cielo sereno.

L'arcobaleno.

Il mare che luccica in un caldo pomeriggio estivo.

Il sole che lento lento se ne va sotto il mare.

La luna piena che riflette i suoi raggi sulle acque del mare.

Bere l'acqua che fuoriesce da una sorgente montana.

I grandi alberi che quasi impercettibilmente si muovono col vento.

Il sole visto attraverso gli intrichi dei rami di una pineta.

Un viale coperto di foglie gialle.

Il malinconico grigiore cittadino dopo un tramonto invernale.

La tristezza dei fanali illuminati in una sera autunnale e piovosa.

La facciata di una bellissima chiesa in un mattino estivo.

Una rosa bianca.

L'Adagio di Tomaso Albinoni.

Le vecchie canzoni romantiche.

La straordinaria bellezza di una giovane donna inconsapevole e timida.

Ritrovare un inaspettato divertimento nel gioco.

Le bolle di sapone che volano verso il cielo azzurro.

Il suono delle zampogne che intonano una canto natalizio.

Ricordare un sogno meraviglioso.

 

***

 

Se scrivo qualcosa, soprattutto se si tratta di prose, e poi per un po' di tempo non leggo più ciò che ho scritto, allorquando rivado a vedere quel determinato frammento o quello specifico articolo, è facile che ci rimetta le mani per modificarne alcune parti; questa insoddisfazione che si prova nel rileggere dopo giorni, settimane o mesi ciò che si è scritto, accomuna molte persone, un po' di tutti i generi e le tipologie. Per esempio, io che sono appassionato di poesia, ho notato che molti poeti hanno più o meno modificato i versi che pubblicarono per la prima volta su una rivista o in una raccolta; tra questi ve ne sono anche di famosissimi, come Giuseppe Ungaretti e Aldo Palazzeschi. Ma, se vogliamo allargare il campo, è possibile pensare che tale insoddisfazione coinvolga tutti i tipi di arte (pittura, scultura, cinema) ed anche moltissimi tipi di lavoro (penso in special modo a quello artigianale). Ovviamente, rimettere le mani su uno scritto, soprattutto se si parla di versi o di prosa poetica, è una cosa possibilissima; non lo è invece se si parla di quadri o di film. Devo però aggiungere che, malgrado io stesso rimanga insoddisfatto di ciò che ho scritto nel passato, quando vado a cercare opere famose, preferisco di gran lunga quelle originali - e per originali intendo quelle che sono state scritte dall'autore prima di qualunque successiva modifica -. Il fatto è che secondo me la prima scrittura di una poesia e di una prosa rispecchia fedelmente il pensiero dell'artista, al di là dei difetti, anche evidenti, che può possedere; inoltre quei versi sono un tutt'uno col momento stesso in cui sono nati: stato d'animo, periodo dell'anno e atmosfera del luogo. Con questo ragionamento voglio quindi asserire che sarebbe il caso di modificare soltanto ciò che è modificabile, ovvero le prose senza alcun valore artistico; al contrario, i versi e le prose poetiche non andrebbero mai cambiate, se non nella punteggiatura.

 

 

CAPITOLO II: LA FAMIGLIA

 

Non passa giorno che io non pensi a voi, alle vostre parole, ai vostri comportamenti e alla vita che abbiamo vissuto insieme. Praticamente, i miei giorni d'oggi, sia che mi trovi da solo, sia che abbia delle persone intorno a me, sono caratterizzati da una serie di flashback, simili a quelli che si vedono in certi film, dove io vi ritrovo e ricordo quei minuti trascorsi insieme. A volte, il ricordare certi momenti, mi trasmette una commozione istintiva, che riesco a placare a fatica, quando le lacrime stanno per far capolino dagli occhi. Ma voi tornate con me anche nei sogni, sebbene non siate mai così come eravate, voglio dire reali, veritieri, credibili... Sono, i miei, quasi sempre sogni stupidi, che dimentico presto perché non hanno alcuna attinenza con la realtà; ma voi, comunque, ci siete, e questo conta per me. E alla fine penso che la mia vita si sia già svolta; almeno per la parte più significativa: quella trascorsa con voi. Ciò non vuol dire che sia finita: si deve andare avanti, non abbiamo altra scelta. Vivere soltanto di passato non è l'ideale, ma in qualche modo è utile per poter andare avanti con più coraggio. Se nel mio passato non ci foste stati voi, forse sarei già morto o, forse, sarei un'altra persona. E a me va bene così, perché questa vita l'ho scelta io, e non posso accusare voi o nessun'altro per ciò che sono, per la mia situazione attuale. La cosa che più mi preoccupa, ora, è l'avvicinarsi della vecchiaia: periodo che, se dovessi arrivarci, mi creerebbe, probabilmente, pensieri e difficoltà. Ma la cosa migliore sarebbe, almeno per me, non pensare al futuro, e accontentarsi di ciò che offre il presente. Godersi i giorni di salute e di tranquillità, cercare interessi e motivazioni che possono dare ancora un senso alla vita, e pensare soltanto al prossimo giorno, senza fare lunghi viaggi con la mente. Lavorare, fare delle commissioni, passeggiare, preparare il pranzo e la cena, scrivere, leggere, ascoltare musica, guardare un film e tante altre cose possono servire a continuare, anche senza di voi. Ma poi arrivano i momenti in cui non si può far altro che ricordare, e riaffiora il dolore, spuntano di nuovo le lacrime... e nulla ha più un senso.

 

***

 

Il dolore aumenta di giorno in giorno: è quasi un mese che tu non ci sei più e io, adesso, non trovo più un motivo valido per continuare a vivere. La mente mia ritorna sempre, ogni giorno, a quei tuoi ultimi momenti, alle tue ultime parole, alle ultime volte che ti ho potuto vedere ancora lucida, ed ho potuto parlare con te. Tutto questo genera in me una forte sofferenza e crisi di pianto che, a volte, mi capita di avere anche in presenza di altre persone: cerco allora di trattenermi, a fatica, per mantenere un minimo di dignità; mi dico che, comunque, devo superare questo tremendo momento e continuare a vivere... ma ancora non ci riesco.

Sei venuta a mancare la mattina del 28 agosto, ma per me già non c'eri più da due giorni, visto che, dalla mattina del 26 agosto, nel momento in cui sono entrato nella stanza dell'ospedale dove eri ricoverata, ti ho trovata assente: come in coma. Ti avevo portato un po' di caffè in un thermos ed ero pronto ad aiutarti, nel caso tu lo volessi, a fare colazione... Appena ti ho vista, ho pensato o forse sperato che stessi dormendo e allora ti ho scosso leggermente chiedendoti: «vuoi bere un po' di caffè?...»; ma tu non mi hai risposto né in quel momento né ogniqualvolta ho riprovato a comunicare con te: tu non c'eri più.

Ti avevo lasciato la sera precedente, dopo averti aiutato a mangiare. Avevi mangiato con grande forza di volontà tutto quello che potevi nelle tue difficili condizioni;lo avevi fatto da sola, come sempre, perché non volevi assolutamente essere imboccata da me; lo avevi fatto sperando di migliorare e di ritornare a casa al più presto. Quella sera avevamo parlato e, seppure avessi notato in te qualcosa di anomalo, mai avrei pensato di trovarti, la mattina dopo, in quel modo. Ora, come ho detto, ripenso in continuazione ai nostri ultimi colloqui, ti rivedo fissare il vuoto (e mi chiedevo il perché) proprio in quella ultima sera; ripenso al modo frettoloso in cui ti ho lasciato perché rischiavo di far tardi al lavoro (dovevo fare il turno notturno) e il dolore aumenta... Avessi saputo quello che ti è successo proprio in quella notte!... Me lo ha detto un uomo che ha assistito, nella stessa stanza, la madre (anche lei morente) fino al mattino. Mi ha detto che tu quella notte sei stata molto male e che ha dovuto chiamare un paio di volte gli infermieri. Io non c'ero e non me lo perdono. Ma non è soltanto questo che non mi perdono: avrei dovuto capire, quando, poco prima del tuo malore, in casa ti misuravo la pressione con un macchinario apposito, che il tuo cuore stava perdendo colpi. Avrei dovuto consultare qualche medico in gamba (che purtroppo non conosco) e avrei dovuto fare l'impossibile per farti continuare a vivere. Queste e tante altre cose non mi perdono, mamma, e ora che non ci sei più comprendo pienamente quanto tu avessi ragione a rimproverarmi quando non mi rendevo conto (o non volevo rendermi conto) delle tue precarie condizioni di salute.

Stavi già molto male da più di una settimana: il pomeriggio del 17 agosto avesti un serio malore con conseguente crisi respiratoria. Disperato ho chiamato l'ambulanza che ti ha portata al pronto soccorso dell'ospedale di Ostia. Sono giunto lì poco tempo dopo, e ho atteso che mi facessero entrare per vedere come stavi. Entrato, mi son quasi rassicurato, anche grazie a te, che mi hai detto di stare meglio. Non ho avuto però, dai medici di turno in quel momento, alcuna notizia sulle tue condizioni di salute. C'è una tua frase, detta in quel particolare momento, che mi torna sempre in mente: «Va meglio, forse fra un po' mi dimettono». Dopo un'ora circa, ho avuto un breve colloquio con una dottoressa, la quale mi ha detto di compilare, all'esterno del pronto soccorso, il modulo del ricovero per poi tornare all'interno e consegnarglielo. Io, senza indugiare, non ti ho nemmeno guardata e sono uscito per compilare questo modulo; ho provato quindi a rientrare, ma me lo hanno impedito dicendomi di consegnare tutto alla persona presente allo sportello esterno. Inutilmente ho atteso fino a tarda sera, fuori dal pronto soccorso, sperando che qualcuno uscisse per darmi notizie sulla tua salute. Sono allora tornato a casa, ho mangiato un boccone, ho dormito qualche ora e, prima dell'alba, sono tornato in ospedale. Non c'era quasi nessuno al pronto soccorso e allora ho parlato col solito addetto allo sportello, sperando ancora una volta di avere notizie su di te e, possibilmente, di entrare per vederti: niente di tutto ciò. L'addetto mi ha vagamente informato sulla tua situazione e mi ha riferito che presto, un medico sarebbe venuto per parlarmi delle tue condizioni di salute. Questo non è mai avvenuto, ed io ho dovuto aspettare che aprissero le porte del pronto soccorso a tutti, per l'ora di pranzo, perché potessi di nuovo entrare. Se ripenso a quando ti ho visto, una volta di più il dolore mi sovrasta: eri visibilmente sofferente, con il boccaglio per l'ossigeno, e quando mi sono avvicinato mi hai detto una frase che non dimenticherò più: «Sto come Cristo in croce! sai che vuole dire: sto come Cristo in croce?». Poi mi rimproverasti aspramente dicendomi: «Ieri mi hai voltato le spalle e sei sparito... Non ti ho visto più, mi hai voltato le spalle e sei sparito!». Io ho cercato di spiegarti il motivo, e tu, forse, mi hai perdonato. Ma ogni volta che ci ripenso non posso fare a meno di rimproverarmi, perché è veramente andata così: prima di andarmene, la sera, non mi sono nemmeno voltato a guardarti e a dirti dove andavo, troppo sicuro di poter rientrare. In quell'occasione ebbi modo di parlare con un medico: mi disse che la tua situazione non era brillantissima, perché avevi una polmonite e una insufficienza cardiaca che si andavano ad unire con una già nota insufficienza renale seria. Però, tutto sommato, dalle sue parole ho avuto l'impressione che potevi, nonostante tutto, superare anche questo difficilissimo momento. Mi disse quindi che, probabilmente, saresti stata ricoverata proprio in quell'ospedale, forse nel pomeriggio. Quando ti riportai le parole del medico tu non fosti molto soddisfatta, e mi dicesti preoccupata: «Mi ricoverano a Medicina». Io cercai di rassicurarti, dicendoti che l'importante, in quel momento, era che tu fossi curata e che non ti mandassero in un ospedale troppo lontano. Ti lasciai dopo un'ora, e quando ritornai la sera, al pronto soccorso non c'eri più. Nessuno mi aveva avvisato, malgrado avessi comunicato il mio numero telefonico, che eri stata ricoverata al reparto. Giunsi quindi a "Medicina donne" e ti trovai irritata, mentre stavi cenando faticosamente con l'aiuto di una volontaria. Mi dicesti: «Arrivi sempre dopo i fuochi». Dopo la tua complicata e scarsa cena (facevi enorme fatica ad inghiottire il cibo), rimasi con te per qualche ora per poi andarmene a casa a dormire, poiché la mattina seguente sarei dovuto andare a lavorare molto presto. Tu non eri affatto tranquilla e mi dicesti: «Devo trascorrere un'altra notte così!». La notte era divenuta per te un incubo: il periodo del giorno in cui la sofferenza ti sovrastava e non riuscivi quasi più a dormire. Ancora una volta cercai di rassicurarti, poi me ne andai. La mia vita è stata costellata da un numero non calcolabile di errori e di rinunce; anche quella notte tra il 18 ed il 19 agosto feci un gravissimo errore: non mi portai il cellulare vicino al letto al primo piano della mia casa, ma lo lasciai al piano terra. Quando, intorno alla mezzanotte, questo squillò, io stavo dormendo profondamente e non lo sentii. Mi svegliai prima dell'alba, intorno alle 4 di mattina e cominciai a pensare; tra le altre cose mi rammentai di aver lasciato il telefono nel salone e allora, velocemente, scesi le scale per vedere se mi avesse chiamato qualcuno. Vidi infatti che avevo ricevuto una telefonata da un numero che non conoscevo. Indagai subito sulla provenienza di tale numero e presto venni a conoscenza del fatto che avevano provato a contattarmi dall'ospedale. Non richiamai, ma immediatamente uscii per dirigermi verso l'ospedale, terrorizzato dalla paura che tu fossi morta improvvisamente. Giunto al reparto faticai ad entrare e dovetti chiamare il centralinista dell'ospedale, il quale, a sua volta, mi mise in contatto col reparto. Non seppero dirmi nulla di te e allora io chiesi di entrare per poterti vedere: fui accontentato e mi diressi subito verso la tua stanza. Quando ti vidi quasi svestita, le braccia e le gambe legate al letto pensai tra me: «L'unica cosa positiva è che non sei morta». Dormivi, e allora cercai di svegliarti per chiederti cosa fosse accaduto, ma tu non sapesti rispondermi né in quel momento, né negli altri momenti in cui provai di nuovo a chiedertelo; non eri lucidissima in quel momento, ricordo però che mi dicesti: «Mi devi portare via da qui!». Io, incapace come al solito di prendere una decisione, non seppi fare altro che slegarti le gambe ed attendere che qualcuno venisse a dirmi qualcosa. Pochi minuti dopo venne un'infermiera: mi disse che tu, la notte precedente, ti eri alzata staccandoti gli aghi delle flebo che avevi ai polsi e che, perdendo una gran quantità di sangue, eri arrivata alla soglia della porta della tua stanza; in quel momento erano intervenute le infermiere, le quali, mi disse sempre una di loro, erano state costrette a legarti sul letto, perché tu non rifacessi più i danni che avevi già fatto. Mi disse quindi che il medico di guardia, subito dopo l'accaduto, aveva provato a contattarmi per chiedermi se tu avessi già avuto dei comportamenti simili di recente. Quando, la mattina, parlai con un'altra infermiera affinché ti slegassero le braccia (io non c'ero riuscito), mi disse che una paziente come te non poteva essere slegata, a meno della presenza continua di un parente nei pressi del letto. Rimasi con te per tutto il mattino e, dopo le visite dei medici, parlai con uno di loro: mi disse che ti avrebbero messo in dialisi e si raccomandò affinché ti tenessi sempre ben inserita la mascherina dell'ossigeno. Come mi capita troppo spesso, non ebbi la forza di dirgli quasi nulla. Nel frattempo cominciavo a capire dove mi trovavo: quella stessa mattina sentii parlare di una salma presente all'interno del reparto e, poco dopo, vidi comparire una bara di ferro per portare fuori una malata appena deceduta. E arrivarono i due ultimi giorni di quella settimana: 20 e 21 agosto; in uno di essi ci fu un altro allarme dovuto al fatto che non potevi essere dializzata, poiché la "fistola", ovvero una entrata che avevi al braccio creata apposta per farti la dialisi a seguito di un'operazione chirurgica che avevi fatto a maggio in un ospedale romano (poi dirò quanto, secondo me, ti fu letale), non era idonea per tale terapia. Fui contattato quindi dai medici del reparto nefrologico che mi fecero firmare delle dichiarazioni riguardanti la mia consapevolezza dei rischi che correvi nel subire un intervento atto a far sì che, grazie ad un catetere peritoneale, tu potessi essere comunque dializzata. Questi medici mi ripetevano: «Lei sa in che condizioni si trova sua madre...», io rispondevo di sì, ma forse non comprendevo che cosa volevano dirmi: forse mi stavano avvertendo che quell'intervento e la conseguente dialisi, non erano altro che un modo per farti vivere qualche giorno di più. Preoccupatissimo, attesi la fine dell'intervento (che probabilmente non era così rischioso) e quando il medico mi chiamò gli chiesi: «E' andata bene?» e lui rispose «E' andata come doveva andare», come a sottolineare che non poteva essere andata bene, viste le tue condizioni critiche. Comunque, io non capii più di tanto, e ti vidi con piacere nella sala dialisi, sperando che quel trattamento ti aiutasse a migliorare ed a uscire da quella brutta situazione. Ricordo poi, di quei giorni, un tuo forte mal di schiena che già soffrivi la mattina in cui ti trovai legata al letto: ti passò qualche giorno dopo, a seguito di una somministrazione di un antidolorifico. Lunedì mattina, dopo aver parlato con un medico del reparto, mi sembrò di rinascere: mi disse che, a seguito della dialisi, eri migliorata, e che comunque, la situazione doveva essere aggiornata giorno dopo giorno; comunque esordì anche lui dicendomi: «Lei ha visto in che condizioni è arrivata in reparto sua madre...» Dopo di che tornai nella tua stanza per comunicarti la bella notizia, ma tu non eri entusiasta perché riuscivi a mangiare ben poco, avevi i piedi gonfi ed anche un braccio, cosa mai successa, ti si stava gonfiando. Martedì 23 agosto, quando, al mattino, tornai nella tua stanza, mi dicesti una cosa allarmante, che in quel momento non valutai correttamente: mi dicesti che la notte precedente avevi sofferto molto per il freddo e per le difficoltà respiratorie, che inoltre, nessuno si era accorto di tutto ciò, malgrado i tuoi tentativi di avvisare. Nel frattempo continuavi a fare la dialisi e mangiavi, forse, qualcosa in più (soprattutto cibi liquidi). Campanello d'allarme drammatico fu ciò che ti avvenne la notte tra il 23 ed il 24 di agosto: la stessa notte in cui Amatrice ed altri paesi dell'Italia centrale furono colpiti da un forte terremoto. Quando mi vedesti, la mattina del 24, mi facesti un rimprovero che ricorderò tutta la vita: «Quando dovresti essere presente non ci sei mai!», quindi mi parlasti della tua drammatica nottata, in cui avevi avuto una grave crisi respiratoria ed avevi temuto di morire senza che nessuno se ne accorgesse. Quel mercoledì andai a riparlare coi medici e una dottoressa mi avvertì che stavi molto male e che il tuo cuore non ce la faceva più. Uscii dalla stanza dei medici col morale sotto i tacchi e mi avviai verso la tua stanza dove mi accorsi che ti stavano portando in dialisi. Ti seguii fino a quando non giungesti al reparto, ma non ebbi la forza di dirti nulla. Rimasi fuori ad aspettare per un po', poi me ne tornai a casa sovrastato dal dolore e dalla disperazione. Mi avevano detto che tu non ce l'avresti fatta a sopravvivere e per me fu un colpo inaudito. Tornai per l'ora di cena e ti aiutai a mangiare per poi andarmene a lavorare col morale a terra. La mattina dopo ti trovai in discrete condizioni: ti chiesi come avevi trascorso la notte e mi rispondesti con un cenno, come a dire: insomma... Tornai a parlare con i medici che confermarono le tue discrete condizioni. Di quel giorno, inoltre, ricordo che mangiasti molto e da sola, malgrado il braccio e soprattutto la mano sinistra molto gonfi. Mi accorsi poi che cominciavi ad avere dei momenti di scarsa lucidità, visto che cercavi nel letto il tuo accendino (quello che usavi in casa per accendere le sigarette), dicesti: «Mi è caduto e non riesco a vedere dove è andato a finire». Io ti avvertii del fatto che non poteva esserti caduto poiché tu, in ospedale, non potevi fumare. Mi accorsi che ogni tanto i tuoi occhi fissavano il vuoto. La sera facesti una cena abbondante e mi chiedesti, prima che me ne andassi, di metterti a posto il letto. Mi ricordo che il pasto quella sera arrivò in ritardo e che io dovetti lasciarti un po' in fretta per non far tardi al lavoro. Ti salutai non consapevole che quello era l'ultimo saluto; mi salutasti non consapevole anche tu, con un cenno appena. Ti ho persa per sempre quella sera.

 

Mi ritornano in mente molto spesso alcune tue frasi del periodo precedente alla tua morte: mi son rimaste impresse perché dimostrano la tua lucidità, anche a pochi giorni dal decesso; ma, non di meno, sono parole che dicono delle verità incontestabili, soprattutto per quel che riguarda me.

 

"Una volta avevi una madre, ma adesso non ce l'hai più!"

 

Questa frase mi dicevi ultimamente, quando ti accorgevi che il mio comportamento abituale in casa e fuori non era mutato, malgrado il peggioramento delle tue condizioni di salute che ti obbligava a stare praticamente ferma per tutta la giornata: seduta o sdraiata sul divano, impossibilitata perfino a salire e scendere le scale interne. Tutti quei preparatavi, quelle faccende e quei lavori che tu facevi anche per me non potevi farli più; capivi che io non mi ero reso conto di ciò, e continuavo a vivere come se tu fossi in salute. Avevi ragione. Ora mi accorgo veramente quanto fosse fondamentale la tua presenza in casa.

 

"Io me ne sto per andare..."

 

Un'altra frase che mi dicevi alcuni mesi fa, perché percepivi la tua morte vicina. A questa aggiungevi dei rimproveri nei miei confronti per il solito motivo: non realizzavo il fatto che tu stessi per morire e proseguivo a fare errori su errori. Ora che tu non sei più con me, rimango spesso sorpreso per quanto tu ti rendessi conto del fatto che, ormai, ti rimaneva poco da vivere. Eppure hai lottato fino all'ultimo per non lasciarmi da solo.

 

"Non mi hai dato mai una soddisfazione nella vita"

 

Queste parole me le hai dette ultimamente, quando finalmente cominciavi a confessarmi cosa pensavi veramente di me. Prima, probabilmente nascondevi a me i tuoi reali pensieri; non mi dicevi che eri molto delusa per la mia vita totalmente fallimentare: dall'abbandono degli studi universitari al lavoro non certo gratificante che avevo trovato poco prima dei quarant'anni; dalla mia eccessiva timidezza adolescenziale e giovanile che mai cercai di combattere ed eliminare al mio quasi totale isolamento dalla società. Dalla mia incapacità di trovare una ragazza e farmi una famiglia e, magari, darti anche la soddisfazione di essere nonna e di avere un nipotino da accudire. Avevi ragione una volta di più, e ti sei tenuta tutto dentro per decenni.

 

"Quando non ci sarò più ti cadrà il mondo addosso"

 

Può sembrare una frase fatta questa che mi hai detto molto di recente, ma indubbiamente esprime una realtà: da quando te ne sei andata io non ho fatto altro che sprofondare in un abisso sempre più nero; non riesco a vivere senza di te e mi sembra totalmente inutile la mia esistenza. Io trovavo in te l'unica persona di fiducia, a cui confidarmi e a cui chiedere consigli: sapevo della tua intelligenza e del fatto che mi volessi molto bene. Ora mi sento l'essere più solo della terra ed ho soltanto voglia di morire.

 

Ora, molti colleghi e non solo, mi esortano a fare dei viaggi: come se andare di qua e di là come una pallina del flipper potesse giovarmi. Anche, mi consigliano di non rimanere da solo, in casa... Non sanno, mamma, che puoi essere in compagnia di migliaia di persone e sentirti ancora più solo. E' vero che lo stare in casa da solo non è tra le migliori soluzioni per superare un momento così difficile, ma una cosa è certa: non ho bisogno dei consigli di estranei, so sbagliare da me, e so anche di non poter contare su nessuno, di essere solo. Tu soltanto potevi venirmi in aiuto... Ma non ci sei più.

 

Le persone più care che avevo, quelle con le quali ho vissuto i migliori anni della mia esistenza, non ci sono più. Mi chiedo spesso che sto a fare ancora io qui, e perché non sono già morto. Eppure, se anche avessi pensato, in un periodo della mia vita, al suicidio, adesso non riesco a pensarci. Sarà, forse, perché l'essere umano è troppo attaccato a questa vita, e spera in qualcosa di buono anche quando c'è ben poco da sperare. Allora vado avanti, perché bisogna lasciarsi tutto alle spalle e proseguire a vivere (come, non lo so).

 

***

 

E nella tarda mattinata di quel 28 di agosto, la nostra casa mi vide ritornare con la tua borsa, coi tuoi vestiti e con altri tuoi oggetti, ma senza di te. E mentre aprivo il cancello pensavo a quanto fosse desolato quel mio ritorno, perché mai prima di allora avevo captato una tale disperazione, un vuoto senza confini, una voglia di perdermi e di scomparire per sempre. Tu eri già nella morgue dell'ospedale; non da sola, poiché quella stessa mattina erano decedute altre tre persone (due nel tuo stesso reparto). Ho detto che eri lì, ma in realtà, in quello stanzone c'era solamente il tuo corpo straziato, l'anima si era dileguata o era già in un luogo che io non sono in grado di conoscere.

Il giorno dopo mi alzai e tornai in ospedale, dove già ti avevano preparato per la partenza definitiva; eri all'interno della bara, col vestito che io avevo scelto, e avevi l'aria finalmente serena, come mai avevi avuto negli ultimi anni. A vederti mi sentii rincuorato, e già lo ero nell'immediato periodo successivo al tuo decesso, perché sapevo che ormai le tue sofferenze erano terminate. Il tempo dell'agonia, che mi aveva dilaniato l'anima, non potendo più comunicare in alcun modo con te, e non avendo nessuna speranza che tu potessi migliorare, era finalmente passato.

Ricordo bene quel pomeriggio in cui arrivò il carro funebre che ti trasportò al cimitero di Prima Porta; poco prima che chiudessero definitivamente la tua bara, volli toccarti il viso perché sapevo che non avrei potuto più farlo: era l'ultimo contatto tra di noi. Assistetti alla tremenda esecuzione senza soffrire troppo, cercando di stampare nella mia mente la tua ultima immagine.

E arrivò anche il giorno in cui mi consegnarono le tue ceneri, ovvero tutto ciò che rimaneva del tuo corpo. Ma non rimasi impressionato da questo fatto, perché so bene che il corpo, dopo la morte, non ha più alcuna importanza. Se invece esistesse veramente l'anima! Allora tu saresti da qualche parte, chissà dove, e sarebbe possibile, un giorno, raggiungerti. Ma in realtà penso che tu sia viva soltanto in me, nei miei cari ricordi, e finché vivrò tu certamente non morirai, questa la mia sola certezza.

 

***

 

È passato più di un anno da quando te ne sei andata per sempre. Il dolore, pur sempre presente, si è attutito. È sopraggiunta una calma strana: quella che ha chi non ha speranze, chi ha perso già tutto e non può aspettarsi di peggio, chi aveva, al mondo, soltanto una persona che gli volesse bene, e che ora non può temere nulla, perché anche la morte non sarebbe una cosa così tremenda. Spesso mi chiedo il motivo della mia esistenza: non ce n'è alcuno. Però continuo a vivere (o, forse, a sopravvivere) perché non so fare altro. Mi pare che questo ultimo anno sia trascorso più lentamente, ma forse è solo una mia errata impressione. Parlavo della calma interiore di cui mi sento arricchito, e lo posso notare da tanti piccoli fatti: non mi fa più effetto il sentire la sirena dell'autoambulanza, che prima mi procurava una buona dose di angoscia; non ho più, quando esco per andare al lavoro o per altri motivi, la preoccupazione di lasciarti da sola in casa; nemmeno mi preoccupa di ritornare prima che sia possibile a casa, per rivederti. Ogni cosa che mi riguarda, che riguarda il mio futuro, ora ha molta meno importanza perché, qualunque cosa possa capitarmi, non ci sarai tu a soffrirne o a gioirne. Il fatto che ho superato già da qualche anno la cinquantina mi impedisce di avere speranze di trovare una nuova compagnia; non è solo una questione di età, so di avere un carattere che non favorisce assolutamente qualsiasi tipo di relazione; so che il mio destino, per quel che concerne il resto della mia esistenza, è di rimanere da solo. Questo, tutto sommato, nemmeno mi dispiace tanto: ormai sto a poco a poco abituandomi alla solitudine, e spesso penso che soffrirei molto di più se fossi insieme ad una persona con cui mi risulterebbe difficile andare d'accordo e perfino dialogare. Non sono, poi (e tu me lo rimproveravi), una persona che litiga: odio alzare la voce, non sopporto il fatto di alterarmi e non intendo usare violenza di qualsiasi tipo verso chicchessia. Un po' di preoccupazione mi viene soltanto pensando agli anni della vecchiaia: quando, forse, mi comincerà a mancare la salute, e di conseguenza sarò costretto a modificare il mio stile di vita. Ma la terza età, oggi, mi appare ancora lontana e quindi non voglio pensarci. Per oggi ho detto già tante cose e non voglio aggiungerne altre. Ti saluto, dovunque tu sia o non sia,

Leonardo.

 

***

 

Ricordo che, quando c'era mia madre, mi sentivo più sicuro di quando con me ci fosse stato chiunque altro. La sicurezza completa era assicurata quando la tenevo per mano, passeggiando per le strade della città. E quando, a cinque anni fui operato alle tonsille, la prima persona che vidi risvegliandomi fu lei; piansi molto per il dolore, è vero, ma se non l'avessi vista chissà cosa avrei fatto. Era con me quando mi recai a scuola per la prima volta, e nel momento in cui la persi di vista mi disperai. C'era ogni volta che ne avevo bisogno, per qualunque motivo. Anche quando, in determinate situazioni, non ce la facevo a rimanere da solo, e le chiedevo di essere con me. Lei non mi rifiutò mai la sua preziosa e rassicurante presenza, in tutti i momenti difficili. Se avevo dei problemi, ne parlavo con lei, che aveva sempre le parole giuste da dirmi, e sapeva ogni volta rincuorarmi e rassicurarmi. Fui io, semmai, a lasciarla da sola in giorni drammatici, come quello in cui seppe di avere un cancro, o, uno dei suoi ultimi, quando ebbe una grave crisi respiratoria notturna. Ma c'ero in altri momenti complicatissimi in cui lei mi cercava perché aveva bisogno di me, e fui felicissimo di esserci, e di vederla superare delle situazioni che rischiavano di farle perdere la vita. Ora che da qualche anno non c'è più, guardare foto come questa mi provoca uno strazio indicibile e, nello stesso tempo, mi trasmette un senso di tenerezza e d'amore che è difficile spiegare. Allora mi è facile tornare con la mente a quei tempi in cui camminavo insieme alla mia mamma, tenendola per mano, e la mia vita era bellissima, perché stavo sempre insieme a lei, consapevole di essere  il bambino più fortunato e più felice del mondo.

Ora sono quasi tre anni che non è più con me, e dopo il periodo immediatamente successivo alla sua scomparsa, che è stato veramente terribile, comincia a subentrare in me una rassegnazione inconscia, forse dovuta la tempo che passa lentamente e fa sì che l'essere umano possa alleggerirsi del dolore intenso provato nei momenti di perdite importantissime. Però, malgrado ciò, non passa giorno in cui io non pensi ai miei genitori, e mi succede spesso di ritrovarli in sogni che paiono così reali da farmi domandare, quando mi sveglio,  quale sia l'effettiva realtà che sto vivendo. Poi, con grande tristezza, mi accorgo di aver soltanto sognato, e riprendo la mia solita vita, consolandomi del fatto che si avvicini sempre di più il mio ultimo giorno su questa terra.

 

***

 

La perdita delle persone care, ha rappresentato per me una sofferenza che è andata sempre più innalzandosi di livello, per toccare il culmine quattro anni or sono. Ciò che fa più male, quando si perde una persona a cui siamo legati da profondo affetto, è la sicurezza di non poterla vedere più, di non poterci parlare più per il resto della vita che ci rimane. Tale dolore, aumenta sproporzionatamente se non siamo sorretti da una forte fede religiosa, che possa spiegarci in qualche modo il significato della morte, e possa quindi farci pensare che esista un altro mondo dove quelle persone così care si trovino, e sia possibile raggiungerle. Quando, bambino, cominciai a capire che era morta qualche zia lontana che pure conoscevo, non provai quasi nulla; anche quando morì uno zio anziano, che ogni tanto incontravo per strada, non soffrii più di tanto. La percezione della perdita cominciò a farsi sentire maggiormente quando morì mio nonno, anche se la notizia me l'aspettavo, viste le sue assai precarie condizioni di salute; allora avevo diciannove anni, e questo nonno era stato certamente importante per me, avendoci trascorso l'intera infanzia. Malgrado ciò, forse perché mi ero un po' allontanato da lui già da alcuni anni, o forse per chissà quale altro motivo, non soffrii più di tanto, e superai l'evento tragico facilmente. Lo stesso discorso vale per gli altri miei nonni, che, negli anni seguenti, per motivi di età e di salute, vennero tutti a mancare. Un colpo particolarmente pesante fu invece la perdita di mio padre; non poteva essere diversamente, visto che fino a quel momento avevo vissuto sempre con lui e con mia madre. Sebbene fosse malato da tempo, e quindi sarebbero stati probabili il suo peggioramento e la sua scomparsa, quando non ci fu più sentii un vuoto difficilmente descrivibile: era come se fosse morta una parte di me. C'era però mia madre, e questo ovviamente mi consolava e mi dava coraggio; quando però persi anche lei, quella sensazione di vuoto già provata in occasione della scomparsa del mio papà, ritornò ben più intensa e insopportabile. Nei mesi seguenti alla sua morte, pensai anche che non sarei mai riuscito a superare questa crisi nella quale mi trovavo sprofondato. Poi, come si dice, la vita va avanti, e il tempo aiuta a superare anche i lutti più gravi. Però mi accorgo che non ho superato del tutto queste due ultime perdite, perché troppo importanti nella mia esistenza, e assolutamente insostituibili. Lo vedo dal fatto che con la mente vado sempre a cercare, nel mio passato, i momenti trascorsi coi miei genitori; riguardo le loro foto e le mie, mi tornano all'orecchio le loro voci come se fossero ancora con me, li rivedo nei sogni e ci vivo di nuovo, malgrado abbia anche lì, nel sogno, la percezione che sia tutta un'illusione... Insomma, la mia vita attuale è fatta al novanta per cento di passato remoto, e nemmeno m'importa se sia un bene o un male, tanto è importante per me ricordare quelle persone che mi hanno accompagnato per buona parte della vita e che ora non ci sono più.

 

***

 

Ho ripensato al mio primo lutto familiare, o meglio, al primo che io ricordo ancora bene. Fu quando morì mia zia Marilena - una delle sorelle di mio padre - in un ospedale di Milano, a causa di un cancro. Di lei mi rimane appena un debole ricordo dell'unica occasione in cui ebbi modo di vederla e, in parte, conoscerla; fu in uno dei miei viaggi a Senigallia coi miei genitori; mi pare che all'arrivo trovammo, nella casa dei nonni paterni, la zia col marito (che si chiamava Giancarlo); fu allora che, per la prima volta, guardai e salutai Marilena. Io avevo, forse, sei o sette anni, e in verità faccio molta fatica a ricordarla, questa sfortunata parente, sebbene mi aiuti una fotografia di gruppo scattata proprio in quei giorni; quel poco che ricordo è legato alle sue maniere dolci e garbate con cui mi parlava, e al suo volto quasi sempre sorridente. Non so se fosse già malata quando la vidi, fatto sta che di lì a qualche anno venne a mancare. Per me, come è logico, non fu una mancanza particolarmente dolorosa, avendola appena conosciuta, ma ben ricordo ancora i pianti e la disperazione di mio padre, per cui la sua morte rappresentò una perdita molto difficile da elaborare, vista anche la giovane età della zia, che sicuramente non aveva ancora compiuto quarant'anni. Ripensando a zia Marilena, ormai scomparsa da ben 45 anni, mi sono venuti in mente anche gli altri parenti, più o meno vicini, che ho perduto lungo il mio percorso esistenziale; la gran parte sono estinti, gli altri è come se lo fossero.

 

***

 

Tra le cose che maggiormente mi ricordano mio padre, c'è la sua eleganza. Lavorava come impiegato in un ente parastatale, e non aveva, almeno da un certo anno in poi, obblighi di presentarsi in un determinato modo, tipo quello d'indossare per forza la cravatta o di tagliarsi i capelli regolarmente. Però, a lui tutto ciò non interessava, e mi ricordo che, la mattina, quando mi svegliava (verso le sei e mezza o le sette) lo vedevo già quasi pronto per recarsi sul posto di lavoro, con la camicia e i pantaloni; quindi, poco prima di uscire, aveva completato la sua vestizione e lo potevo osservare pettinato, sbarbato e perfettamente preparato per la giornata lavorativa: indossava sempre un completo sobrio e l'immancabile cravatta, sempre intonata perfettamente col vestito; i suoi capelli non erano mai né spettinati, né troppo lunghi. Per lui le stagioni contavano poco o nulla, perché sia d'estate che d'inverno, era facile che uscisse sempre in quel modo; cambiava soltanto il materiale del suo vestito, che nei mesi freddi era di lana o di cotone pesante, mentre d'estate era di seta o di cotone leggero; soltanto nei giorni piovosi e in quelli particolarmente freddi, usava portare un soprabito. L'unico periodo in cui lo si poteva vedere con qualche maglietta a girocollo, sempre e comunque con le maniche lunghe, era quello della villeggiatura; per il resto dell'anno non mutava il suo modo di vestirsi. Ora, se penso ai tempi odierni, e mi capita di vedere un'immensità di persone trasandate, che sfiorano l'indecenza, mi viene spontaneo ricordarmi di lui, che in estate non indossava mai neppure le magliette a maniche corte, né, tanto meno, i calzoncini. In casa, lo vedevo sempre con la camicia (le cui maniche, spesso, erano arrotolate), i pantaloni lunghi e gli zoccoli di legno. Quando usciva, però, non dimenticava quasi mai di indossare un paio di scarpe. Questa immagine di lui, ancora piuttosto giovane e sempre inappuntabile, me lo fa apprezzare molto, perché oggi non mi sembra di riscontrare più questo tipo di comportamento. Forse era già raro all'epoca - sto parlando degli anni settanta - o forse non ricordo altre persone che usassero vestirsi e presentarsi in quel modo. Certamente oggi vedo troppa rilassatezza nel modo di vestire, e, soprattutto nei mesi estivi, guardando la gente che calca le strade dei luoghi dove vivo, ho la netta impressione che l'eleganza, la decenza e il buongusto, siano definitivamente terminate. Le persone preferiscono la comodità, d'accordo, ma tutto ha un limite, e sarebbe opportuno, anche in estate, proporsi in modo dignitoso. Caro papà, come sei lontano...

 

***

 

Mio padre era superstizioso al massimo livello, e a nulla valsero mai le mie critiche nei suoi confronti. Non riuscivo a capire come facesse a credere a certe corbellerie, pur avendo studiato (era ragioniere); per tale motivo gli ripetevo spesso che le sue convinzioni si basavano sul nulla, perché, come tutte le persone razionali ben sanno, la superstizione si fonda su principi improbabili e idee assurde. Delle volte, per convincere il mio genitore, chiedevo un sostegno a mia madre, che era certamente meno credulona, ma alla fine desistevo, soprattutto quando lei mi rispondeva che mio padre era libero di credere in ciò che voleva, e se si sentiva meglio facendo determinati gesti apotropaici o evitando dei comportamenti secondo lui pericolosi, era giusto che mettesse in atto quelle sue convinzioni. Si recò anche in casa di presunti maghi e stregoni, che si facevano pagare bene in cambio di qualche insignificante amuleto e di consigli inutili. Chissà quante persone, questi tipi, hanno truffato nella loro vita, e quante ne trufferanno; ma la credulità della gente è esistita ed esisterà sempre, malgrado l'avanzare del progresso scientifico. Per certe persone pare che il mondo sia rimasto tale e quale a quello del medioevo. Ciò che mi dispiace di più, a ripensarci oggi, è il fatto di avere più volte ridicolizzato o sfidato mio padre, il quale non lo meritava, perché la sua esagerata e ingenua superstizione andava comunque rispettata. Se fosse ancora qui, sicuramente gli porgerei le mie scuse.

Mia madre era un'accanita fumatrice di sigarette, e quando io e mio padre tentavamo di convincerla a smettere, lei si arrabbiava a tal punto, che, cogli anni, entrambi perdemmo le speranze di farla recedere dal suo vizio. Ma, con tutto ciò, visse fino a 78 anni, e invece tante persone che non hanno mai fumato nella loro vita, sono morte ad un'età inferiore. Questo non vuol dire che il fumo non faccia malissimo all'organismo umano, ma, piuttosto, che non è l'unico elemento ad influenzare la durata della vita. Fortunatamente non ho mai preso questo brutto vizio; d'altra parte, nella famiglia di mio padre non esistevano fumatori. Vedo le enormi difficoltà che hanno i tabagisti a smettere, anche quando ci mettono le più buone intenzioni; comunque, per chi non riesce, da qualche anno c'è la cosiddetta "sigaretta elettronica" (e fa male anche lei), che però ho l'impressione non ottenga i risultati sperati da chi la usa, ovvero farli smettere una volta per tutte di fumare.

I miei difetti che hanno fatto dannare maggiormente mio padre e mia madre sono stati la pigrizia, la timidezza e l'introversione. Nulla hanno potuto fare per aiutarmi, malgrado i loro sforzi. Tante le delusioni che ho dato loro a causa di questi difetti e di tanti altri che purtroppo mi appartengono. Ma ora tutto questo non ha più alcuna importanza...

 

 

CAPITOLO III: I RICORDI

 

A mano a mano che gli anni passano e si diventa vecchi, può divenire sempre più piacevole ricordare i tempi passati, compresi quelli in cui si era infelici. Ciò è in parte dovuto, probabilmente, a una circostanza psicologica per cui tutto quello che riguarda il passato è ritenuto migliore del presente; una distorsione della realtà insomma, dovuta al semplice fatto che migliore era non il passato, ma la predisposizione soggettiva verso la realtà e quindi si possedeva una visione più lieta dell'esistenza. La mancanza di esperienza e l'assenza di disillusioni porta, fino ad una certa età, a guardare il mondo che ci circonda in modo positivo; ma col passare degli anni, lentamente si radicano quelle certezze che impediscono di conservare alcun tipo di ingenuità, le illusioni si diradano fino a scomparire e si vede il mondo per quello che è, senza possibili fughe: privo di qualsiasi senso. Così gli esseri umani appaiono nella loro unica realtà: vuoti di sentimenti e di alcun tipo di solidarietà, spietati, spesso ingiusti e quasi sempre inquadrati in quella massa che appare maledettamente disumana, estremamente stupida e superficiale.

Da non sottovalutare è poi l'elemento speranza, che naturalmente in gioventù è molto più accentuato, avendo ogni individuo potenzialmente, in quell'età, davanti a sé molti anni di vita. Altro elemento che pesa in numerosi casi di nostalgia cronica è la inevitabile perdita di persone care, in special modo di quelle che sono più anziane e che magari, per un periodo più o meno lungo hanno occupato un posto essenziale nei nostri affetti, contribuendo non poco anche alla nostra felicità. Giunti a tal punto non rimane che abbandonarsi ai dolci e meravigliosi ricordi del passato, cercare di rivivere, servendoci dei più improbabili strumenti e andando a rovistare negli angoli più celati della mente, quei momenti irripetibili ormai lontani nel tempo; e infine, se possibile, morire di nostalgia.

 

***

 

A volte resuscitano da un non precisato limbo dei ricordi meravigliosi. Può bastare un odore, una visione oppure un'atmosfera ed ecco che la mente ritrova momenti perduti. Questo tesoro nascosto riaffiora lentissimamente e suscita una dolcezza inspiegabile. Gli occhi vorrebbero piangere per l'emozione... Ma in breve tempo tutto svanisce, e non riesco più a trovarli, quegli attimi remoti e felici.

I nostri cari morti ritornano a vivere, in qualche modo, soltanto quando sogniamo; ma nel sogno essi non sono più loro: diventano qualcos'altro. Ho sognato di recente i miei cari, ma avevano dei comportamenti e delle parole differenti. Invece, nei nostri ricordi essi sono più reali, seppure il nostro dolore, la nostra consapevolezza e il nostro razionalismo non li fa rivivere.

Per quanto riguarda i sogni ad occhi aperti, è certo che siano possibili soltanto in età giovanile, quando il mondo ancora ci appare più bello rispetto a quel che è realmente. Così è possibile, o perlomeno più facile, immaginare un futuro radioso: pensare che esistano ancora isole felici. Una volta invecchiati, induriti e inariditi dalla realtà, possiamo sperare soltanto nei sogni ad occhi chiusi.

Le estati trascorrono inutilmente. Eppure fu in questa stagione che la vita conobbe i suoi attimi più intensi di felicità. Per tal motivo, ad ogni avvicinarsi della stagione estiva, la mente prova delle sensazioni piacevoli, come se stesse per accadere qualcosa di magnifico. Ma è solo un'illusione: è l'inconscio che non può fare a meno di reagire a determinate situazioni temporali.  

 

***

 

Difficile è spiegare cosa si può provare, a volte, osservando luoghi, percependo odori, ascoltando rumori... La nostra mente riesce a ritrovare, in un piccolo angolo nascosto e dimenticato da moltissimo tempo, sensazioni, emozioni e felicità che provammo nell'ormai antico regno dell'infanzia: quando avevamo in testa un mondo certamente diverso da quello reale. E allora, in quel mondo bellissimo per pochi istanti è possibile tornarci, grazie a delle percezioni che proviamo per via di situazioni particolari, capaci di riproiettarci in quel regno. Così, diventa giocoforza emozionarsi di nuovo, quasi fossimo rimasti bambini, e tale emozione può portare alle lacrime. 

 

 

Ricordo di un tempo lontano

nella dolce terra d'infanzia.

 

Il sole era pieno di rondini

che il cielo accoglieva

più vivo della luce divina.

 

L'alba nasceva meravigliata

di trovare la strada dei giuochi,

l'orologio segnava ore sognate

nel calore dei cortili e dei campi.

 

Dove sei?

Io ti cerco e ti trovo lontana,

in un paradiso abbandonato

nel tempo dei giardini fioriti.

Tutto quello che ho avuto

 

ho perduto.

 

***

 

La leggenda di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, quella dei paladini di Carlo Magno: Orlando e Rinaldo, la storia dei templari o dei crociati e infine le imprese di Ettore Fieramosca, Giovanni dalle Bande Nere ed altri condottieri hanno affascinato e meravigliato la mia infanzia. Le bellissime armature, gli elmi, le spade, le lance e poi i castelli, i cavalli e tanti altri personaggi e oggetti tipici del Medioevo mi attrassero moltissimo da quando avevo appena sei o sette anni. Fu un'emozione incommensurabile ricevere come regali, la sera di un lontano Natale, i soldatini dei cavalieri medioevali ed un magnifico castello delle costruzioni Lego: passai giornate intere a inventare e a costruire con quei preziosissimi oggettini colorati un mondo ineguagliabile. Sempre relativi al periodo infantile sono i ricordi dei fumetti del Cavaliere Nero (Black Knight) pubblicati dalla Marvel Comics ed i disegnini che facevo (in realtà molto fantasiosi e assai distanti dalla realtà) di questi mitici guerrieri. Mondi lontani che appartengono all'immaginazione e al mito, che ora sono soltanto un piacevolissimo ricordo.

 

***

 

Chi ha almeno una quarantina di anni, non può non ricordare i magazzini della Standa. L'inconfondibile marchio scritto in bianco su sfondo rosso che si poteva trovare in qualunque città o cittadina italiana fino a circa una ventina di anni or sono. Erano, quelli della Standa, i grandi magazzini e i supermercati più famosi e frequentati d'Italia. L'azienda che gli faceva più concorrenza era la UPIM, ma si può ben dire che la Standa, grazie ad una ottima organizzazione, ebbe sempre il sopravvento sulla rivale. Quando ero piccolo, non esistevano altri magazzini che non fossero la Standa: nel mio quartiere, nella mia città e anche nei luoghi dove vivevano i miei nonni, c'era sempre un magazzino Standa e un po' tutti i componenti della nostra famiglia vi si recavano per fare gli acquisti più svariati, che concernessero l'abbigliamento, la scuola, la cucina o lo svago. Naturalmente i miei ricordi sono legati al reparto suola e a quello giocattoli, ma, crescendo, non ho mancato di frequentare anche gli altri reparti. Perché la Standa sia scomparsa non lo so bene, fatto sta che dal 1998 non c'è più.

 

***

 

Era l'agosto del 1986, non mi ricordo il giorno preciso, ma, quasi certamente, era intorno a Ferragosto. Dai primi di luglio stavo facendo il servizio militare, e, dopo un mese di CAR trascorso ad Orvieto, ero stato trasferito da alcuni giorni a Piacenza per fare un corso da fuoribordista che sarebbe durato tre mesi circa. In quei giorni avevo ottenuto un permesso o un congedo provvisorio (non ricordo quale fosse il termine tecnico) che mi dava la possibilità di tornare a casa per qualche giorno. Era il primo che ottenessi, e ne ero felicissimo, poiché sentivo in modo molto forte la mancanza dei miei e della mia casa. Quel mattino di metà agosto, col foglio di congedo in mano, abbandonai la caserma Nicolai della città emiliana e mi diressi alla stazione speditamente. Era un giorno molto caldo, come è normale che avvenga ad agosto, nel pieno dell'estate; ma più che l'afa, quel che ricordo è il groviglio dei miei pensieri mentre attendevo l'arrivo del treno alla stazione. Non avevo preso bene quell'anno di leva: era divenuto, per me, una vera tragedia. Passavo molto tempo a piangere, mi disperavo perché incapace di affrontare un periodo così lungo lontano dai miei e dalla mia casa. Prima di partire, ricordo di essere passato ad un edicola, e di aver comperato tre o quattro riviste insieme ad un giornalino a fumetti dell'uomo ragno. Il fatto è che, pur avendo già vent'anni, io ero, sostanzialmente, ancora un ragazzino impaurito da certe situazioni, sicuramente ancora immaturo. Quando il treno diretto a Roma arrivò alla stazione, salii e subito scoprii che era quasi vuoto. Fui quasi felice di avere uno scomparto tutto per me (e lo rimase per tutto il viaggio); mi accomodai e cominciai a godermi questo viaggio verso casa. Fu uno dei viaggi più belli della mia vita. A mano a mano che il treno avanzava, passando da stazione a stazione, la mia felicità aumentava: sentivo avvicinarsi l'agognata meta e in cuore provavo un senso di benessere che raramente ritrovai in seguito. Ho sempre amato viaggiare in treno: mi dà un senso di rilassatezza che non trovo viaggiando con altri mezzi. Guardo di fuori, dal finestrino, e mi godo il paesaggio che cambia in continuazione; mi godo le stazioni, che mi danno una sensazione particolare difficilmente spiegabile; e mi godo infine l'arrivo. Durante il tragitto Piacenza-Roma, che, per quel che ricordo, durò sei ore circa, passai il tempo leggendo riviste e giornalini, guardando i paesaggi dal finestrino, contando sul libro dell'orario ferroviario le stazioni mancanti per giungere alla capitale, mangiando un paio di panini quando avevo fame, facendo un sonnellino nei momenti di noia... Ma, in determinati momenti, mi lasciavo attraversare da pensieri di vario tipo. Tra gli altri, mi ricordo che ripensai ad una canzone famosa di Francesco De Gregori, uscita un po' di anni addietro: "Generale". La ricantavo con la mente e ricordavo, più di tutto, gli ultimi versi: «Generale queste cinque stelle / queste cinque lacrime sulla mia pelle / che senso hanno dentro al rumore / di questo treno che è mezzo vuoto / e mezzo pieno e va veloce / verso il ritorno, tra due minuti / è quasi giorno, è quasi casa, / è quasi amore». Mi immedesimai in queste parole e mi chiesi il senso di un servizio militare che allora (purtroppo) era obbligatorio; pensai alle tante mie lacrime versate in quei giorni, al treno semivuoto che si avvicinava alla mia casa, alla mia famiglia che mi attendeva... Quando il treno si avvicinò a Roma sentii in cuore un immenso piacere: vidi le case nei pressi della stazione Termini e mi parvero le più belle del mondo. Arrivai verso sera e trovai ad attendermi in stazione i miei genitori. Appena scesi andammo in un bar dove ebbi modo di dissetarmi (avevo finito da tempo le mie scorte di liquidi): bevvi tutta d'un fiato la migliore limonata che io mi ricordi, poi ci avviammo verso la sospirata casa. Non racconterò del dolore e dei pianti quando fui costretto a riprendere il viaggio verso Piacenza.

 

***


Nell'estate del lontano 1986, anch'io, inconsapevolmente, ho vissuto la mia parentesi crepuscolare. Allora avevo appena vent'anni (proprio l'età di Sergio Corazzini quando pubblicò le sue ultime raccoltine di versi); stavo facendo il servizio militare e, dopo aver trascorso un mese ad Orvieto, uno dei primi giorni di agosto partii, insieme ad altri commilitoni, verso una caserma di Piacenza. Nella città emiliana rimasi circa tre mesi, per poi essere trasferito definitivamente a Roma. Di quel periodo ancora ricordo perfettamente le domeniche estive: quando noi militari eravamo liberi di fare ciò che volevamo per l'intera giornata. Quasi tutti i soldati, in quel giorno della settimana, partivano col treno verso le città limitrofe, in cerca di avventure. Io e pochi altri, invece, forse per pigrizia o per malumore, restavamo in caserma. Però non riuscivo a stare in quel luogo opprimente e da me odiato intensamente: avevo bisogno comunque di uscire da lì. Allora mi succedeva spesso di vagabondare per le strade di Piacenza, quasi deserte in quelle giornate agostane. Ricordo il corso principale, che attraversavo più di una volta dal mattino alla sera; ricordo un interminabile viale alberato che mi piaceva, e in cui ogni tanto, grazie alla presenza di numerose panchine, mi riposavo un po'. Erano, queste domeniche estive, quasi sempre assolate; spesso, non rientravo neppure per l'ora di pranzo, e mi accontentavo di mangiare qualche panino dentro ad una tavola calda o un bar. E quante volte - ricordo perfettamente - venivo sopraffatto dalla nostalgia di casa mia; in quei momenti non riuscivo a trattenere le lacrime e cercavo un posto isolato, dove potermi sedere e piangere in pace. Ricordo anche la noia, e il tempo che mi pareva non trascorresse mai. Ora, ripensandoci, le sensazioni che provavo molto somigliano a quelle descritte in modo superlativo dai poeti crepuscolari (le famose domeniche morettiane); io allora ignoravo l'esistenza di questi poeti, eppure, inconsapevolmente, già nella mia vita c'erano delle cose che mi accomunavano a loro: stavo provando ciò che quei poeti avevano provato ben ottanta anni prima.


* * *

 

Delle mie tante sortite al centro di Roma mi rimane ben poco. Ero troppo concentrato sugli acquisti che dovevo fare, per godermi la bellezza della Città Eterna. Probabilmente mi è successo di passare - senza accorgermene - più volte davanti a statue, fontane, palazzi e chiese che tutti i turisti bramano di vedere da vicino, di visitare più dettagliatamente possibile; mi ricordo maggiormente - strano a dirsi - le immagini di Roma che mi si pararono davanti agli occhi nelle rare occasioni in cui ho avuto la necessità di prendere un taxi, oppure, parlando della mia età giovanile, quando usavo l'autobus di frequente; in quest'ultimo caso, però, era anche necessario che trovassi un posto a sedere durante il tragitto (cosa rara in verità, soprattutto nella capitale). Ma le più belle immagini di Roma che io ricordi, le assimilai nel periodo in cui mi recavo spesso all'Ospedale "Fatebenefratelli", dove furono al ungo ricoverati sia mia madre che mio padre; lì, passeggiando all'esterno dell'edificio ospedaliero, mi soffermavo a guardare dei panorami di straordinaria bellezza; e sebbene fossero per me dei momenti dolorosi e tristi, la vista di quella città meravigliosa attenuava in parte il mio soffrire, soprattutto in giornate di sole, quando l'indicibile magnificenza della città capitolina è percepita dagli occhi in modo completo.

 

***

 

Qualche mese fa, in un tardo pomeriggio estivo e assolato, stavo camminando in direzione della casa di un mio amico, quando ad un tratto, forse perché era tanto tempo che non percorrevo un tragitto di strada piuttosto lungo a piedi, mi sono venute in mente le mie innumerevoli camminate per le vie di Roma, risalenti a tanti anni fa (e mi sembra ieri!). Ricordo che, disoccupato e libero da qualunque impegno, almeno due volte al mese amavo fare delle sortite nel centro della capitale italiana - io abito in una frazione di Roma che si trova a metà strada tra la città capitolina e Lido di Ostia -, anche e soprattutto con l'intento di fare compere e di infoltire le mie collezioni di musicassette, videocassette e libri. Partivo subito dopo aver pranzato, verso le due del pomeriggio, e mi recavo alla stazione, dove aspettavo un piccolo treno che mi avrebbe portato ad un'altra stazione: quella della metropolitana; da lì mi era possibile andare direttamente nei luoghi che preferivo, dove mi attendevano negozi di dischi e videocassette, nonché librerie grandi, ben rifornite e quindi in grado di soddisfare alcune delle mie ricerche. In verità, parlando specificatamente di libri, devo dire che di tutte le occasioni in cui visitai le tante librerie di Roma che conoscevo, molto raramente tornai a casa soddisfatto degli acquisti giornalieri. Inizialmente, non avendo ancora una conoscenza approfondita della materia che più mi stava a cuore: la poesia italiana dell'Ottocento e del Novecento, mi indirizzavo verso scelte che potessero ampliare la mia acquisizione di nozioni, e quindi comperai molte antologie; all'interno di questi volumi consistenti, alcuni dei quali superavano le 1000 pagine, ebbi modo di scoprire nomi di poeti a me fino ad allora totalmente sconosciuti; quelle poche poesie che venivano riportate all'interno, a volte mi bastavano per capire se un poeta rientrava nei miei gusti o meno; in caso di risposta affermativa, non indugiavo, nelle sortite successive, a cercare tra gli scaffali di tutte le librerie il suo nome. Purtroppo, ben presto mi resi conto che alcuni di questi poeti non erano presenti nei cataloghi di un po' tutte le librerie, grandi o piccole che fossero. Ecco perché, col tempo, compresi che era divenuto quasi inutile ogni mio viaggio verso Roma nato con l'intenzione di trovare chissà quale libro impossibile. Qualcosa, col tempo, ebbi modo di trovare grazie alle novità editoriali, che però riguardavano in genere piccole case editrici, che pubblicavano nuove edizioni di vecchi libri, probabilmente senza alcun intento commerciale, col solo scopo di far riemergere da un lontano passato, qualche poeta ormai completamente dimenticato. L'avvento di internet, e della possibilità di cercare qualsiasi tipo di libro - vecchio o nuovo che sia - tramite il Web, e di acquistarlo facendoselo spedire a casa, cambiò drasticamente le mie abitudini, e i miei viaggi verso Roma, che avevano il solo intento di rimpinguare le mie collezioni, divennero sempre più radi, per poi terminare del tutto.

E ripensando a quei lontani giorni, mi sono tornate in mente le piccole emozioni, le brevi gioie che mi scaturivano dall'aver trovato un libro per me preziosissimo; e i miei viaggi di ritorno, che mi sembravano lunghissimi perché non vedevo l'ora di leggere quel libro tanto ambito (e se il treno in cui viaggiavo non era troppo affollato, non indugiavo a sfogliarlo immediatamente). Ricordo anche tanti di quei pomeriggi trascorsi a camminare: pomeriggi afosi, piovosi, rigidi, grigi, assolati... e mi fa un effetto strano, rendermi conto che sono passati di già almeno vent'anni!

Da quei viaggi, e soprattutto dalle delusioni nate a causa dell'impossibilità di trovare ciò che intensamente cercavo, nacquero questi inutili versi, con cui chiudo questo inutile discorso.

 

 

Pensieroso, insoddisfatto

vagavo nelle viùcole

della città eterna

in cerca di vecchi volumi,

di parole scolpite

e misteriose.

Il mite pomeriggio invernale

pian piano moriva

lasciando alla sera

gelida e triste

l'ingrato compito

di uccidere il giorno.


***

Camminavo per le vie affollate di Roma, forse era d'estate ed io non avevo neppure trent' anni. Era di pomeriggio: ero uscito dopo giorni e giorni in cui ero rimasto in casa; cercavo di evadere da quella specie di prigione domestica, pur non sapendo bene dove andare, cosa cercare. All'improvviso, fui sopraffatto dalla disperazione, pensando, in mezzo a tutta quella gente che mi passava davanti, alla mia solitudine; questa era divenuta intollerabile, proprio lì, in mezzo alla folla indifferente, che io non conoscevo affatto, che ignoravo e che m'ignorava; pensai allora ai miei, che erano in casa ed attendevano il mio ritorno, sperando avvenisse in breve tempo. Fu in quel momento che,  con le lacrime quasi affioranti dai miei occhi, mi diressi verso la stazione della metro, per tornare a casa. La mia sensazione di solitudine, durante quel mio vagabondare senza meta, si  era ingrandita in maniera abnorme; soltanto nella mia casa, insieme ai miei cari, tale sensazione insopportabile poteva scomparire. Non potevo trovare nulla di buono, per me, nelle strade cittadine piene di persone e, nello stesso tempo, piene di solitudine.

Camminavo per le vie affollate di Roma, forse era ancora estate ed io non avevo neppure trent'anni...

 

 

CAPITOLO IV: GLI ANNI '70

 

Ho ormai la fissazione degli anni '70: vado a cercare film, video musicali, immagini, giornali, riviste e tante altre cose di quegli anni. In particolare mi piace rievocare il periodo che va dal 1975 al 1979. E' come se, riguardando certe cose di quegli anni, riuscissi a riviverli (e la cosa incredibile è che a volte ho l'impressione di riuscirci). Qualcuno mi dice che a quel tempo ero troppo piccolo, e che dovrei ricordare con nostalgia più gli anni '80 che il decennio precedente; ma io gli anni '80 li detesto, e, tra le altre cose, non fui mai felice in quei dieci anni.

 

***

 

1974: i miei ricordi forse cominciano da lì. Fu un anno duro il '74 per l'Italia e gl'italiani: un anno di crisi economica e, soprattutto petrolifera, che portò ad una "austerity" imprevista e forzata, come le domeniche di divieto di circolazione che inizialmente coinvolse tutti i veicoli a motore, poi fu ristretto alle auto con targhe pari o dispari a rotazione. Ma per me era un periodo decisamente felice: frequentavo la terza classe elementare e, oltre a un po' di studio, non pensavo ad altro che al gioco. Cominciai allora ad interessarmi di calcio, comprando le prime figurine Panini; ricordo l'entusiasmo di aver trovato, all'interno di un pacchettino, quella di Tarcisio Burgnich, all'epoca (ancora per poco) difensore granitico dell'Inter e della Nazionale Italiana.

Cominciai a tifare seriamente per il Milan, che in quel periodo non dava molte soddisfazioni ai suoi sostenitori, e riconobbi come mio idolo un'ala col vizio del goal: Luciano Chiarugi.

Ma quell'anno fu la Lazio di Maestrelli e Chinaglia a vincere il meritato scudetto, il primo della sua travagliata storia, e fu quindi un fatto eccezionale per la città di Roma, così appassionata di calcio che i suoi abitanti non fanno che parlarne da mane a sera. È pur vero che i laziali nella capitale son sempre stati in minoranza rispetto ai romanisti, e quindi anche quel fatidico anno la notizia non fece scalpore più di tanto.

In quel periodo, a cominciare dal pomeriggio, in casa mia si accendeva la Tv, e ricordo bene i cartoni animati visti con passione del "Braccobaldo Show", quelli di "That's all folks!" (con i mitici Bugs Bunny, Gatto Silvestro, Willy Coyote, Beep Beep e tanti altri); così come ricordo i telefilm ed i film. Ma soprattutto mi piace ricordare Carosello, programma breve del primo canale Rai, posto tra il Tg serale e il palinsesto della prima serata, mi pare che andasse in onda tutti i giorni. Erano, in sostanza, dei consigli pubblicitari di svariati prodotti, ma messi in modo che, prima della promozione, vi fosse un veloce spettacolino, che a volte consisteva in uno sketch comico, a volte in un cartone animato, un cortometraggio di tipo cinematografico e così via. A me, naturalmente, piacevano di più i cartoni, tra cui ricordo Calimero, Cimabue e la mitica Linea di Osvaldo Cavandoli.

- Dopo Carosello - all'epoca si diceva - i bambini vanno a dormire! - Ma non era il caso mio, perché i miei mi permettevano di rimanere sveglio ancora per un po', e io ne approfittavo per tornare ai miei giochi o per continuare a guardare la Tv. A quest'ultimo proposito, se non sbaglio, proprio all'inizio del '74, in prima serata andò in onda un varietà rimasto nella storia della televisione, perché le conduttrici erano due primedonne per la prima volta a confronto diretto: Mina e Raffaella Carrà, il programma s'intitolava "Mille luci".

Tornando al calcio, fu quello l'anno dei Mondiali di calcio, che si disputarono in Germania, e sono i primi che io ricordi abbastanza bene. Feci perciò in tempo a vedere, con la maglia azzurra, grandi campioni che poco dopo non avrebbero più rappresentato la Nazionale come Gianni Rivera, Sandro Mazzola e Gigi Riva. Certo, quei mondiali furono deludenti per l'Italia, che fu eliminata già al primo turno da Polonia e Argentina. Forte è però ancora il ricordo di quell'indimenticabile finale tra Germania Ovest ed Olanda, due squadre piene di campioni tra i quali spiccavano i due capitani: Franz Beckenbauer e Johan Cruijff.

Era anche il periodo delle canzonette che allora ascoltavo facilmente alla radio, ma non era difficile sentirle anche alla televisione, dove esistevano delle trasmissioni dedicate proprio ad esse. C'erano poi i juke-box, ancora in auge nel 1974, grazie ai quali, con pochi spiccioli, era possibile godersi e rigodersi il proprio motivetto preferito. In quel preciso anno spopolarono canzoni come "Alle porte del sole" di Gigliola Cinquetti, "Piccola e fragile" di Drupi e "E tu" di Claudio Baglioni.

Fu un anno ricco di fermenti politici e sociali il '74, e in Portogallo, alla fine di aprile, vi fu la "Rivoluzione dei Garofani" che portò alla caduta del governo dittatoriale e alla nascita di un nuovo governo decisamente più democratico. In Italia aumentava l'urgenza di un problema grosso quale allora era il terrorismo; proprio il 28 maggio di quell'anno a Brescia ebbe luogo uno degli attentati più vili e dolorosi della storia d'Italia: il massacro di Piazza della Loggia. Un ordigno esplosivo, piazzato da un gruppo terroristico di estrema destra, esplose quel giorno all'improvviso, mentre la piazza era piena di gente che assisteva ad una manifestazione; morirono otto persone e un centinaio rimasero ferite.

Sempre in maggio ci furono le votazioni per il referendum sul divorzio: vinsero i "NO" che poi significava "SÍ" e perciò da allora gli italiani poterono divorziare quando e come volevano. Tra le altre notizie importanti di quel lontano maggio, una bella fu la cattura del boss mafioso Luciano Liggio.

Arrivò la tanto sospirata estate e finirono le scuole. Così, ebbi la possibilità di dedicarmi completamente ai giochi e al divertimento: giornate intere trascorse sul cortile della casa dei nonni, giocando con gli altri compagni a pallone, a nascondino, a macchinine o a soldatini. Poi ad agosto le vacanze ad Andalo, sulle Dolomiti; quindi ancora gioco, fino ad ottobre: mesto mese del ritorno a scuola.

Eppure a ricordarlo quel periodo trascorso nelle aule scolastiche delle elementari, oggi sembra bellissimo. Meravigliosi poi erano quei libri di testo che contenevano favole, brani letterari, poesie e filastrocche; vi comparivano autori che in gran parte oggi sono totalmente dimenticati, ma che io ricordo benissimo e ogni tanto vado a rileggere: Gianni Rodari, Térésah, Angiolo Silvio Novaro, Umberto Saba, Milly Dandolo, Diego Valeri, Giuseppe Fanciulli e in particolare due: Giovanni Pascoli e Renzo Pezzani.

Ma tornando a parlare di politica, anche l'estate e l'autunno del '74 furono prolifiche di eventi importanti, a cominciare dalla fine, nel luglio di quell'anno, del terribile Regime dei Colonnelli in Grecia, dove, così come in Portogallo qualche mese prima, tornò gradualmente la democrazia. Poi, purtroppo, un'altra strage terroristica che colpì il nostro paese, esattamente il 4 di agosto, quando a S. Benedetto Val di Sambro una bomba esplose all'interno di un vagone del diretto Roma-Monaco, causando ben 12 vittime e una quarantina di feriti. L'attentato passerà alla storia come "Strage dell'Italicus" dal nome del treno dove avvenne la sciagurata esplosione.

Sempre nell'ambito del terrorismo, a settembre c'è anche una buona notizia: vengono infatti catturati i due fondatori delle Brigate Rosse: Renato Curcio e Alberto Franceschini; ad ottobre verranno arrestati altri esponenti sempre delle BR.

E l'anno così si avvia verso il suo termine, fra notizie di crisi governative, licenziamenti a causa della crisi economica e continui episodi di criminalità dilagante, che spesso ha a che vedere col terrorismo.

Si arriva al Natale, e all'inaugurazione dell'Anno Santo, ovvero il 1975. Toccò all'allora pontefice Paolo VI aprire, come vuole la tradizione, la porta santa e proprio in quell'occasione, a sorpresa, il papa si vide cadere a pochi centimetri di distanza dei calcinacci che rischiarono seriamente di colpirlo.

 

Fu un anno tutto sommato tranquillo, il 1975, almeno rispetto a quello che lo aveva preceduto. Cominciando col parlare di televisione, nel gennaio del '75 andò in onda l'ultima puntata di una storica trasmissione: Canzonissima; i vincitori furono Wess e Dori Ghezzi, coppia che già aveva ottenuto un buon successo negli anni precedenti, ma che ne ebbe ancor di più in quell'anno, grazie soprattutto alla canzone che trionfò a Canzonissima: "Un corpo e un'anima".

Sempre in gennaio venne trasmesso dal primo canale lo sceneggiato "Mosè", di Gianfranco De Bosio; malgrado sia oggi completamente dimenticato io lo rammento ancora molto bene, anche perché poteva vantare la presenza di grandissimi attori, tra i quali il protagonista Burt Lancaster, e poi Anthony Quayle, Irene Papas e Ingrid Thulin.

Passando al calcio, il campionato di serie A rimane incerto fino alla primavera, quando Juventus e Napoli s'involano per disputarsi, nel finale, la vittoria; furono i bianconeri a spuntarla. Il Milan riesce a stare in corsa fino a febbraio, fino cioè allo scontro diretto con la Juve, svoltosi a Milano, che lo vide perdente a tavolino, a causa di alcuni petardi lanciati in campo nel fine partita, che scoppiarono a due passi da Pietro Anastasi, il quale rimase in terra stordito e fu costretto ad uscire dal campo.

Furono molti gli episodi di cronaca nera in Italia che si susseguirono nel 1975, molti dei quali legati al periodo del terrorismo, che continuava a preoccupare molte persone costrette, magari per lavoro, a frequentare le strade cittadine di Milano, Torino, Bologna e Roma, dove spesso accadeva d'imbattersi in scontri tra forze dell'ordine e i dimostranti, oppure di essere testimoni diretti di veri e propri episodi di violenza e di delinquenza metropolitana. Tra tutte le notizie dell'anno, scalpore fece l'incredibile, increscioso episodio avvenuto al Circeo, luogo balneare vicino Roma dove due povere ragazze furono rapite, seviziate, torturate e ridotte in fin di vita da un branco di ragazzi appartenenti ai gruppi politici di estrema destra. Le vittime furono temporaneamente abbandonate all'interno di un bagagliaio di un'auto dai loro aguzzini che erano convinti della morte di entrambe. In realtà una delle ragazze era ancora viva e riuscì a salvarsi, raccontando l'accaduto alla polizia. Il fattaccio passerà alla storia come il "Massacro del Circeo".

Per me anche il 1975 fu un anno felice; attendevo con ansia la primavera e il bel tempo per uscire di casa e divertirmi. Nell'attesa, a scuola, disegnavo le rondini, le messaggere della bella stagione.

Arrivò la primavera e poi l'estate: un'altra estate meravigliosa: mi alzavo presto, al mattino, e andavo dai nonni, dove iniziava la lunga giornata ricchissima di eventi, di sorprese, di estasianti avventure; è stato un tempo incredibile, è impossibile definirlo oggi ma resta nella mente come qualcosa di mitico, d'irripetibile, una cosa che soltanto il periodo infantile può riservare: a ripensarci mi sembra di esser vissuto in un altro mondo, un'altra dimensione fuori dal tempo e dalla realtà.

Le canzoni trasmesse dalla radio continuavano a entrarmi nelle orecchie senza quasi volerlo, in quell'estate ricordo che si ascoltavano molto "Tornerò" dei Santo California, "Buonasera dottore" di Claudia Mori e "Sabato pomeriggio" di Claudio Baglioni.

Poi venne settembre e la partenza per le vacanze al mare, sulla costa adriatica dove abitavano gli altri nonni. Impossibile per me dimenticare anche quei luoghi: una casetta antica e accogliente, il lungomare tranquillo, la spiaggia di sabbia fina fina e il mare (l'Adriatico) placido come è raro vedere un'altra distesa d'acqua. In quegli inizi di settembre che facevano percepire l'arrivo prossimo dell'autunno, sul litorale marchigiano si aveva la netta sensazione di una festa che sta per concludersi, con gli alberghi che lentamente ma inesorabilmente si svuotavano, le spiagge sempre più deserte e il lungomare ormai tutto per noi.

Poi arrivò di nuovo l'autunno che portò grandi onori all'Italia e in special modo a Renato Dulbecco ed a Eugenio Montale, due illustri connazionali ai quali fu assegnato il Premio Nobel rispettivamente per la medicina e per la letteratura. A proposito di letteratura impossibile non ricordare l'assassinio dello scrittore e regista Pier Paolo Pasolini, avvenuto ad Ostia il 2 novembre di quell'anno.

A novembre si ha la notizia della morte, in Spagna, del dittatore Francisco Franco, il che significava la fine di un lungo periodo oscuro per il paese iberico e, finalmente, la possibilità di instaurare un governo democratico, così come era successo l'anno prima in Portogallo e in Grecia: è forse in questo periodo storico in cui si comincia a pensare alla opportunità di fondare un'Europa unita che abbia come basi fondamentali e irrinunciabili la democrazia, la libertà e la pace. 

 

Quando vado a cercare nei miei ricordi lontani mi accorgo che alcune cose restano maggiormente di altre: in particolare i programmi televisivi e le canzonette, come se fossero delle vecchie fotografie capaci di far riaffiorare momenti ormai quasi dimenticati. Il 1976 per esempio, lo ricordo per uno sceneggiato televisivo di grandissimo successo: "Sandokan", che si rifaceva al romanzo avventuroso di Emilio Salgari "Le tigri di Mompracen"; andò in onda in prima serata sul primo canale Rai a gennaio e a febbraio di quell'anno.

Il 6 maggio accadde una tragedia nazionale: il Friuli venne colpito da un terribile terremoto (10° grado della scala Mercalli) che rase al suolo molti paesi e paesini della zona. Alla fine furono contati quasi mille morti, circa tremila feriti e molte migliaia di persone rimaste senza una casa. Io a dieci anni mi resi conto per la prima volta di come fosse facile e imprevedibile perdere tutto (anche la vita) senza alcun motivo.

Passando a tutt'altro argomento, a metà di maggio il Torino vinse il campionato di calcio e conquistò il nono scudetto della sua gloriosa storia. Era una squadra veramente forte, quella guidata da Luigi Radice; tra i calciatori più rappresentativi si possono ricordare sicuramente i "gemelli del goal" Francesco Graziani e Paolino Pulici, due attaccanti implacabili, e Claudio Sala, soprannominato "poeta del goal", una mezza punta di vera classe che, coi suoi magnifici assist, permetteva ai due bomber di mettere a segno le loro numerose realizzazioni.

Continuo a parlare di sport perché per un bambino di dieci anni, come ero io allora, insieme alla scuola, ai giochi e alla televisione c'era soprattutto lo sport: seguito molto assiduamente anche dai miei parenti (in particolar modo da mio padre).

Maggio e giugno sono mesi ricchi di soddisfazioni per due atleti italiani: è in questo periodo infatti che il noto campione del ciclismo Felice Gimondi vince il suo terzo Giro d'Italia, mentre un altro campione, il tennista Adriano Panatta, trionfa sia agli Internazionali d'Italia che agli Internazionali di Francia. Sei mesi dopo in Cile vi fu un altro trionfo per il tennis italiano con la vittoria della ambita Coppa Davis. Io a quei tempi possedevo una biciclettina con la quale, appena possibile, mi divertivo alquanto a scorrazzare per i vicoletti del mio borgo. Sempre in quel periodo ebbi in regalo una piccola racchetta e cominciai a capire quali fossero le regole di una partita di tennis.

E intanto incominciava un'altra indimenticabile estate: dopo gli esami mi congedai dalla scuola elementare di cui conservo nel cuore tanti bellissimi, incancellabili ricordi (e rimpianti).

Anche quell'estate del '76 fu ricca di canzoni; tra quelle che più ricordo potrei citare "Margherita" di Riccardo Cocciante, "Ramaya" di Afric Simone e "Fernando" degli Abba.

Ma fu anche un'estate triste e inquietante: il 10 luglio del 1976, dall'azienda ICMESA di Meda avvenne un disastroso incidente che causò la fuoriuscita di una nube tossica, di diossina, che si sparse rapidamente nei comuni circostanti l'area del disastro; il più colpito fu Seveso, qui e in altre zone della Brianza gli abitanti furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni e molti di loro ebero problemi di salute; la vegetazione della zona colpita morì in breve tempo.

Tornando a parlare di sport, la stagione estiva fu particolarmente ricca di eventi memorabili, a cominciare dalle Olimpiadi, che quell'anno si svolsero a Montreal, in Canada, e furono le prime che io ricordi di aver seguito con grande interesse. Rammento soprattutto le gare di atletica leggera: la straordinaria cavalcata di Edwin Moses nei 400 ostacoli; la delusione per il 4° posto di Pietro Mennea nei 200 metri ed altro ancora.

Incominciai, in quel periodo, a seguire in TV qualche gara automobilistica di Formula 1, anche se non ero davanti al teleschermo il 1° di agosto, quando sul circuito tedesco del  Nürburgring, il campione uscente Niki Lauda, con la sua Ferrari ebbe un incidente tremendo: la monoposto dopo un fortissimo impatto s'incendiò e fu solo grazie al pronto intervento di altri piloti sopraggiunti sul luogo dell'incidente nel frattempo, che il pilota austriaco riuscì a salvarsi.

E arrivò di nuovo l'autunno che per me significava l'inizio delle scuole medie inferiori: non più grembiuli, non più suore e preghiere ma nuovi compagni, nuovi insegnanti, nuove materie e tre anni da affrontare con impegno per conseguire l'attestato di Licenza Media.

E infine arrivò il Natale: avevo quasi undici anni e i regali che trovavo sotto l'albero non mi entusiasmavano come qualche anno prima; oltretutto non c'erano più sorprese per me, in quanto andavo io stesso a scegliere i miei giocattoli preferiti nei negozi qualche giorno prima del 24 dicembre. La sera, scartando i pacchi, sapevo cosa avrei trovato all'interno. Anche la leggenda di Babbo Natale, quindi, era orami per me una favoletta per i bambini più piccoli e ingenui; mentre la povera Befana, a cominciare dal 1977, non sarebbe stata più festeggiata.

 

Se non avessi i ricordi... Sono loro che mi aiutano a vivere, senza di essi la mia esistenza sarebbe molto più triste; fu lo scrittore Jean-Jacques Rousseau ad esprimere magistralmente questo concetto nelle sue "Confessioni", quando scrisse: «La mia immaginazione, che in gioventù correva sempre avanti ed ora va a ritroso, compensa con quei dolci ricordi la speranza perduta per sempre. Più nulla nell'avvenire vedo che mi tenti; solo i ritorni del passato possono lusingarmi, e questi ritorni così vivi e veri nel tempo di cui parlo mi fanno sovente vivere felice a dispetto delle mie sventure». Ed io allora ripenso al 1977 e mi accorgo di possedere ancora tantissimi lieti ricordi di quell'anno fantastico. Cominciando con la televisione, che, nel bene o nel male, entrava senza chiedere permesso nella vita di molti, all'inizio di quell'anno (il 1° di gennaio) terminò un'altra storica trasmissione della Rai, che ancora oggi molti rammentano e rimpiangono: Carosello.

Ma a parte questo, ciò che più mi rimane impresso dell'anno televisivo in questione è il passaggio dal bianco e nero al colore: furono in molti a comperare, nel '77, il loro primo televisore a colori; ricordo molte marche ormai quasi scomparse, per lo più tedesche che all'epoca furoreggiavano, come la Telefunken, la Nordmende, la Philco, la Grundig. I miei comprarono un Philips piuttosto grande (non ricordo in verità i pollici) che non aveva telecomando. Ricordo che non erano poi molti, ancora, i programmi trasmessi a colori, sia dalla Rai che dalle TV private; a proposito di queste ultime, mi viene in mente l'estrema curiosità e la meraviglia con cui iniziai a seguire quei canali locali che potevano chiamarsi GBR o PTS, ma anche i canali stranieri come Telecapodistria, Telemontecarlo e Antenne 2. C'erano ancora due sistemi di colore: il PAL ed il SECAM; successivamente il secondo andò scomparendo e rimase per tutti il solo PAL. Le annunciatrici Rai (o signorine buonasera) quando leggevano la scaletta dei programmi giornalieri, dovevano anche specificare se tali programmi sarebbero stati trasmessi a colori o in bianco e nero.

A marzo, sul secondo canale della Rai e in prima serata iniziò un programma di cui rimasi entusiasta: "SuperGulp! Fumetti in TV"; guardandolo mi appassionai dei fumetti della Marvel Comics e soprattutto di quelli dell'Uomo Ragno e dei Fantastici 4.

Passando allo sport, ricordo che a cominciare da quell'anno ebbi una specie di nausea per il calcio che mi spinse a non seguire più i programmi televisivi e radiofonici dedicati a questo sport e a non praticarlo affatto. Il motivo ancora oggi non mi è ben chiaro, so soltanto che durò circa tre anni. Nel '77 fu comunque la Juventus a vincere un appassionante campionato dominato dalle due squadre di Torino. Cominciai in quel periodo a seguire più assiduamente le gare di ciclismo su strada e di automobilismo (la Formula 1). Il Giro d'Italia andava in onda sulla Rai, regolarmente, nei pomeriggi di maggio; io allora tifavo per lo scalatore italiano Giovanni Battaglin, ma i vincitori della corsa ciclistica più famosa del nostro paese erano spesso stranieri. Per quanto riguarda la Formula 1, il mio idolo, proprio a cominciare da quel mitico '77, divenne l'irlandese John Watson, pilota focoso e sfortunato che guidava una fiammante Brabham-Alfa Romeo col numero 7; ricordo ancora molto bene il Gran Premio di Francia in cui Watson fu sorpassato all'ultimo giro dall'americano Mario Andretti su Lotus, perdendo il primo posto che aveva mantenuto fin lì, per tutta la gara.

E intanto era ormai terminato l'anno scolastico: di quel primo anno trascorso sui banchi delle scuole medie ricordo più di tutto i libri, come l'antologia italiana intitolata "Quante strade": opera ottimamente impostata che suggeriva ed invogliava alla discussione in classe sui problemi di attualità.

E poi fu ancora una volta estate, ancora una volta tornai ai miei cari giochi: ritrovavo puntualmente i miei amici e con loro trascorrevo giornate calde ed assolate divertendomi con poco. In quei mesi era impossibile non ascoltare una canzone di Umberto Tozzi intitolata: "Ti amo".

Ma, al di là della spensieratezza che ancora mi apparteneva, anche il 1977 fu un anno pieno di inquietudini, di gravi problemi e di fatti drammatici. Ma io di tutto ciò rammento ben poco. Ricordo invece il Natale del '77, trascorso nel mio piccolo appartamento con i nonni paterni venuti dalle Marche e con quelli materni, un Natale in famiglia, come si usava una volta: una festa meravigliosa.

 

È possibile quantificare la propria felicità? Sicuramente no, ma certo è possibile stabilire quale periodo della nostra vita sia stato il più felice di tutti. Nel caso mio questo periodo è coinciso col 1978: un anno duro, difficile per vari motivi, ma per me fu un anno eccezionale in cui ho vissuto gli ultimi scampoli della fanciullezza, quelli in cui si è più consapevoli del proprio stato di benessere perchè s'intensificano i ricordi, le sensazioni piacevoli, è più facile percepire la propria spensieratezza e di conseguenza si respira a pieni polmoni il profumo inebriante della felicità.

A fine gennaio si svolse il ventottesimo Festival della canzone italiana di Sanremo, uno dei primi che io ricordi. Di quell'edizione mi rimangono tutt'ora in mente tre canzoni: "Domani domani" di Laura Luca, "Un'emozione da poco" di Anna Oxa e "Gianna" di Rino Gaetano.

Il 16 marzo a Roma avvenne uno dei fatti più tragici della storia d'Italia: il rapimento dello statista Aldo Moro da parte dei componenti del gruppo terroristico delle "Brigate rosse". Fu un grandissimo shock per tutta la nazione; seguirono giorni di apprensione e di trattative che però non portarono a nulla. Personalmente ricordo soltanto che quella mattina io ero a scuola, e a causa del grave fatto uscii, insieme a tutti gli altri studenti, anticipatamente rispetto all'orario stabilito. Una volta arrivato nella casa dei miei nonni vidi, in televisione, i primi commenti e le prime immagini del rapimento. Moro fu ucciso dai terroristi il 9 maggio, dopo 55 giorni di prigionia. Lo stesso giorno, all'interno del bagagliaio di un'automobile parcheggiata in una strada di Roma, fu ritrovato il corpo del politico italiano.

M'interessavo di sport ma non di calcio; ricordo però qualche partita dei Mondiali calcistici svoltisi in Argentina; proprio la nazione ospitante riuscì a vincerlo in una finale che la vide prevalere per 3 a 1 sull'Olanda, ancora una volta giunta ad un passo dalla vittoria finale. L'Italia si comportò onorevolmente, ma fu eliminata dagli "Orange" al 2° turno. Perse poi la finale di consolazione e finì 4°.

Scolasticamente parlando, quell'anno fui promosso in terza media, pur non ottenendo risultati esaltanti. La pagella a partire dal '78 cambiò: non più voti ma valutazioni.

E arrivò di nuovo l'estate, la più bella che io ricordi. Sono tante le canzoni che mi piacquero durante quella stagione estiva: tra le altre ci sono "Tu" di Umberto Tozzi, "Liù" degli Alunni del Sole, "No" di Gianni Bella, "Generale" di Francesco De Gregori e "Bella sarai" della Bottega dell'Arte.

L'autunno del '78 rappresentò per me una sorta di spartiacque tra la spensierata, meravigliosa infanzia e la problematica, tormentata adolescenza. Tutto quello che avevo vissuto prima di quel fatidico autunno era ormai impossibile riviverlo: qualcosa di impercettibile era mutato, una parte preziosa della vita mi stava lasciando e non sarebbe mai più ritornata. I momenti di gioia pura e semplice divennero a mano a mano meno frequenti, per poi farsi rari o rarissimi.

Mi viene in mente un verso quanto mai realistico di Sergio Corazzini: "Muoio, un poco, ogni giorno", che rispecchia nettamente anche il mio punto di vista: ogni essere umano muore, a poco a poco, col trascorrere lento del tempo e della sua esistenza; perde via via qualcosa di sé che non ritroverà mai più.

La migliore parte di me è morta nell'autunno del '78.

 

***

 

Quando la vita diviene ormai un inutile e disilluso dover andare avanti, può succedere che la mente cerchi delle scappatoie e, magari, trovi un sereno rifugio nei bei ricordi di un lontano passato. Così, a me succede spesso di andare a rovistare nella memoria, e di trovare i momenti più felici nei giorni che ho vissuto circa quarant'anni fa. In particolare, ho provato a circoscrivere un quinquennio "felice", che parte dal 1975 e si conclude nel 1979. È in questo periodo di tempo che riesco a far rientrare i miei ricordi più lontani, che corrispondono, per quanto riguarda la mia esistenza, all'ultima fase dell'infanzia e all'inizio dell'adolescenza. Ho sempre pensato, fin dalla mia gioventù, che il periodo infantile fosse quello più bello della vita di un essere umano; purtroppo, non tutti i ricordi di questa fase esistenziale rimangono impressi nella mente. Sforzandomi, mi riesce più facile ricordare alcuni momenti che, più o meno, iniziano dall'età di dieci anni; quelli immediatamente successivi, sempre più piacevoli perché aumentava in me anche la consapevolezza di vivere un ciclo felice, sono più nitidi. Gli ultimi bei ricordi coincidono pressappoco con l'inizio della fase adolescenziale, la quale è certamente più complicata rispetto a quella infantile e per me ha sicuramente rappresentato un momento difficile, anche per il fatto che, chiudendomi in me stesso, ho interrotto progressivamente i miei contatti col mondo. Ma, ripensando al quinquennio che ho voluto definire "felice", mi rendo conto del fatto che la mia mente, rievocando quei tempi, li vede in maniera distorta, non veritiera rispetto alla realtà. È come se io, in quegli anni, vivessi in una specie di giardino incantato, fuori dal mondo. E questo fatto fa sì che, ripensando a tutto ciò che avveniva allora, mi sembri sempre e comunque migliore di ciò che è accaduto dopo. Per esempio, se provo a ricordare le canzoni che andavano di moda allora, mi appaiono molto più belle delle presenti e anche di quelle che si ascoltavano a partire dagli anni '80. Stesso discorso vale per lo sport, la televisione, il cinema ecc. Sono andato a cercare sul sito internet youtube tanti e tanti filmati che risalgono a quegli anni: programmi televisivi, video musicali, eventi sportivi, spezzoni di film... ed ho provato una enorme nostalgia, sembrandomi tutto estremamente interessante. Persino i brani di musica disco, molto in voga allora, e da me detestati fino a poco tempo fa, ora mi appaiono bellissimi; stesso discorso vale per le gare automobilistiche di Formula Uno, per le partite di calcio, per i personaggi televisivi e per le trasmissioni della TV. Eppure, non ci sono dubbi che fossero tempi assai difficili; furono anche definiti gli "anni di piombo", poiché in quel lasso di tempo nacquero ed operarono alcuni gruppi terroristici che attentavano alla democrazia italiana con azioni particolarmente violente. Anche dal lato economico, questi anni non possono definirsi i migliori: era infatti ormai un lontano ricordo il boom dei primi anni '60 e, seppure non ci fosse una crisi profonda come quella vissuta ai nostri giorni, il popolo italiano non se la passava molto bene; non, almeno, tanto quanto sarebbe avvenuto a partire dai primi anni '80. Ma, al di là di tutto questo, per me (e soltanto per me) quelli rimarranno per tutta la vita gli anni d'oro: luogo fantastico del passato dove rifugiarsi per non pensare alle immense tristezze del presente.    

 

 

CAPITOLO V: IL PASSATO

 

Passato, io vivo in funzione di te, sopravvivo grazie a te, non muoio perché tu esisti. Caro Passato, soltanto tu sai e puoi alleviare la mia sofferenza; non lo possono fare né il mio insulso Presente, né, tanto meno, il mio insignificante, spaventoso e forse breve Futuro. Tu mi sai trasportare in un mondo che non esiste più - di questo ne sono consapevole - ma che per me, per la mia inutile vita, rappresenta qualcosa di estremamente prezioso. No, quei giorni ormai lontani nel tempo non si sono dissolti nel nulla, e quelle persone con cui li ho vissuti, ritornano nella mia mente come se fossero resuscitate. I miei viaggi dentro di te, Passato, possono darmi una gioia tale che nessun viaggio reale potrebbe mai darmi. In te io ritrovo quella Felicità che ho tanto cercato, e che mi è apparsa davanti agli occhi rarissime volte; per  questo mi rivolgo a te come il giovane innamorato alla sua ragazza, o Passato, e in te ritrovo i bei tempi ormai lontani, che la Memoria fa riemergere. Se, tra un certo numero di anni, quest'ultima, a me carissima compagna, si dissolverà, tu morirai, mio Passato, ed io allora vorrei seguirti, poiché rimarrebbe in me soltanto la disperazione del Presente, e l'assenza totale del Futuro. Preziosissimo e amatissimo Passato, portami via con te, non lasciarmi da solo in questo mondo inutile, che non mi appartiene, di cui faccio parte solo numericamente... Io ti supplico di non abbandonarmi mai, mio essenziale Passato, ti prego di non deludermi...

 

***

 

In questi giorni, trovandomi in luoghi aperti per motivi di lavoro durante il pomeriggio, malgrado la strana, imparagonabile e interminabile situazione emergenziale che tutto il mondo sta vivendo, ho avuto delle sensazioni particolari che mi hanno fatto rivivere nel mio migliore passato. Non so come né perché, ma attraversando delle vie, delle piazze e dei vicoli di alcuni quartieri non lontani dal mio, la mia mente ha fatto un volo all'indietro, e ho pensato allo stesso periodo dell'anno - maggio  o giugno - di quand'ero un bambino, e accadeva a volte, che mia madre, dopo il lavoro mattutino, il ritorno nella casa, il pranzo e un breve riposo, decidesse di uscire per fare delle compere o per svagarsi un po'; in tali occasioni era facile che andasse ad Ostia Lido, e che chiedesse, a me e a mio padre, di venire con lei. Io quasi sempre accettavo la sua proposta, e così partivamo verso la vicina frazione balneare in automobile. Ebbene, ancora oggi mi tornano in mente quei precisi momenti come se si fossero verificati poco tempo fa: percepisco il profumo (o i profumi) che mia madre usava allora, pur non essendocene alcuno nell'aria che respiro adesso; mi rivedo insieme lei, ben vestita, che passeggia lungo una via piena di vetrine; mi sembra addirittura di sentirmi addosso gli stessi raggi del sole che infondevano in me un'immensa gioia, perché intuivo da essi l'imminente arrivo di un'altra favolosa estate. E provando queste sensazioni mi sono convinto una volta di più che la mia esistenza attuale è estremamente legata al mio passato remoto; se non ci fossero questi continui flashback, la mia vita continuerebbe lo stesso, ma sarebbe assai più triste. Grazie a questi voli intellettuali a ritroso nel tempo, ho l'illusione che la vita abbia ancora un senso per me, e a volte mi meraviglio di come siano rimasti dentro la mia anima degli attimi e delle sensazioni che ho vissuto tantissimi anni fa, e, ovviamente, ne sono entusiasta.

 

***

 

Quante volte ho pensato e sperato di rivivere in un'epoca del passato! Fin da bambino ho paventato l'idea di poter tornare indietro nel tempo, per poter vivere la mia vita in un'era, un secolo o un decennio del passato lontano o vicino. Ora so che si trattava di stupide illusioni, poiché ognuno di noi è figlio di propri tempi; e se veramente esistesse una macchina simile a quelle di certi film di fantascienza, capace di trasportarci in un periodo del passato, qualunque esso sia, certamente dopo poco tempo avremmo il desiderio di ritornare nei nostri anni: gli unici che possiamo vivere, perché troppo assuefatti ai modi, alle abitudini e, soprattutto alle comodità che li contraddistinguono.

Ricordo che, fanciullo, m'innamorai del Medioevo, e immaginai di vivere in quell'età storica. Mi vedevo come un cavaliere senza macchia e senza paura, con la mia spada scintillante, il mio indistruttibile scudo, il mio elmo, la mia armatura e il mio cavallo bianco. Mi aggiravo per valli e per castelli, sempre pronto a combattere e ad uccidere coloro che mi sfidassero. Ovviamente, una volta cresciuto, questi pensieri svanirono e cominciai a pensare di vivere in altre epoche della storia. Per esempio, fui attratto dal XIX secolo; di quel periodo mi affascinava una vita più tranquilla e ordinata, dove erano completamente assenti quegli elementi caotici del nostro tempo; poi, pensando all'arte, mi attiravano movimenti e correnti di pensiero come il romanticismo e il decadentismo; m'immaginavo a Roma o a Parigi, tutto intento a scrivere le mie poesie o a dipingere un quadro, in compagnia di una donna bella, gentile e amorevole, a cui avrei dedicato versi e tele. In gioventù fui attratto dall'idea che sarei stato decisamente meglio se, ragazzo, avessi vissuto negli anni '60 del XX secolo; mi sarebbe piaciuto essere ancora minorenne nel periodo del boom economico: sarei stato presente nel momento in cui l'Italia viveva i suoi momenti di massima crescita; pensavo che sarebbe stato più facile trovare un posto fisso, anche in giovanissima età, e, magari, guadagnare abbastanza per poter fare una vita tranquilla. Quei tempi li vedevo con un'ottica particolare, che mi era stata inculcata da una serie di elementi, tra i quali ci sono i tanti film italiani in bianco e nero di quel decennio, molti dei quali mi piacquero alla follia; i frammenti di televisione di allora, che venivano trasmessi su Rai 3 (il mio canale preferito) e che mi trasmettevano un profondo senso di tenerezza; tutte le canzonette che in quel preciso decennio furono incise, molte delle quali mi affascinavano in modo particolare; e poi il fatto incontestabile che, nei primi anni sessanta, i miei genitori riuscirono a trovare un impiego remunerativo e a tempo indeterminato. Ma ero innamorato anche del periodo della contestazione, ovvero, del mitico 1968; mi sarebbe piaciuto essere uno studente che in quegli anni aveva l'opportunità di vivere un'aria di cambiamento mai vista prima, di sperare, insieme a tutti i giovani studenti di allora, che il mondo potesse cambiare in meglio. Infine m'invaghii di un altro periodo storico, a cavallo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento: la "Belle Epoque". Certamente, quest'ultimo è stato un trentennio eccezionale per l'umanità, dal punto di vista delle scoperte scientifiche, delle novità artistiche, del miglioramento delle condizioni di vita di molti esseri umani; in pochi anni si è assistito ad un cambiamento senza precedenti, grazie all'arrivo dell'elettricità, delle prime automobili, del cinematografo, della radio ecc. Pur essendo vero che questi miglioramenti, troppo spesso non hanno riguardato tutte le fasce della popolazione, non si può negare che allora furono poste delle basi fondamentali affinché, col tempo, tutti potessero usufruire di alcuni beni che in quegli anni potevano essere a disposizione di pochi. In aggiunta, dirò che in questo lasso di tempo vissero ed operarono i miei poeti preferiti: i crepuscolari. Per tale motivo, pensai che sarebbe stato meraviglioso per me, romano, frequentare la città di quei tempi: così tranquilla, a misura d'uomo e decisamente più bella rispetto a quella di oggi. Avrei potuto incontrare alcuni di quei poeti in un caffè del centro e, col tempo, stringere amicizia con alcuni di essi. Avrei scritto anch'io dei versi, brutti probabilmente, ma figli di quei tempi magnifici.

Ovviamente, questi sono soltanto sogni: stupidi sogni ad occhi aperti che non hanno la minima attinenza alla realtà. Poiché, se anche fossi vissuto in una di queste epoche, quasi sicuramente non avrei fatto quelle cose che ho descritto molto fantasiosamente, e me ne sarei rimasto in disparte, ad osservare ciò che accadeva senza parteciparvi. E alla fine pensare di vivere in un altro tempo è da idioti: sia perché ciò non è e non sarà mai possibile, sia perché, come ho già detto, gli unici tempi a cui ognuno di noi appartiene, sono quelli in cui vive. 

 

***

 

Quanta gente di una certa età rimpiange gli anni '80 del XX secolo? Per quel che ne so, tantissima; tra costoro non ci sono io, che li detestavo e li detesto. Credo che molti tra i miei coetanei ricordino questo decennio molto volentieri e con nostalgia, anche perché per loro ha rappresentato il periodo della gioventù. E' vero, anche per me quelli erano gli anni della giovinezza, ma posso affermare che non sono mai stati gli anni della mia felicità. Messe da parte le vicende personali, visti da lontano mi appaiono in tutta la loro negatività, per alcuni motivi più che validi, che vado ora ad elencare.

Negli anni '80, come affermano illustri storici, si è invertita quella tendenza iniziata negli anni '50, che aveva portato ad una compressione delle diseguaglianze sociali, e che ha prodotto il conseguente miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere. Chi non ricorda, a proposito degli anni '80, quegli odiosi comportamenti relativi ad un esibizionismo sfrenato, quando in molti mostravano i cosiddetti status symbol senza il minimo ritegno, probabilmente con l'intento di suscitare invidia in chi non poteva permetterseli? E la TV di allora, che affondava il dito nella piaga trasmettendo una serie di fiction in cui la facevano da padroni personaggi straricchi, in cui gli spettatori, spesso, amavano rispecchiarsi, sentendosi poi frustrati, perché per loro evidentemente era impossibile avere tutti quei beni di lusso che vedevano nel piccolo schermo.

Negli anni '80 fanno la loro comparsa degli esseri controversi, che furono denominati yuppies. Costoro, giovani e molto ambiziosi, puntavano alla ricchezza facile, che potevano procurarsi senza alcuna fatica. Nati negli Stati Uniti, gli yuppies invasero anche l'Europa, giocando in borsa, vendendo dei prodotti scadenti fatti passare per ottimi e, se necessario, truffando senza scrupoli chiunque, pur di raggiungere il loro scopo. Ben vestiti, sfacciati, con l'immancabile valigetta, si aggiravano per le strade delle metropoli studiando il modo più semplice per fare soldi, anche a danno di povere vittime inconsapevoli per cui non provavano nessuna pietà.

Negli anni '80, a causa di una politica sciagurata, il debito dello stato italiano si è ingrandito a dismisura, raggiungendo cifre esorbitanti. E' il debito che ancora oggi grava su tutti noi, che ci impedisce di crescere in maniera adeguata e che ci crea tantissimi, ben noti problemi. Quel debito che si è ingigantito una quarantina di anni or sono, probabilmente, non scomparirà più, e influenzerà l'economia nazionale nei secoli.

Negli anni '80 - e questo è un ragionamento personale - si è assistito ad un peggioramento generale di varie discipline: musica, cinema, televisione e altro ancora, con l'ascesa di personaggi immeritevoli, a volte squallidi, che, acclamati da un pubblico sempre più incompetente, ha invaso ogni tipo di palcoscenico, ponendo il cattivo gusto e la spazzatura a simbolo del successo. Nella musica - e parlo soltanto di musica pop - si è affievolito quell'impegno che aveva reso nobile la canzone d'autore italiana e, malgrado la comparsa di qualche nuovo talento, si è assistito ad un deciso deterioramento dei testi delle canzoni; fuori dal nostro paese è proseguita l'esaltazione della cosiddetta musica da discoteca, e la conseguente affermazione di solisti e complessi di scarsissimo valore (cito i Duran Duran per tutti). Nel cinema, dopo la scomparsa dei grandi maestri del neorealismo, le pellicole italiane non hanno saputo rimanere ai livelli eccellenti di qualità cui si trovavano da decenni, decadendo inesorabilmente, lasciando il passo a film comici fini a sé stessi, lontani da quella commedia all'italiana che voleva divertire e nello stesso tempo mettere in luce i difetti della società. Infine la televisione ha visto l'inarrestabile ascesa delle emittenti private, che ha portato un aumento massiccio della pubblicità all'interno dei programmi e ha peggiorato di molto la qualità degli stessi, che sono divenuti sempre più futili, a volte beceri, essendo i protagonisti esseri squallidi, ignoranti e volgari; la Rai, entrata in competizione con le tv private, in questi anni ha definitivamente perso quel ruolo fondamentale di ente diffusore di cultura tra le classi meno istruite.

Alla fine degli anni '80 è crollato il Muro di Berlino e, nel giro di pochi anni, anche tutti i regimi comunisti dell'est Europa. Apparentemente questo evento sembrerebbe positivo, considerando anche il fatto che ha sancito la fine della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica; in realtà, il declino dell'unica ideologia capace di contrastare il capitalismo, ha fatto sì che quest'ultimo divenisse più selvaggio e arrogante, causando danni ingenti alla società, danni che ancora oggi sono davanti ai nostri occhi.

Mi fermo qui, ma potrei continuare. Dirò soltanto che, malgrado qualche cosa di positivo ci sia pure stato (ma mi è difficile trovarlo) per me gli anni '80 erano, sono e saranno un decennio estremamente negativo e di cui non ho alcuna nostalgia. 

 

 

CAPITOLO VI: LA SCUOLA

 

Il mio primo giorno di scuola risale ad un mattino di prim'autunno del 1971. Mia madre mi fece mettere il grembiulino nero, il colletto ed il fiocco bianco, quindi mi fece salire nella sua automobile e insieme ci avviammo verso via del Castello; lì, ad Ostia Antica, c'era e ancora c'è la Scuola Elementare Giuseppe Aldobrandini. Si tratta di una scuola privata cattolica, che era gestita, quando io la frequentai, dalle Suore Pallottine. In quel mattino, quando entrai per la prima volta nell'aula che mi avrebbe ospitato per i successivi nove mesi, non mi resi conto di ciò che stava per succedere; con me c'era un compagno di giochi, anche lui accompagnato dalla mamma, e questa cosa un po' mi consolava e un po' mi distraeva. La suora che sarebbe diventata la mia insegnante per l'intero anno scolastico, chiese sia a me che al mio amico quale attività avremmo voluto svolgere in aula; lui disse che avrebbe voluto cantare ed io (non lo ricordo ma me lo disse mia madre), affermai di voler leggere le poesie. La suora ci disse ad entrambi che saremmo stati accontentati. Ma di lì a poco persi di vista mia madre e cominciai a piangere disperatamente. A nulla valse il tentativo di consolarmi fatto dalla suora-insegnante, e per i primi mattini in cui tornai nell'aula, fu sempre la stessa storia: io e il mio compagno piangevamo per tutto il tempo: lui, piangendo gridava: "Voglio mamma!" ed io, a quanto mi fu detto: "Voglio nonno!", perché fu il padre di mia madre, dal secondo giorno in poi, ad accompagnarmi a scuola. Quindi mi rassegnai, ed iniziai a capire che, in quelle ore mattutine, avevo l'obbligo di recarmi a scuola e di rimanervi fino all'ora di pranzo. Alla fine dell'anno ebbi la prima promozione alla classe superiore, ma, purtroppo, il mio caro compagno di banco e di giochi non ebbe la stessa sorte, e fummo così costretti a separarci, anche perché lui, da allora, si trasferì in un altro luogo e frequentò pure un'altra scuola. Dalla classe seconda in poi, il mio orario di scuola giornaliero fu il seguente: la mattina dalle 8:30 alle 12, e il pomeriggio, dopo la pausa pranzo che trascorrevo dai nonni, dalle 14 alle 16. E così, quei quattro anni trascorsero sereni; ed ebbi, come insegnante, la medesima suora che, ricordo ancora, si chiamava Monica (ma non era il suo vero nome) ed era molto giovane. Di lei, però , ho anche qualche brutto ricordo, che non riguarda tanto me, quanto alcuni miei compagni di scuola, i quali furono da lei maltrattati, sebbene saltuariamente, in modo, a mio parere, piuttosto gratuito. Forse allora, così come oggi, mollare qualche ceffone ai bambini che non si comportano bene è ritenuto giusto; castigare con piccole violenze gli studenti svogliati e chiassosi può essere lecito, ma per me non è così che si dovrebbero educare i bambini, e ancora oggi, se ci penso, non ritengo assolutamente appropriati i comportamenti che questa suora, a volte, attuava. Ma al di là di questi discorsi, quegli anni passarono per me in modo lieto e sereno, e alla fine del quinto anno ottenni la licenza elementare dopo un esame, per poi congedarmi per sempre da quella scuola e da quella suora, che salutai con un veloce bacio sulla guancia.

 

***

 

Iniziai a frequentare le scuole medie inferiori nell'autunno del 1976. L'istituto scolastico che mi ospitò per tre anni si chiamava e si chiama tutt'ora Arturo Fanelli, e si trova in via Ducati, ad Ostia Antica. Per me, che allora soggiornavo spessissimo dai miei nonni materni, era sufficiente attraversare una strada per arrivarci. I nonni, infatti, abitavano in una casa popolare posta a due passi dall'istituto. I miei, quando al primo mattino si recavano al lavoro, mi lasciavano dai nonni; io allora, avevo anche il tempo di fare colazione e, se il caso, di ripassare qualche lezione, prima di avviarmi in pochi minuti verso l'interno della scuola. Il primo giorno del primo anno alle medie me lo ricordo ancora. Non so se, sull'uscio del portone d'ingresso della scuola, quella mattina ci fosse la preside (una signora piuttosto anziana, che parlava con un inconfondibile accento campano); c'era comunque qualcuno che a gran voce chiamava per nome e cognome ciascuno degli studenti per farli entrare nelle aule; quando mi sentii nominato, provai ad entrare trovando degli ostacoli insormontabili: due ragazzini biondi decisamente robusti e alti, che non volevano saperne di farmi passare; fortunatamente, subito dopo, furono nominati anche loro, ed io ebbi modo di entrare. Erano, ricordo bene, due fratelli di origine inglese, che ritrovai non appena entrato in aula, ed ebbi per compagni nei tre anni in cui frequentai quella scuola. Ricordo che fui meravigliato del fatto di non dover più indossare alcun grembiule, e di scoprire che non avevo più un solo insegnante. Altra novità, a partire dal secondo anno, fu l'abolizione del voto numerico e l'istituzione della valutazione argomentata; insomma, nelle pagelle, al posto dei voti trovai i giudizi scritti a penna dai docenti. Ebbi per lo più professoresse, di cui ricordo ancora i cognomi: tutte brave persone, che adottavano metodi d'insegnamento efficaci. Per questo motivo, ritengo che quei tre anni furono i migliori della mia carriera scolastica, anche dal lato dei bei ricordi, visto che passarono nella più completa serenità, senza problemi di sorta. Certamente la timidezza non mi abbandonò mai, neppure in quell'ambiente sano; era diventata, ormai, una compagna insostituibile, e non potevo o non sapevo abbandonarla. Venni a conoscenza del fatto che, almeno nel periodo in cui la frequentai, quella scuola, malgrado fosse nata da pochi anni, si era fatta una buona nomina, tanto è vero che parecchi genitori provenienti da zone non vicinissime, iscrivevano i propri figli proprio lì; anche nella mia classe, infatti, c'erano almeno tre studenti che abitavano ad Ostia Lido ed a Casal Palocco. Forse, l'unico lato negativo di quel triennio, fu il rendermi conto della mia totale negazione verso la cosiddetta "educazione fisica": una disciplina o materia, che fortunatamente non aveva la minima importanza, come è giusto che fosse - forse l'aveva avuta ai tempi del fascismo - e che quindi non mi procurò alcun guaio, se non la consapevolezza di non poter eccellere in quello specifico campo. Ricordo benissimo l'esame finale, che feci nel giugno del 1979. Fu il primo che mi procurò un'ansia spropositata ed una preoccupazione tale che passai la notte precedente il giorno dell'esame senza dormire mai. Ma non c'era alcun motivo di affliggersi, perché in quei giorni tutto filò liscio, e superai la prova finale facilmente. Non fui però tra i primi della classe, venendo giudicato con un "distinto" anziché con un "ottimo". Malgrado ciò, tutti i professori, nei colloqui, dissero ai miei genitori che in futuro, avrei potuto frequentare qualsiasi tipo di scuola.

 

***

 

Non li ricordo molto volentieri, i cinque anni in cui frequentai il Liceo Scientifico Antonio Labriola di Ostia, e i motivi li voglio qui spiegare. Dopo la licenza media, i miei volevano segnarmi ad un altro liceo scientifico di Ostia, non lontano da quello che ho appena citato, ma trovarono un muro invalicabile, e gli fu detto che tutti i ragazzi nati o residenti ad Ostia Antica avrebbero dovuto segnarsi all'altro liceo (ancora oggi non ho capito il perché); così  m'iscrissi al Labriola, nel lontano 1979. A me non importava nulla di quale fosse la scuola che avrei dovuto frequentare, ma a mia madre sì, e rimase molto contrariata dal fatto che non poté iscrivermi all'altro istituto. Abitando a d Ostia Antica, ero costretto a prendere un autobus per arrivare ad Ostia Lido; ma per raggiungere la scuola dovevo attraversare anche un ponte fatiscente e farmi un bel tratto di strada a piedi. Fin dal primo giorno del primo anno di liceo, mi ritrovai al primo banco, sul lato destro dell'aula; mantenni quel posizionamento per tutti e cinque gli anni. Quando cominciai a frequentare la scuola superiore, ero un ragazzo piuttosto timido, tendente all'introversione e poco socievole; il recente passaggio dall'infanzia alla prima adolescenza aveva lasciato in me delle tracce: faticavo ad accettare quei cambiamenti fisici e comportamentali che contraddistinguono questa difficile fase della vita umana. In qualche modo, però, riuscii ad ambientarmi abbastanza alla nuova situazione scolastica, trovando anche qualche buon amico e ottenendo soddisfacenti risultati, pure a livello di voti; fece eccezione una materia: l'inglese, anche perché ebbi come insegnante una professoressa che aveva delle idee piuttosto sui generis riguardo ai nuovi alunni che si affacciavano agli studi, i quali, secondo lei, dovevano capire che i criteri di valutazione erano molto diversi rispetto alle scuole frequentate in precedenza. Per questo motivo, costei si sentiva in dovere di applicare una sorta di selezione naturale, atta a scoraggiare fin dall'inizio quegli studenti che, secondo i suoi personalissimi criteri di valutazione, non erano in grado di arrivare alla fine del ciclo scolastico. In questa materia, durante l'anno, mi ritrovai sommerso di voti deprimenti e alla fine dello stesso fui rimandato a settembre (insieme a molti altri studenti). Tutto sommato però, il primo anno trascorse senza troppi traumi. Il secondo anno fu migliore rispetto al primo, e mi presi delle soddisfazioni in varie materie, mentre in inglese ottenni appena la sufficienza. Devo dire che, per quanto concerne la matematica, e in particolare l'algebra, fu mia madre che mi diede un aiuto fondamentale nell'apprendimento; lei aveva studiato da ragioniera, e conosceva bene la materia, di cui , in parte, si era anche appassionata; fu grazie alla mia mamma, quindi, che ebbi modo di ben figurare in matematica. Aggiungo infine che, durante i primi due anni, spesso succedeva d'imbattersi in atmosfere ed eventi relativi agli ultimi strascichi dei turbolenti anni '70 e della "contestazione", con numerose assemblee indette per motivi futili, che non portavano a nulla di concreto; incendi di automobili di docenti; continue distribuzioni di volantini che invitavano alla lotta contro il sistema; scontri violenti tra "rossi" e "neri" svoltisi all'interno o all'esterno dell'edificio scolastico. Io non fui mai coinvolto da questi eventi e queste rimostranze: le vissi marginalmente, rimanendo un po' indifferente e un po' perplesso, ogni volta che accadevano. D'altra parte era qualcosa che andava scomparendo, e riguardava soprattutto gli studenti più in là cogli anni. Dal terzo anno in poi, ci fu un peggioramento della mia situazione, sia a livello scolastico che caratteriale. Nello studio di certe materie come la trigonometria e la fisica, che mi risultavano ostiche e non mi piacevano affatto, mia madre non poté più aiutarmi; la conseguenza fu che, non avendo la minima intenzione di prendere lezioni in privato e volendo fare tutto da solo, ebbi delle difficoltà di comprensione, sia nelle lezioni tenute in classe, sia nella lettura dei testi scritti. Ma il terzo anno fu negativo anche sotto altri aspetti che vado qui ad elencare. Alcuni professori che ebbi nei due anni precedenti furono sostituiti, e i nuovi non furono degli esempi di onestà e capacità: chi sembrava fosse lì per puro caso, e pareva non avesse la minima voglia d'insegnare; chi si faceva bello agli occhi delle ragazzine; chi, in quanto supplente, aveva l'aria svogliata e corrucciata per tutto il tempo in cui doveva stare in aula... C'era qualcuno che, al posto della lezione giornaliera preferiva fare un dibattito su un argomento d'attualità; chi, ad un certo punto, divagava dal contesto della lezione per raccontare aneddoti aberranti; chi ci faceva aprire un libro di testo ad una determinata pagina e, scegliendo uno a caso di noi, ci faceva leggere ad alta voce un frammento che aveva scelto, senza sforzarsi di metterci qualcosa di suo; chi (e sto parlando dell'insegnante di educazione fisica), all'inizio dell'ora di lezione ci consegnava un pallone dicendoci: "Andate a gioca' in cortile"... In più, in quel periodo, alcuni studenti della mia classe, forse perché invogliati e facilitati dal totale menefreghismo dei docenti, incominciarono a infastidire e ad insultare con epiteti piuttosto pesanti, dei compagni ritenuti deboli (anch'io fui coinvolto); ma, fortunatamente, questi ultimi episodi non durarono a lungo: furono atteggiamenti momentanei, dovuti, probabilmente alla difficoltà che comporta la delicata e tormentata fase di passaggio tra l'adolescenza e la prima gioventù, alla quale ognuno reagisce in modo personale; e ad ascoltare i fenomeni di bullismo che accadono ai giorni nostri, quei comportamenti, seppure spiacevoli, sono veramente poca cosa. Personalmente, devo dire che, durante il quinquennio in questione, quella timidezza di cui ho già parlato in precedenti post, si era ormai cronicizzata e m'impediva di avere una vita sociale adeguata alla mia età; purtroppo non seppi cambiare (nemmeno mi sforzai di farlo), finendo per chiudermi ancora di più in me stesso. Dopo una parentesi - il quarto anno - in cui riuscii ad ottenere un rendimento apprezzabile in quasi tutte le materie, l'ultimo e decisivo anno fu disastroso: arrivai al momento dell'esame di maturità con un'impreparazione spaventosa, riguardante soprattutto alcune materie come matematica e inglese. Il mio esame, mi vergogno a dirlo, non meritava neppure la promozione, che pure ebbi col minimo dei voti. Dopo l'esame orale, ebbi la netta sensazione che stavo rischiando la bocciatura. Nei giorni successivi mi lasciai andare: non uscivo più di casa, non mi curavo e i miei pensieri andavano sempre alla concreta possibilità di non superare l'esame di maturità. Quando uscirono i risultati finali non ebbi il coraggio di andare a leggere l'esito del mio esame, e, come al solito, delegai i miei genitori a farlo. Quando tornarono, il mio cuore batteva a mille, ma mi ripresi immediatamente nel momento in cui mia madre mi diede la notizia della avvenuta promozione. Subito dopo mi disse che non voleva più vedermi in quello stato pietoso e così, il mattino dopo, mi tagliai la barba e ricominciai a fare qualcosa. Da allora cercai di buttarmi alle spalle quei cinque anni iniziati non bene, proseguiti con diverse problematiche, e finiti malissimo. Pure sono anni che ho vissuto, e rimane anche qualche bel ricordo, come una gita a Firenze. Ma il rammarico maggiore, fu finirli in quell'inglorioso modo, anche perché i miei genitori, i quali si aspettavano ben altro da me e, per quanto potevano, cercavano di aiutarmi negli studi, non lo meritavano. E continuai a deluderli anche dopo, visto che abbandonai ben preso l'università - e questa è stata una delle più grandi delusioni che ho dato a mia madre -. La mia carriera scolastica, praticamente finì nel 1984, poiché, se è vero che tentai di proseguire gli studi segnandomi ad una facoltà universitaria che, tra l'altro, non mi attirava (ma cosa mi attirava allora?) e nemmeno rispecchiava il tipo di studi appena conclusi, è altrettanto vero che frequentai per poco tempo le lezioni e non diedi mai alcun esame. Per chiudere ecco un piccolo aneddoto per spiegare i segni che mi lasciò quell'ultimo, disastroso anno di liceo: per anni, tra i miei incubi notturni, ritornarono spesso i periodi del servizio militare e dell'ultimo anno di liceo; quest'ultimo, nel sogno si presentava sempre così: mi trovavo improvvisamente in aula, durante un qualunque giorno di scuola, e mi sovveniva il fatto che in quel giorno erano previste le interrogazioni di matematica, ed io sapevo di essere totalmente impreparato; per questo motivo avrei voluto fuggire da lì, ma non potevo e mi agitavo, e mi disperavo fino al momento del risveglio, quando provavo una piacevole sensazione di sollievo: da molti anni già non frequentavo più il liceo.

 

 

CAPITOLO VII: I LUOGHI DEL CUORE

 

Io ho sempre vissuto ad Ostia Antica: una frazione di Roma molto tranquilla, staccata dalla metropoli. Questo luogo ha delle caratteristiche simili a quelle che può avere un piccolo paese italiano, ma a due passi c'è Ostia Lido: città balneare piuttosto caotica; dall'altra parte, a pochi chilometri, c'è Acilia: quartiere romano che non può certo definirsi "tranquillo". Ora che la maggior parte della mia vita è ormai alle spalle, posso dire che qui ho trascorso i periodi migliori della mia esistenza e, malgrado ci siano stati dei tempi in cui ho desiderato vivere altrove, adesso penso che difficilmente avrei potuto trovare di meglio. Per molti anni, a causa di una leggera depressione e, forse, di un carattere tutt'altro che facile, ho limitato al massimo le mie escursioni nei meandri di questa frazione. Poi, anche per ragioni di lavoro, ho ricominciato a frequentarla e a riscoprirla. Passando per le vie, i vicoletti, le piazze di Ostia Antica ho ritrovato mille sensazioni che mi portavano altrettanti ricordi persi nel tempo: la meravigliosa infanzia vissuta nei cortili delle case popolari, nei campetti di calcio ormai scomparsi (al loro posto parcheggi per auto o erba alta), nei "giardinetti" dove a inizio estate si svolgeva la famosa Festa dell'Unità, nelle viucole di campagna attraversate in bicicletta. E mi è capitato di ripassare sulla via dove abitai da bambino, di rivedere il balconcino della mia camera da letto, provando una commozione particolarmente forte. Qui ogni angolo di strada, ogni spazio di terra mi ricorda qualcosa: giochi, persone, emozioni... Ho provato a confrontare, tramite i miei ricordi, Ostia Antica di quaranta anni fa con quella attuale: di certo si respira un clima meno allegro, forse per la totale mancanza di bambini che giocano in strada e per un certo degrado generalizzato riguardante le condizioni delle strade, delle piazze e di qualche monumento. Ma la fortuna di questo posto sta nel fatto che è rimasto più o meno quello che era: nella parte "antica" non si sono aggiunte case, non è stato commesso alcuno scempio paesaggistico. La mia Ostia Antica è ancora quella che ho conosciuto: il miglior posto nei dintorni.

 

***

 

Senigallia mi è rimasta nel cuore. È, insieme al luogo dove sono nato, quello in cui ho vissuto alcuni tra i miei giorni più felici. Lì nacque mio padre e lì andai per molti anni a trascorrere una parte delle vacanze estive insieme ai miei genitori. Per molto tempo fummo ospitati dalla casa dei nonni paterni: un edificio piccolo, in affitto, situato in una via senza uscita, a due passi dal lungomare. Negli ultimi anni, però, visto che i miei nonni avevano lasciato la vecchia abitazione per trasferirsi dalla figlia, trascorremmo l'immancabile settimana nella cittadina marchigiana, in albergo. Ma i miei ricordi più belli appartengono al primo periodo: quello in cui soggiornavamo in una casa vecchia, per certi aspetti anche disagiata, ma per me bellissima. La ricordo come se l'avessi lasciata ieri: il piccolo cancello, il cortiletto, il portone, le scale, il ballatoio e tutte le stanze. Per me c'era sempre una camera che, seppure fosse piccola, mi piaceva moltissimo. Questo edificio si trovava in via degli Abbruzzi; era circondato da due alberghi: dietro c'era il Senigallia e a fianco il Paradiso. Ricordo che mio nonno, persona molto aperta e gioviale, spesso faceva amicizia e scambiava quattro chiacchiere con i villeggianti e con i lavoranti di questi alberghi, che era facile incontrare, anche rimanendo all'interno della casa. E, a proposito di alberghi, ricordo quanto, da bambino, m'affascinassero; quando passeggiavo per il lungomare era uno spettacolo emozionante vedermi apparire, uno dopo l'altro, quei palazzoni con le scritte colorate. Ancora rammento i nomi di molti di essi: City, Palace, Luxembourg, Sabra, Hollywood, Royal Excelsior, Ritz... Quest'ultimo, il più grande hotel della città, rappresentava la fine della mia passeggiata che facevo, quasi sempre, con mio nonno: era un confine immaginario che non dovevamo superare, e quindi, giunti davanti al Ritz, prendevamo la strada del ritorno. E cosa dire del bel mare, e della magnifica spiaggia: con una sabbia fina fina che, a detta di mio padre, era stata da tutti definita: "spiaggia di velluto". Una spiaggia tutta libera, che era possibile vedere dall'inizio alla fine del lungomare. Praticamente il contrario di Ostia Lido, dove non si vedono quasi mai né il mare né la spiaggia, perché gli stabilimenti balneari hanno occupato quei territori ed hanno costruito dei muri alti. Per questo, già da piccolo, pensando al mare di Ostia e a quello di Senigallia, mi veniva spontaneo preferire nettamente il secondo. Anche la parte interna della città delle Marche mi rimane nel cuore; soprattutto se penso a certi vicoli, a certe piazze coi mercatini estivi, alla rocca, alla chiesa e alla casa di mia zia. Come ho già detto, negli ultimi anni delle nostre villeggiature in Senigallia, decidemmo di frequentare degli alberghi; ne ricordo in particolare due: il Gabbiano e il Diana, entrambi situati all'estremo limite della cittadina balneare marchigiana. Come nel periodo in cui ci ospitavano i nonni, la nostra vacanza si svolgeva durante la prima o la seconda settimana di settembre; era quindi facile che trovassimo pochi villeggianti e la spiaggia semideserta. Tutto ciò non mi dispiaceva, perché non amavo affatto la confusione. Nei sette giorni, non era improbabile che ce ne fosse uno piovoso, visto che la stagione estiva si avviava ormai al termine; anche questo particolare non mi veniva contro, dal momento che non sono mai stato un amante del mare, e trascorrere qualche giornata lontano dalla spiaggia mi rinfrancava. Quella vecchia Senigallia la ricordo benissimo, anche se ormai non ci vado da ben trent'anni. Non so se è ancora come la ricordo - certo qualcosa sarà cambiato - e preferisco non saperlo, perché la mia Senigallia, quella che ho nel cuore, rimane e rimarrà sempre come ce l'ho in mente, malgrado i tanti anni trascorsi. E se ci ripenso, rivedo, insieme agli immancabili mamma e papà, anche i miei nonni, i miei zii e i miei cuginetti, tutti lì ad aspettarmi per passare una nuova e fantastica settimana, come se il tempo fosse tornato indietro. Ecco, infine, una poesia che scrissi un po' di tempo fa, riferita all'ultimo mio periodo trascorso nella città di mio padre.

 

 

Torna settembre

recando malinconica bellezza

e tornano

le spiagge deserte

dell'Adriatico.

 

Stanza d'albergo

angolo di sogni

di visioni

di lune sul mare

di chiarori

di paesaggi quieti

e sereni.

 

Stasera il vento si alza

e avverte con i nuvoloni

la fine di un'estate

trascorsa come le altre

in un cauto esistere disilluso

e solitario.

 

***

 

Quello di cui parlo è un tempo in cui non esistevano ancora i computer e i videogiochi, e per i bambini, una delle cose più divertenti da fare, era recarsi alle giostre con genitori o parenti. Ma che fine hanno fatto le giostre, con le montagne russe, l'ottovolante, la pista con le auto a scontro, il tiro al bersaglio e tante altre attrazioni? Non se ne vedono più. Se vado a rovistare tra i miei (ahimé) sempre più labili ricordi, mi sovviene che, alle giostre, non mi divertivo poi molto partecipando a quei giochi poco fa elencati, neppure mi piacevano i lupini, i popcorn e l'immancabile zucchero filato: il mio unico, grande sollazzo era attraversare il terrificante tunnel degli orrori. Ricordo che era possibile entrarvi soltanto in due, tramite una specie di carrello su dei binari; si entrava quindi in una galleria buia che al suo interno improvvisamente illuminava delle figure per me orribili: scheletri, ragni giganteschi, streghe, vampiri e mostri vari. Non ricordo quanto durasse questo passaggio, ma alla fine uscivo sempre entusiasta, voglioso di ripeterlo almeno un'altra volta. Ora, da quello che so, di giostre (o luna park che dir si voglia) ne esistono ben poche, e forse, presto, spariranno del tutto.    

 

***

 

La mia casa ha anche un giardinetto: un piccolo rettangolo di terra, che, quando ci venni ad abitare, mi sembrava vastissimo, in quanto fino ad allora mai avevo avuto a disposizione, nella casa dove abitavo in precedenza (che era un appartamento), uno spazio del genere. E questo fazzoletto di terra entusiasmava soprattutto i miei genitori, che da quel momento si dedicarono con passione inusitata al giardinaggio - evidentemente era una cosa che covavano da chissà quanto tempo, ma non avevano mai avuto il modo di realizzarla -. In breve tempo, il piccolo giardino si riempì di piante, fiori e di due alberi da frutta; quest'ultimi, comperati nei vivai, all'inizio erano, ovviamente, piuttosto insignificanti in quanto a grandezza, ma ora sono cresciuti decisamente. Era soprattutto mia madre che, come si suole dire, aveva il "pollice verde", e regolarmente si recava in qualche vivaio per aggiungere una nuova pianta alla sua vasta collezione. Ricordo che, nei mesi di maggio e di giugno, il giardino era uno spettacolo grandioso: rose, ortensie, margherite e tanti altri fiori di tutti i colori, decoravano in modo sublime quell'esiguo spazio, facendolo assomigliare ad un paradiso terrestre. Ma anche durante altri periodi dell'anno il giardino era bello a vedersi, ed i fiori non mancavano quasi mai. L'erba era sempre folta e curata, perché i miei genitori non si dimenticavano mai di annaffiarla quotidianamente. Qualcosa cambiò quando, prima l'uno e poi l'altro furono colpiti da malattie serie, che gl'impedirono, tra le altre cose, di dedicarsi assiduamente al giardinaggio. E il giardino cominciò a cambiare aspetto, almeno per quel periodo, che, fortunatamente, non durò molto. Dopo qualche anno, entrambi in pensione, seppure non completamente guariti, tornarono di nuovo ad occuparsi più frequentemente delle loro piante, e così il giardino tornò ad essere bello. Quante volte mi spronarono affinché pure io mi appassionassi al giardinaggio... e, invece, quante delusioni ebbero da me, che non volevo proprio saperne di piante e di fiori; io che a mala pena, alcune volte annaffiavo quel pezzetto di terra così prezioso per loro! No: io non volevo fare nulla del genere, ed ogni volta che mi convincevano a collaborare, magari potando dei rami, scavando una buca o tagliando l'erba del prato, lo facevo in fretta e malvolentieri, causando in loro una delusione che sfociava spesso in parole di rimprovero piuttosto pesanti. Poi papà ci lasciò, e mamma continuò da sola a curare il suo caro giardino, anche negli anni della vecchiaia. Rassegnata ormai a fare tutto o quasi da sola, non smise mai di dedicare un po' di tempo delle sue giornate alle piante ed ai fiori che ancora abbondavano su quel piccolo spazio di terra, malgrado le sue forze, col passare degli anni, diminuissero sempre di più. Io la aiutavo nei lavori più gravosi, ma con la solita non curanza, senza vera passione. Così, il giardinetto, pur non essendo bello come qualche tempo prima, era comunque gradevole a vedersi, con qualche pianta di rosa, l'immancabile ortensia ed altri fiori; gli alberi, oramai cresciuti, avevano frutti in quantità; soprattutto il limone, da questo punto di vista, era una cosa eccezionale per il numero di bei frutti (grandi e succosi) che produceva per gran parte dell'anno. Poi, moristi anche tu, cara mamma... Ora, triste a dirsi, il giardino è peggiorato di molto. Le piante che tu, negli ultimi anni, sebbene a stento ancora curavi, ora sono quasi tutte morte; le poche ancora in vita, stentano ad andare avanti. Il limone si era già ammalato quando eri viva, ed ora non ha quasi più frutti. Ho tolto tutti quei vasi e vasetti che tu avevi riempito di piante, e presto li getterò. Oltre all'erba, che non è certo al massimo dello splendore, nel terreno c'è rimasto ben poco. Questo, che ora è il mio giardino, sembra rispecchiare la mia anima: aridità, squallore, grigiore, vuoto, solitudine e morte la fanno da padroni. Cara mamma e caro papà, il vostro giardino non esiste più, e forse, per non aumentare il dolore che già provo per la vostra scomparsa, stanco di vedere ciò che è diventato a causa mia, presto cambierò casa, trasferendomi in un appartamento.  

 

***

 

Adoro la lingua italiana così come l'arte del mio paese; quando ci sono delle competizioni sportive o artistiche internazionali tifo per gli italiani e sono contento quando un mio connazionale si fa onore nel mondo. Con tutto ciò non sono nazionalista né mai lo sarò. Ritengo sia deleterio e pericoloso qualsiasi tipo di nazionalismo o sciovinismo, e mi dispiace che oggi vada di moda sbandierare insensatamente e con stupido orgoglio i colori delle nazioni di appartenenza. Non esistono nazioni, popoli e razze superiori o inferiori: chi lo pensa è un deficiente.

Non mi riconosco i difetti che vengono attribuiti genericamente e con una buona dose di malignità agli italiani. Non so se rientro nei canoni classici dell'italiano medio, ma mi infastidisce sicuramente il fatto che l'abitante di una nazione, qualunque essa sia, soltanto per essere nato lì venga giudicato con un certo criterio, ignorando il fatto che ogni essere umano, al di là della sua origine, deve essere considerato e giudicato dopo una conoscenza approfondita. Nella mia esistenza ho conosciuto ben poche persone, e tra queste quasi nessuna proveniva da paesi stranieri. Ho sempre ammirato gli abitanti del nord Europa, in particolare gli scandinavi; il motivo di tale ammirazione consiste soprattutto nelle classiche qualità che vengono attribuite a queste popolazioni, tra le quali spiccano la tranquillità, l'onestà e la laboriosità. Se vivessi in uno di quei posti, però, oltre a patire terribilmente il freddo, probabilmente faticherei ad adattarmi, soprattutto per l'età avanzata. In fatto di umanità, penso che ai giorni nostri i paesi migliori in cui vivere siano quelli del sud Europa. L'intolleranza, il razzismo e l'egoismo (i peggiori mali del nuovo millennio), oggi attecchiscono di più al nord e all'est del nostro continente. Se, improvvisamente, dovessi per forza trasferirmi in un'altra nazione europea e potessi scegliere quale, propenderei per la Spagna, il Portogallo o la Grecia.

Sono nato nella periferia di Roma e quindi sono romano a tutti gli effetti. Quando parlo con gli amici e con i conoscenti, spesso uso il dialetto romanesco, anche se non ne vado fiero - si tratta di una tendenza che ormai non so più evitare, né provo più a farlo -. Però non mi riconosco affatto nell'immagine stereotipata di un certo romano medio, che, sebbene spesso susciti simpatia (ma non è scontato), mette in mostra atteggiamenti e comportamenti che, se non mi ripugnano, certamente m'infastidiscono. Fortunatamente non tutti i romani sono, nella realtà, come di sovente vengono descritti.

 

***

 

Da molto tempo ammiro le persone che viaggiano, comprese quelle noiose e asfissianti che ti propinano tutti i loro video dell'ultimo viaggio intrapreso; ammiro anche quelle altre persone che viaggiano sì, ma non si accontentano di farlo, e ti continuano a chiedere: "Dove vai in vacanza quest'anno?" o "Ma non avrai mica intenzione di rimanere a casa anche quest'estate!". A parte ciò, penso che viaggiare sia una attività bellissima: ci si può divertire, ci si può istruire, si può evadere da certe situazioni che rendono la vita opprimente, si possono allargare i propri orizzonti, si possono conoscere persone migliori ecc. Purtroppo viviamo in tempi in cui il terrore la fa da padrone, e alcuni luoghi stupendi, una volta visitabili senza patemi d'animo, sono divenuti pericolosi. Per chi è costretto a limitare o ad abolire i viaggi - magari per motivi economici -, ricordo che c'è sempre la possibilità di viaggiare con la mente; oggi, grazie ad alcuni espedienti, è possibile farlo in svariati modi. Ovviamente c'è la TV, che rifila tutta una serie di documentari e reportage i quali ci descrivono in modo dettagliato le innumerevoli attrattive di località italiane e straniere, conosciute o meno; come è noto un po' a tutti, esistono dei programmi nati soltanto per questo scopo. Sicuramente più seducente è il cinema, che, da ormai più di un secolo, ci offre un numero esorbitante di film ambientati nei posti più reconditi e mirabolanti; anch'io, naturalmente, sono rimasto affascinato dalla visione di alcuni lungometraggi, grazie ai quali ho immaginato di trovarmi in certi luoghi che non conoscevo affatto: mi viene in mente, per esempio, quella zona montana dell'Australia dove si trova Hanging Rock: la montagna che ha ispirato il famoso e bellissimo film di Peter Weir. Penso anche a quei favolosi paesaggi britannici che si possono osservare durante la proiezione di Barry Lyndon: film indimenticabile del grande Stanley Kubrick. Ma, restando in Italia, la misteriosa, cupa e altamente affascinante Venezia vista, in modo originalissimo, da Luchino Visconti in Morte a Venezia, e da Dino Risi in Anima persa (ma, a quanto ne so, questi film sono stati girati a Cinecittà). E, ancora, la campagna lombarda osservabile in film come L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi e Voci nel tempo di Fernando Piavoli. Ovviamente, ho citato i film che a me sono rimasti più impressi, ma, in questa disciplina artistica così vasta, ognuno trova il suo film preferito e rimane colpito dai luoghi che più gli piacciono. Infine, ci sono ancora (grazie al cielo) i cari, vecchi, insuperabili libri, che posseggono un requisito fondamentale in più rispetto a qualunque altro artificio: aiutano a sviluppare la fantasia. Se leggo un libro che parla di un bellissimo viaggio o di un luogo meraviglioso, concentrandomi sulle parole dello scrittore, posso crearmi delle immagini del tutto mie. Non è detto che io debba leggere un romanzo: può essere un reportage, una guida, un articolo o qualche cosa di simile. Mi viene sempre in mente il caso incredibile dello scrittore piemontese Emilio Salgari, che, in alcuni suoi celebri romanzi d'avventura, riuscì a descrivere in modo dettagliato dei luoghi dell'Asia che non aveva mai visitato in vita sua. Quindi, noi che siamo pigri, abulici, troppo timorosi ed emotivi, poco propensi a prendere iniziative, dovremmo provare a viaggiare con la mente, e ad allontanarci dalla solita, noiosa, deprimente routine giornaliera: ci aiuterà a sopportare meglio un dolore che ci indebolisce il cuore giorno dopo giorno, o a dimenticare questa vita piatta, fatta delle solite, identiche, noiose e inutili cose quotidiane. Ma per chi i viaggi li  vuole reali, so che ai giorni nostri non occorre spendere molto per farne, sempre se ci si accontenta di quello che passa il convento. Buon viaggio a tutti.

 

***

 

Recentemente mi è capitato di visitare più volte certi paesini dell'entroterra italiano, sperduti tra i monti, quasi dimenticati e disabitati. Io viaggio pochissimo, e da molto tempo non mi allontanavo dal luogo dove passo i miei soliti giorni; sono state brevi sortite, fatte in compagnia di amici e colleghi, forse impietositi dal vedermi sempre in casa, o forse bisognosi di una qualsiasi compagnia nei pochi giorni in cui, per necessità o per libera scelta, si sono allontanati da casa. Tanti anni fa, quando viaggiavo insieme ai miei genitori, era facile che attraversassimo queste zone dell'Appennino, in cui era rarissimo fermarsi, anche per pochi minuti; in queste occasioni, invece, i giorni in cui vi sono rimasto, mi hanno finalmente premesso di apprezzare totalmente le qualità veritiere, generalmente riconosciute, di cui godono questi paesi quasi negletti. Qui si vive fuori dal mondo o, se vogliamo, in un mondo vecchio, trapassato. Si torna indietro di tanti anni, e se è vero che non è possibile usufruire di mezzi che ci permettono di migliorare la nostra vita, è altrettanto vero che si verifichi un totale rilassamento, un benessere inusuale nelle grandi città, dovuto alla mancanza di caos, ad un ritmo di vita lento, tranquillo e pacifico, alla facile cordialità di chi vive lì e al ritorno di vecchie e ormai estinte tradizioni che hanno fatto grande e più vivibile la nostra terra. Ho notato che molti abitanti qui mantengono ancora quei comportamenti ormai estinti, relativi alla serietà, alla laboriosità e alle consuetudini comportamentali ereditate dagli avi, e mai abbandonate malgrado l'avanzare dei tempi e del progresso scientifico. Purtroppo la popolazione attuale, assai scarsa, è formata quasi totalmente da persone anziane o quasi; i giovani sono pochissimi e, per tale motivo, prevedo che nel giro di alcuni anni questi diverranno paesi fantasma: totalmente disabitati. Anzi, mi chiedo come facciano, oggi, a resistere quei pochi che con orgoglio e coraggio si ostinano a vivere in questi luoghi così distanti dalla vita usuale della società odierna. Ammetto che anch'io, se dovessi stabilirmi qui definitivamente, farei assai fatica a viverci, per una serie di motivi che non sto a spiegare ma che sono facilmente intuibili. Pure, in questi sporadici giorni in cui ho avuto modo di fermarmi per qualche giorno, ho provato un fascino arcano, inspiegabile forse, e nemmeno poi così razionale; quasi in sogno, ho percepito allora dentro di me, una voce che mi voleva trattenere, e mi consigliava di abbandonare tutto l'inutile ciarpame che mi lega ancora ai luoghi dove sono sempre vissuto, per concludere la mia stanca esistenza in simili oasi di pace e di tranquillità.

 

 

CAPITOLO VIII: L'UMANITA'

 

Ripensandoci, mi accorgo che tra me e il resto dell'umanità, c'è sempre stato uno spazio invisibile, tutto mentale, che, attraverso gli anni e in modo costante, mi ha impedito di trovare qualunque tipo di comunanza con gli altri esseri umani.

Ricordo che, bambino, quando ero in vacanza uscivo dalla casa dei miei nonni in cerca di altri bambini, che erano presenti in abbondanza da quelle parti, e che spesso divenivano miei compagni di giochi. Ero felicissimo d'incontrarli e di trascorrere il mio tempo con loro, ma nel caso in cui non ne avessi visto alcuno, sempre e comunque trovavo il modo di trastullarmi in solitudine, con i tanti giocattoli che possedevo o, in alternativa, grazie alle piccole cose e agli animali che mi era possibile rintracciare nel limitato spazio che attorniava l'appartamento dei miei nonni. La solitudine non mi scoraggiava, e mi bastava una macchinina, pochi soldatini, dei tappi di bottiglie o dei semplici insetti, per passare un'intera giornata divertendomi senza un attimo di noia. Cogli anni, questa mia tendenza crebbe; ebbi sempre meno amici, fino a perderli tutti, e il mio tempo libero - che ho sempre cercato di non farmi mancare - lo ricoprivo tutto con i miei interessi solitari, stupidi che fossero. Quando succedeva che mi appassionassi di qualcosa, non era nessuno a farmi da consigliere, se non qualche mass media (la televisione soprattutto) o qualche giornale. Ben presto mi resi conto che tra me e gli "altri" esisteva una distanza cospicua, se non abissale, riguardante quasi tutti gli ambiti: dal modo di pensare a quello di agire; dagli hobby alle passioni; dai vizi alle virtù. A mano a mano che crescevo, quindi, pur avendo sempre, nel mio inconscio, la speranza di poter trovare un'anima gemella (modo di dire che fa un po' ridere ma non ne trovo un altro più adeguato) o un amico "del cuore" o forse un maestro di vita, continuavo a tenermi totalmente in disparte dal resto dell'umanità, ricercando soltanto ciò che poteva interessarmi ed appassionarmi, al di là delle cose che potessero avvicinarmi ad altre persone. Coltivai i miei hobby da solo, forse non soltanto per misantropia; fatto sta che trascorsi anni e anni senza frequentare coetanei, ed anche il rapporto coi miei genitori, troppe volte si limitava all'essenziale e diventava freddo, arido... Potevo trascorrere giornate intere nella mia camera: lì trovavo tutto quello di cui avevo bisogno - a parte il cibo - per vivere. E gli anni, così, passarono, e mi ritrovai, adulto, finalmente con un posto di lavoro che per la prima volta mi offriva la possibilità di guadagnare e, volendo, di metter su famiglia. Ma tutto questo non m'interessava più di tanto, anzi, probabilmente mi avrebbe soltanto creato problemi e preoccupazioni. Così, pur avendo dei limitati rapporti sociali, continuai a percorrere quella strada che avevo già iniziato, restando estraneo a qualunque realtà esterna. Ora, invecchiato, mi accorgo che quel solco, quella distanza enorme che mi separa dagli altri, è ulteriormente aumentata, e comprendo che non ci sono più possibilità che in futuro possa diminuire (semmai può aumentare). Però, riflettendoci, mi rendo conto che, pur non avendo fatto una vita eccezionale, e non avendo provato quella felicità che, forse, si prova soltanto se si hanno dei rapporti umani, posso ritenermi fortunato; la mia fortuna è consistita e consiste nel non dover ricercare a tutti i costi una compagnia; è consistita e consiste nella personale possibilità di rimanere da solo senza troppi problemi, trovando nella solitudine quella libertà essenziale che permette di coltivare i propri interessi senza alcun ostacolo di sorta. Eppure la mia mente, un po' inconsciamente e un po' consapevolmente, ricerca sempre qualcosa che possa farmi sentire almeno un po' simile a qualcun altro; forse per attenuare quel senso di solitudine totale che pesa anche ad un'anima come la mia, abituata a fare a meno degli altri. Forse ciò vuole dimostrare che è impossibile rassegnarsi completamente all'esclusione ed alla solitudine, perché l'essere umano è nato per socializzare, e quindi, qualunque sia il suo status, tende sempre alla ricerca di un'anima almeno che possa condividere quello che gli sta più a cuore. In conclusione, eccomi ad esternare nuovamente qualcosa che evidentemente non riuscivo a tenere per me e che dimostra la mia impossibilità di chiusura totale verso il mondo.

 

***

 

Ho sempre pensato che sia impossibile difendersi dalle calunnie, dalle falsità e dalle cattiverie in generale. Nei casi in cui sono stato offeso, ingiuriato o penalizzato non ho mai pensato di restituire pan per focaccia; ho sempre preferito l'indifferenza e in taluni casi il perdono; la famosa frase di Gesù: «Porgi l'altra guancia», non la condivido in pieno, ma la ritengo sacrosanta. Sì, alla fine sono un pacifista, pur sapendo che i pacifisti sono destinati ad una perenne sconfitta, soprattutto in un mondo come il nostro dove le guerre son sempre di moda e l'odio è un hobby irrinunciabile. Non sopporto i razzisti e mi riesce difficile capire cosa stia succedendo in Europa e negli Stati Uniti. In tutto questo sfacelo, mi conforta la certezza che ancora esistono tante persone per bene, le quali, di sovente, al contrario dei violenti e dei malvagi, non fanno rumore, ed è quindi più difficile individuarle. Io, con tutti i miei difetti, mi ritengo uno di loro.

Non sono mai stato un "buono" a tutto tondo, ma è certo che non ho mai fatto cattiverie a chicchessia in tutta la vita; quando vedo una persona a me vicina che si altera e mostra una rabbia o un odio sconsiderati nei confronti di qualcuno o qualcosa, cerco sempre di calmarlo e di persuaderlo alla mansuetudine e al perdono. E da questo punto di vista mi ritengo coerente. Per quanto a volte mi risulti difficile e doloroso, faccio di tutto per evitare reazioni sconsiderate, per fare polemiche e per dire frasi molto pesanti, di cui poi potrei pentirmi amaramente. Insomma, è difficilissimo che io litighi con qualcuno, come è difficilissimo che faccia uso di violenza fisica o verbale nei confronti di chi mi provochi e mi faccia dei soprusi. Non aspiro a diventare un santo, è semplicemente una mia filosofia di vita, che cerco di attuare sempre e comunque, e che mi fa stare meglio con me stesso. Non dico nemmeno che sia la più giusta, ma è soltanto quella che ritengo migliore per la mia persona.

 

***

 

C'è in giro troppa gente che non riesce a farsi i fatti propri e s'infila in quelli degli altri. La curiosità è insita nel DNA degli esseri umani, su questo non vi sono dubbi, ma esistono diversi tipi di curiosità; purtroppo sono molti coloro che amano curiosare in fatti ed argomenti privati, che non dovrebbero interessargli affatto. Pur avendo una specie di comprensione per chi s'interessa di fatti personali, mi riesce difficile tollerare le domande troppo insolenti, insistenti e ingiustificate. Forse - su questo non ci posso giurare non essendo uno psicologo e tanto meno uno psichiatra - tale morbosa curiosità nasce dall'inconscio di chi ha vissuto particolari esperienze, o di chi non ha trovato migliori e più adeguati interessi tra i tanti che si possono presentare nel corso della vita di ognuno. Fatto sta che queste persone sgradite e fastidiose esistono, e spesso occorre conviverci per motivi di necessità. Però bisogna distinguere tra coloro che cercano d'intrufolarsi nei fatti altrui bonariamente e quelli, invece, che ci mettono una buona dose di malevolenza. I primi è bene riconoscerli subito, perché tutto sommato non meritano di essere penalizzati, essendo soltanto eccessivamente curiosi di affari che, questo è vero, non dovrebbero riguardarli; i secondi vanno bloccati, per quello che è possibile, immediatamente. Questi ultimi in genere si fanno riconoscere perché la loro insolenza e, alle volte, la loro ingiustificata invidia è facilmente percepibile; a costoro, nei momenti in cui si permettono di fare delle domande inopportune, non ritengo sia il caso di rendergli la pariglia, poiché si rischierebbe di abbassarsi troppo al loro infimo livello; meglio allora rispondere con affermazioni brevissime o vaghe, in modo che la loro morbosa e immotivata curiosità non venga mai soddisfatta e che si rendano conto di non aver scalfito affatto la nostra calma interiore ed esteriore. Purtroppo ne esistono tanti di questi personaggi, e può risultare facile incontrarli nel lungo precorso della vita umana; è bene quindi armarsi di tanta pazienza, e studiare il modo migliore per allontanarli o per renderli innocui. Concludo precisando che io - e mi duole ammetterlo - nella mia vita non sempre sono stato capace di identificare con precisione chi meritasse comprensione e chi, invece, meritasse soltanto un allontanamento; spesso mi è successo di fallire nel riconoscere un amico vero o uno falso, e qualche volta ho pagato a caro prezzo i miei errori. Questione di scarsa intelligenza? o forse di poca furbizia? non lo so, ma quel che è fatto e fatto. Ovviamente, nel resto della mia esistenza spero di non fare più errori di tal genere, avendo anche acquisito un'esperienza maggiore. Intendo infine far tesoro delle spiacevoli vicende riguardanti questo particolare argomento, che mi hanno coinvolto direttamente.

 

***

 

Sempre più spesso mi capita di assistere direttamente ad orribili spettacoli di estrema volgarità; che consistano in gesti, in discorsi o in parole scritte poco cambia. Questa compiaciuta e spudorata esibizione di volgarità non è di adesso: dura già da molti anni (forse più di quanti io creda e sappia); non è una moda, ma una specie di escalation che non si sa dove porti e se potrà avere una fine. Una volta pensavo fosse questione di ambienti: frequentare persone poco istruite e poco educate comporta, ovviamente, una possibilità maggiore in questo preciso ambito; ma ora comincio a pensare che tale discorso lasci il tempo che trovi, e vedo che la cafonaggine coinvolge anche chi possiede un certo bagaglio culturale: tutti i ceti sociali sono inclusi ed essere volgari ai giorni nostri, se non è un obbligo, poco ci manca. Gli argomenti preferiti per poter estrinsecare una serie di scurrilità sono pochi: lo sport, la politica (in cui emerge anche una spiccata superficialità ed un evidente qualunquismo), l'attualità e, su tutti, il sesso. Basta poco o niente perché si sviluppi il turpiloquio che a volte assume toni molto aggressivi, a volte invece è sorretto da una divertita sguaiataggine. Tutto può facilmente nascere dalla visione di una giovane donna, magari formosa, perché si comincino a sfogare verbalmente i più bassi istinti umani (e chi non partecipa probabilmente non è normale). Se si parla di politica, è certo che tutti i politicanti sono ladri e anche coloro che sembrerebbero onesti, col tempo lo diventano sicuramente. Se si parla di emigranti, troppo spesso si passa a soluzioni assurde, proposte con una tale rabbia che lascia sconcertati. Lo sport discusso è, naturalmente, quasi sempre il calcio; qui ogni tifoso porta l'acqua al suo mulino e non esiste qualcuno che abbia un minimo di obbiettività. È sottinteso che ogni argomento viene condito da parolacce di ogni genere, con alcune preferite che ricorrono assai di frequente. Detto questo, concludo invitando coloro che non amano la volgarità ad estraniarsi da tali discussioni. Il rischio può essere quello di rimanere isolati, di essere considerati degli asociali o cose simili, ma, a mio modesto parere, è sempre meglio che adeguarsi alla volgarità dilagante.

 

***

 

Non so se soltanto in Italia il cattivo esempio sia quello più seguito, so comunque che qui da noi è così. Si imitano comportamenti censurabili di tutti i tipi che a mio avviso sono stati addirittura esaltati dalla classe politica italiana dell'ultimo ventennio. Li vado di seguito ad elencare.

 

 Alzare la voce.

Alzare la voce perché si posseggono dei requisiti di comando sul lavoro.

Barare al gioco.

Comportarsi in modo servile e ruffiano nei confronti di chi possiede dei poteri.

Emettere rumori volgari col proprio corpo in modo volontario in presenza di altre persone.

Dire bugie.

Esibire spudoratamente gli oggetti personali.

Esibire spudoratamente il proprio corpo.

Esibire spudoratamente la propria ricchezza.

Falsificare bilanci e molte altre cose (documenti, notizie, soldi ecc.)

Fare apprezzamenti volgari sul fisico di una persona.

Fare critiche volgari sul fisico di una persona.

Fare soldi in modo disonesto e vantarsene.

Favorire delle persone immeritevoli perché si posseggono dei poteri.

Ingiuriare persone in modo razzista.

Non pagare le tasse.

Parlare a sproposito troppo spesso.

Passare avanti agli altri nelle file.

Rubare e vantarsene.

Superare il limite di velocità alla guida.

Usare la forza per ottenere ingiustamente qualcosa.

Usare la violenza per ottenere ingiustamente qualcosa.

Vantarsi in modo spudorato dei propri, presunti meriti.

 

 

Ebbene non si può negare che questi comportamenti siano troppo frequenti e che ognuno di noi può osservarli semplicemente vivendo in mezzo alla gente. Cosa triste, anzi tristissima, dovuta forse ad una assenza di educazione e di cultura favorita, come già detto in precedenza, da una classe politica ingorda e incompetente, che in almeno venti anni non ha mai cercato di migliorare la qualità di vita della popolazione e che ha favorito l'inciviltà e l'ignoranza.

 

***

 

Non posso e non potrei mai nascondere la mia delusione che scaturisce dal conoscere approfonditamente delle persone che in precedenza conoscevo soltanto superficialmente. Parlo in generale, ma mi riferisco ad esperienze personali avute di recente. Ciò che mi meraviglia e mi deprime maggiormente, è la grande ignoranza che viene fuori in modo inequivocabile dalle considerazioni che ascolto da tali persone, e che riguardano un po' tutti i campi. Ho ormai la assoluta certezza che gran parte della popolazione non conosce la storia, e, cosa ancor più grave, tale mancanza di conoscenza riguarda la nostra storia recente, ovvero quella che va da un secolo or sono ai giorni nostri. Da questo fatto, penso, oggi nasce e prolifera la sciagurata simpatia per ideologie di destra (o addirittura di estrema destra), che purtroppo sta facendo rivivere spettri terribili di un passato tremendo, fatto di odio, stermini e guerre. Non di meno, stanno rifacendo capolino idee assurde, credenze medioevali e cose simili, che si basano su convinzioni del tutto irrazionali, e che basterebbe semplicemente usare un po' di cervello per rendere ridicole. Io devo dire che ho ascoltato individui convinti che esistano i fantasmi; altri asserivano di essere certi che nel nostro pianeta siano già arrivati degli extraterrestri, sebbene la popolazione ne sia all'oscuro; altri ancora - e qui ritorno all'argomento "politica", sono sicuri che Hitler e Mussolini non erano dei criminali, che neppure potevano essere definiti dittatori. Potrei continuare ad elencare una serie di opinioni a dir poco stravaganti che ho sentito personalmente; ma preferisco non farlo perché bastano questi pochi esempi per capire quanto sia carente lo stato di conoscenza di tanta gente. Devo però precisare una cosa: a me succede di parlare quasi esclusivamente con persone poco istruite, che non leggono e quando hanno voglia d'informarsi su qualche argomento, troppo spesso ricercano e attingono le notizie dai social network. Mi pare scontato aggiungere che, in molti casi, tali persone si siano fatte condizionare dalle famigerate fake news; ma non c'è soltanto questo: altrettanto spesso, queste convinzioni errate e primitive si sono radicate nelle loro menti dalle voci che hanno ascoltato in un passato sia recente che remoto; voci "popolari", che più si ripetono, più divengono veritiere. Ma, al di là delle cause di tale ignoranza dilagante, ciò che provo io nel sentire tanti e tanti pensieri, frasi e ragionamenti totalmente distanti dal mio sentire, è uno scoramento profondo, unito ad una voglia sempre più preponderante, di tacere ogni qual volta senta una voce che mi fa sobbalzare, che mi fa indignare...

Devo infine dire che queste persone di cui ho parlato, sono tutt'altro che cattive; spesso si dimostrano generose e buone con me, e anche per questo motivo non saprei mai offenderle. Probabilmente adotterò il silenzio come unico metodo efficace per non discutere inutilmente, poiché mi risulterebbe assolutamente impossibile convincere chiunque che quelle affermazioni fatte con assoluta sicurezza sono del tutto sbagliate. Proverò a cambiare argomento, sperando ce ne sia almeno uno in cui possiamo arrivare alla conclusione che, magari soltanto su quello, c'intendiamo perfettamente.

 

***

 

Ho sempre più l'impressione di essere completamente estraneo alla società odierna. Non mi ritrovo più nei discorsi della gente, nella politica, in tanti modi di pensare e di agire... Mi sembra di assistere ad un peggioramento generalizzato, riguardante i più svariati ambiti. Tra le cose che m'infastidiscono di più c'è un razzismo ormai dilagante, che sfocia in azioni ignobili. Mi chiedo cosa sia accaduto agli italiani, che per anni e anni hanno subito il razzismo, e che tutt'ora, per certi versi, lo subiscono; il concetto stesso della parola razzismo non ha alcun senso, perché ritenere inferiore un essere umano soltanto per la sua razza o per il colore della pelle, è semplicemente assurdo e indica, per lo meno, totale stupidità. Ma dietro questo presunto razzismo, molto probabilmente c'è un odio recondito, che trova il modo di emergere con questa scusa, per potersi sfogare con le parti più deboli della nostra comunità. Sugli zingari, poi, ho ascoltato e ascolto delle frasi esecrabili; eppure, da quanto ricordo, gli zingari hanno sempre vissuto nel nostro paese e, sebbene si siano macchiati spesso di furti, sono stati sufficientemente tollerati dalla nostra popolazione. Ora, sembra che gli italiani non vogliano più vederli, e le parole di odio verso di loro, come quelle verso le persone di colore e tutti i cosiddetti extracomunitari, si sprecano. E' vero che stiamo vivendo un periodo del tutto particolare, con sbarchi continui sulle coste europee di migliaia di persone che fuggono dai loro paesi d'appartenenza, ma questo non giustifica la completa mancanza di pietà e l'odio per il diverso che tanti italiani stanno dimostrando. A proposito di odio per la diversità, anche l'omofobia imperversa. Dietro a tutto questo cresce sempre più, tra le masse, una voglia di fascismo che mi spaventa. Io ho sempre detestato il fascismo e sempre lo detesterò, e sentire di continuo, almeno tra alcune persone che frequento, discorsi che inneggiano e invocano la dittatura m'infastidisce. Trovandomi in netta minoranza, se non da solo, spesso non intervengo nelle discussioni, sapendo che è inutile, e cerco di giustificare in qualche modo questo ripugnante modo di pensare che caratterizza una parte non indifferente della popolazione italiana. Probabilmente la lunga crisi economica conclusasi di recente, e il conseguente impoverimento di una cospicua fetta del popolo, ha fatto sì che quest'ultimo accumulasse del rancore verso chi ci governa, e desiderasse qualcosa di differente. Resta il fatto che, alla base di tutto c'è tanta ignoranza, perché basterebbe informarsi e leggere per conoscere la realtà e il significato del fascismo: un periodo sciagurato di dittatura vissuto dalla nostra nazione per ben vent'anni, e terminato dopo una guerra tremenda. Ovviamente, dietro tutto ciò, ci sono dei partiti che cavalcano questo scontento generale della popolazione italiana, e diffondono delle notizie spesso false, tali da facilitare l'avversione verso gli stranieri. Questa situazione non si registra soltanto in Italia, ma coinvolge un po' tutta l'Europa; lo dimostra l'ascesa generalizzata di partiti di estrema destra e xenofobi, che in alcuni paesi hanno già ottenuto la maggioranza e quindi stanno governando. Il fatto ancor più allarmante è che perfino negli Stati Uniti, ovvero nella nazione che, dalla sua nascita, ha sempre accolto con estrema tolleranza gli stranieri che volessero recarvisi per trovare lavoro e vivere dignitosamente, ora si avverta la stessa aria di ostilità, lo stesso sentimento di odio verso chi non è nato in patria. A proposito di patria, altra assurdità venuta fuori di recente è il nuovo concetto della parola "patriota", che per me significa ancora amante della propria patria, mentre per certi partiti di destra ora è concepita in modo del tutto diverso; per costoro il patriota è colui che odia tutti quelli che non fanno parte della sua patria, e che quindi li combatte; insomma, siamo tornati al nazionalismo più idiota, quello che ha causato la nascita del fascismo prima e del nazismo poi, con le conseguenze che tutti  sappiamo. Per concludere, mi pare di assistere ad un'involuzione della società, con un numero sempre più grande di persone che, addirittura, si rivolgono con simpatia alle ideologie più irragionevoli di un passato remoto, fautrici di disastri e di sventura. Sinceramente non vedo come tale prospettiva possa mutare a breve, anche se la speranza è l'ultima a morire... 

 

***

 

Sorridi quando vai per le strade della tua città, sorridi quando saluti le persone! Sorridi quando ti scattano la fotografia per un documento, sorridi quando ti fai una foto che metterai su un social network!... Sorridere, insomma, è diventata una condanna: tutti vorrebbero vedere stampato sulla tua faccia un perenne sorriso che, a mio modo di vedere, non ha alcun significato. Ovviamente non lo ha per me, ma per molte persone è una cosa fondamentale: ho sentito, guardando la TV, della gente che, durante un'intervista, giudicava un politico, un uomo di spettacolo e perfino un delinquente per quanto sorrideva davanti alle telecamere o di fronte ad un pubblico. Il sorriso, evidentemente, emana una immediata (e immotivata) simpatia nelle persone che percepiscono in tale amorfia facciale un senso di serenità e di facile approccio. Ma io, come chissà quanti altri, so che non c'è cosa più falsa di un sorriso. Quante volte mi è capitato di osservare dei conoscenti (o anche dei parenti) assumere le sembianze sorridenti davanti a delle persone, e poi, dietro le loro spalle, accoltellarle simbolicamente con epiteti, frasi e sentenze particolarmente offensivi. Quanti individui ho veduto portare in giro a tutte le ore una maschera di volto sorridente pur avendo, dentro, un rancore ed una rabbia che io conoscevo bene... A tal proposito, voglio concludere con due ottime canzoni di qualche anno fa che parlano, in alcune loro parti, del sorriso: la prima è di Luigi Tenco; fa parte di un album uscito nel 1966 e s'intitola "Io sono uno". Ad un certo punto dice: «Io sono uno / che sorride di rado, questo è vero / ma in giro ce ne sono già tanti / che ridono e sorridono sempre / però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro». L'altra è di Roberto Vecchioni, che nel 1976 incluse in un suo 33 giri un testo dedicato alla figlia appena nata; in un frammento si ascoltano queste parole: «Vorranno / la foto col sorriso deficiente / diranno: "non ti agitare che non serve a niente" / e invece tu grida forte / la vita contro la morte». Che dire: altri tempi!

 

***

 

Qualche mese fa una persona che conosco mi ha parlato, a proposito di un suo amico, che si era dimostrato geloso nei suoi confronti. In verità non era la prima volta che ascoltavo una affermazione del genere, e, come già avevo risposto in precedenza, anche allora ho risposto che la gelosia tra amici non può e non deve esistere, poiché non ha senso. Come tutti sanno, la gelosia è un sentimento che ha ben pochi aspetti positivi e molti negativi: si tratta di una specie di paura che sorge in un individuo, perché teme di perdere la persona amata, e di conseguenza assume dei comportamenti aggressivi e inopportuni. La gelosia ha un senso soltanto tra persone che stanno vivendo una relazione amorosa; sono, spesso, gli uomini a soffrirne di più, soprattutto se sono legati ad una donna giovane e affascinante. Può succedere, purtroppo, che proprio le donne cerchino di far scaturire negli uomini questo stato emotivo, perché insoddisfatte del modo in cui essi stanno vivendo la relazione (magari si sentono trascurate o non abbastanza considerate). Esiste, a mio avviso, anche un divertimento gratuito nel provocare la gelosia del partner, e in questo caso si sconfina in una malattia mentale che alla fine, quasi sempre, compromette il rapporto di coppia. È cosa nota che gli uomini italiani (e in genere quelli latini) siano particolarmente gelosi, e tendano a trattare le donne con cui sono legati da un rapporto sentimentale, come fossero di loro proprietà; quest'ultime vengono così a perdere gran parte della loro libertà, e ogni comportamento considerato "sospetto" dall'ottuso maschio latino, finisce per divenire un dramma, se non, nei casi noti di femminicidio, una tragedia. Dicevo che la gelosia per me è un sentimento negativo, e mi ritengo fortunato a non averla mai provata in alcun modo; in questa mia affermazione non considero il periodo dell'età infantile, quando è più facile - per motivi che ben si comprendono - provare qualcosa del genere per un amico di giochi che si allontana o preferisce la compagnia di altri bambini. Quando si cresce, però, si dovrebbe cominciare a ragionare e di conseguenza ad evitare comportamenti istintivi che non hanno nessuna base logica. Io posso avere da uno a centomila amici, e chiunque si ritenga mio amico può fare la medesima cosa; l'amicizia "esclusiva" può anche esistere ed avere un senso, purché rimanga sempre ben presente ad entrambi gli individui che stanno vivendo questo sentimento, la possibilità di allargare le loro relazioni sociali quando ce ne sia l'occasione o la possibilità; se ciò non viene considerato o viene represso, il rapporto di amicizia è divenuto morboso, e va ridiscusso urgentemente. Per quanto riguarda la gelosia presente in un rapporto tra uomo e donna, anch'essa va eliminata quando è possibile; altrimenti diviene necessaria e urgente anche qui una chiarificazione che sia utile a far ritornare i sentimenti di entrambe le persone interessate nei binari di una relazione sana e piacevole.

 

***

 

Nel 1984 il gruppo musicale degli Alphaville pubblicò una canzone di grande successo intitolata "Forever young" (in italiano significa "Per sempre giovane"). Qualche anno dopo, se non vado errato, molti ex giovani presero alla lettera le parole del citato brano musicale, dimenticandosi di aver superato, anche da parecchio tempo, l'età giovanile, continuando perciò a vestirsi, comportarsi e confrontarsi con gli altri, come se fossero ancora giovani. Questo anomalo comportamento, che potrebbe essere definito anche uno stile di vita, si è prolungato e accentuato cogli anni; allora oggi è facile notare un notevole numero di uomini e di donne che si illudono di essere ancora ragazzi e ragazze. Costoro farebbero anche i salti mortali per rallentare o, (miracolo!) bloccare l'invecchiamento del corpo. Si aiutano come possono: vanno in palestra, fanno sport, a volte ricorrono ad operazioni chirurgiche... Quando sta per giungere l'estate, per la stragrande maggioranza di questi eterni giovani è di prassi la dieta dimagrante che, più è ferrea, più garantisce una decente prova costume. Sposati quasi tutti, oppure separati, seppur quarantenni, cinquantenni o, addirittura sessantenni, ancora sognano il grande amore, magari con una persona particolarmente avvenente e molto più giovane di loro. Il fatto è che son convinti di possedere un fascino irresistibile e di essere come il vino che, più invecchia e più è buono. Ma vedere questi volti pieni di rughe, questi corpi segnati dal tempo, queste teste rasate a zero per celare la calvizie, vestirsi come i ragazzini, trasmette un'impressione patetica: assomigliano ad un uccello che voglia volare seppure abbia le ali tarpate; ad un violinista che pretenda di suonare il suo violino senza possedere l'archetto. Per quanto possa essere triste e angoscioso, è un fatto incontrovertibile che la gioventù finisca, e che gli anni passino fino alla vecchiaia e alla morte. Bisognerebbe perciò, accettare la propria età: farsene una ragione. Non esistono elisir di eterna giovinezza, e le illusioni prima o poi finiscono.

 

***

 

Cosa spinge un uomo, giunto ad una età avanzata, che comporta una pressoché assoluta certezza di un futuro poco attraente, ad andare comunque avanti?

E tanto più la domanda è lecita se questo uomo non ha le attrattive della famiglia; non ha dei figli da crescere e da aiutare nel percorso tortuoso della vita; non ha una persona cara - genitore o compagna che sia - da amare e curare, con cui dialogare, viaggiare, vivere...

Esiste soltanto una risposta a questi tipi d'interrogativi: "l'istinto di sopravvivenza".

Quell'istinto che tutti abbiamo nel nostro DNA e che ci fa affrontare con irrazionale ottimismo qualsiasi situazione negativa si presenti nel nostro percorso esistenziale.

Tale istinto si concretizza e si appalesa grazie a una voce interiore che ci dice, contro tutto e contro tutti, che esiste una via d'uscita al nostro malessere, al nostro non-sperare, e che ci spinge verso un futuro difficile, a volte tremendo, pensando sempre di superare qualsiasi difficoltà, persino quelle assolutamente insuperabili.

Per abbattere questo nostro istinto primordiale, occorrerebbe rinunciare alla cosiddetta sanità mentale. Infatti, a mio avviso, solo e soltanto un pazzo può togliersi la vita.

Ebbene sì: a pochi passi dalla vecchiaia, senza prospettive entusiasmanti, con il corpo e la mente che ogni anno vanno deteriorandosi e perdendo qualcosa d'importante, anch'io, forse inconsciamente penso che il domani potrebbe riservarmi chissà quale bella sorpresa; dentro di me so bene che ciò è impossibile, e se dovesse esserci una sorpresa che mi riguarda, negli anni a venire, non sarà certo bella; eppure quella vocina che proviene dall'inconscio, e fa parte del mio programma (come se io fossi una macchina e non un essere umano), mi convince a proseguire il cammino. Il solo elemento che mi rende meno doloroso il vivere, è l'assoluta libertà che finalmente posseggo, alla quale non saprei più rinunciare.

Ricordo una frase di una bella canzone di Lucio Dalla, intitolata Quale allegria, che, penso, possa esprimere perfettamente il labile e inconsistente scopo del nostro vivere quando si è già avanti cogli anni, il quale si riduce ad una sorta di fatua competizione tra gli altri coetanei per giungere al traguardo finale da ultimi anziché da primi; questa frase dice: "Facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale", e il gran finale ovviamente è la morte.

 

***

 

Mi è capitato, un po' di tempo fa, di ascoltare per caso alcuni commenti fatti da un cantautore italiano a me sconosciuto, riguardanti i temi del suo ultimo disco. Diceva, costui, parlando delle sue canzoni, che l'interesse principale dei suoi testi è rappresentato da personaggi che potrebbero essere definiti "perdenti"; ha quindi affermato che pure in letteratura e, volendo, nel cinema, non di rado i protagonisti sono gli sconfitti, o, come si suole dire oggi: gli "sfigati". Ebbene, io posso ben dire che, almeno dalla mia prima gioventù, ho avuto sempre un'estrema simpatia nei confronti dei perdenti, da qualunque mondo o situazione essi provengano. Parlando di letteratura, le migliori poesie italiane sono state scritte da esseri umani sofferenti (Giacomo Leopardi, Guido Gozzano e Cesare Pavese sono tre esempi importanti); lo stesso discorso vale per la prosa: si pensi a romanzi come Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, Tre croci di Federigo Tozzi e Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Per quanto riguarda il resto del mondo, si potrebbero fare numerosi altri esempi, ma mi limiterò a citare Nanà di Émile Zola, Martin Eden di Jack London, Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, Uomini e topi di John Steinbeck e Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle. Nel mondo della musica, almeno all'interno del settore concernente la canzone d'autore italiana, sono ancora una volta i perdenti ad imporsi; chi non ricorda La guerra di Piero, La canzone di Marinella, Bocca di Rosa, Il pescatore e tante altre canzoni di Fabrizio De Andrè? E, sulla stessa linea, quelle di Enzo Jannacci come El purtava i scarp del tennis, Bobo Merenda, Pedro Pedreiro e Giovanni Telegrafista? E Luigi Tenco, che, oltre a scrivere e interpretare canzoni come Vedrai, vedrai, Un giorno dopo altro e Ciao amore, ciao ha sancito la propria inadeguatezza alla vita suicidandosi? E, se si pensa ai cantautori degli anni '70, l'elenco diviene molto più sostanzioso. Per citarne solo alcune ricorderò Piazza grande di Lucio Dalla, E li ponti so' soli di Antonello Venditti, Irene di Francesco De Gregori e Cambio gioco di Roberto Vecchioni. Anche diversi autori stranieri, europei e non, amarono descrivere in bellissime canzoni dei personaggi destinati alla sconfitta: cito soltanto Pauvre Martin di Georges Brassens, Nancy di Leonard Cohen e Vincent (ispirata al grande pittore Vincent Van Gogh) di Don McLean. Passando al grande cinema, e iniziando il discorso coi film del neorealismo, come dimenticare, in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, il padre che, poverissimo e disperato, si  rende autore di un furto davanti agli attoniti occhi del figlio? Oppure il bambino che si toglie la vita in Germania anno zero di Roberto Rossellini?; E come non rammentare il povero Umberto D (un altro film di De Sica), pensionato che subisce uno sfratto e si ritrova per strada, incapace di trovare una sistemazione per il suo cane e persino di suicidarsi? O, ancora, in Bellissima di Luchino Visconti, i sogni infranti della madre che vedeva per la figlia un futuro radioso nel mondo dello spettacolo? E non sono quasi tutti dei perdenti quei giovani romagnoli che Federico Fellini magistralmente ritrasse nel film I vitelloni? Si potrebbero, inoltre, citare parecchi altri personaggi presenti in ottimi film italiani dei decenni successivi, come il ragazzo de Il sorpasso di Dino Risi; l'idraulico de I giorni contati di Elio Petri; il più giovane dei due fratelli che sono protagonisti in Cronaca familiare di Valerio Zurlini; l'illustratore di carte geografiche di Durante l'estate di Ermanno Olmi; il rivoluzionario di San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani; due dei tre amici di C'eravamo tanto amati di Ettore Scola; il professore di Bianca di Nanni Moretti ecc.

Come ho già accennato, la mia simpatia per i perdenti si manifestò già dalla prima gioventù, e crebbe cogli anni. Molto probabilmente, ciò si deve al fatto che io mi identificassi facilmente con questi personaggi, avendo la netta percezione di rientrare in pieno nella categoria. E poi gli sconfitti, così come gli ultimi, i diseredati e i poveri in generale attirano da sempre più simpatia dei cosiddetti vincenti. Insomma, viva i perdenti.

 

***

 

I personaggi della storia che ho ammirato di più appartengono al mondo della politica e della religione, tra di essi spiccano Gesù di Nazareth, San Francesco d'Assisi, Mahatma Gandhi, Martin Luther King e Madre Teresa di Calcutta. Non mi affascina la politica e non credo in Dio, ma queste persone hanno saputo creare qualcosa di impensabile, basandosi fortemente sulle loro saldissime convinzioni politiche e religiose. Grazie a loro ho capito una cosa: ciò che conta di più, nel portare a compimento un progetto, è crederci fermamente, anche quando le possibilità di riuscita sono pochissime. Ebbene, contro tutti e contro tutto, questi personaggi che ho citato hanno fatto nascere un sogno; alcuni di essi hanno pagato con la vita il coraggio di sfidare il potere, ma dopo di loro quel progetto e quel sogno che avevano in mente e che appariva utopico, è andato comunque avanti ed ha raggiunto la sua realizzazione. Costoro rappresentano esempi che è quasi impossibile seguire, per le ovvie difficoltà che comporta il farlo: sono le persone più eccezionali tra le eccezionali. 

 

***

 

Nell'ambiente decisamente rozzo in cui mi ritrovo giornalmente a lavorare, un po' tutti usano un linguaggio triviale, volgare e sgrammaticato. Io faccio eccezione, e penso che questo fatto infastidisca la maggior parte di coloro che si trovano, in mia presenza, a fare dei discorsi infarciti di frasi e vocaboli scurrili; di frequente, succede che perfino le donne - in genere assi meno volgari - a cui scappa qualche parolaccia durante uno sfogo con qualcuno, vistomi nei pressi si scusano con me, come se io rimanessi scandalizzato o inorridito dalle loro frasi del tutto istintive. Ciò mi dispiace, ma non tanto da farmi cambiare atteggiamento: non mi adeguerò mai a quei tipi di linguaggio, malgrado li debba ascoltare per molte ore tutti i giorni. Ho notato però che, da quando cominciai a lavorare in tale ambiente, anche il mio modo di dialogare con i colleghi è peggiorato, e se prima, parlando con qualcuno, non usavo mai alcuna parolaccia, adesso è facile che la usi, sempre però nei limiti della cosiddetta decenza. Questo rifiuto della volgarità nel linguaggio e nelle azioni (che per me è senz'altro un pregio) lo devo ai miei genitori; però, malgrado mi abbiano insegnato sempre a non dire determinate parole, anch'essi, quando perdevano la calma, spesso sfociavano nel turpiloquio, pur stando però sempre attenti a non superare determinati limiti. Per quanto riguarda me, invece, ricordo che fu l'ambiente della caserma, il primo tra quelli in cui mi ritrovai a vivere, dove era di casa la scurrilità in tutte le sue forme e le sue espressioni. Fortunatamente, nell'anno in ci rimasi, il mio modo di parlare non venne assolutamente modificato (forse anche perché parlavo pochissimo e non fu molto il tempo per assimilare quelle usanze). Ora, mi accorgo che nell'ambiente lavorativo vi sono, tra gli uomini, tanti "volgari cronici", i quali non riescono assolutamente, anche di fronte alle donne o ad estranei, a non usare, nei loro strampalati discorsi, quelle parole che andrebbero sempre e comunque evitate, perché assolutamente inopportune oltre che marcatamente volgari. La mancanza totale di cultura, l'assidua frequentazione di persone che gli somigliano nei peggiori difetti e il rifiuto totale di ogni tipo di miglioramento, li rendono altamente detestabili e simili agli animali.   

 

***

 

Mi guardi e ti aspetti che dica qualcosa d'importante. Forse nemmeno questo ti aspetti da me, forse ti aspetti solamente che io parli e dica anche una frase sciocca, una frase qualsiasi... Ma io non dico niente, non apro bocca, e forse tu ci rimani male. Me ne dispiace. Nella mia inutile vita ho sempre preferito il silenzio a qualsiasi parola. Anche nelle rare occasioni in cui era più opportuno che io dicessi qualcosa, la mia bocca è rimasta serrata, e non so cosa hanno pensato di me i presenti, ma alla fine non me ne importa nulla. Tacere per me è stato il comportamento abituale, l'unico modo di essere me stesso. Anche sforzandomi, non ho mai trovato le parole giuste per aprire bocca, e anche quando pensavo di averle trovate era ormai troppo tardi per dirle, perché qualcun altro aveva preso già la parola. Tacqui fin dall'adolescenza, in innumerevoli situazioni, e forse attirai verso di me una certa antipatia o comunque una sensazione di disagio in chi mi frequentava o si trovava in mia compagnia. Eppure, pur rendendomi conto che il silenzio non mi avrebbe portato alcun beneficio, continuai a tacere sempre e comunque. Ora anche tu, che mi conosci da tanti anni, attendi da me una parola che non verrà mai - dovresti saperlo - che non posso dirti. Infine ti prego: non guardarmi in quel modo, abbi pietà e non aspettarti nulla da me, se non il silenzio: soltanto questo ti posso donare.

 

***

 

Era quello che non si nota mai, quello che si nasconde sempre, quello che sta in disparte. Non bello, nemmeno interessante, tutt'altro che simpatico, taciturno e apatico, In una foto di gruppo, lui era sempre nell'ultima fila o al lato estremo, e a volte non si vedeva il suo volto, perché coperto quasi completamente da chi gli stava davanti. Quando c'era una discussione che coinvolgeva più persone, lui taceva sempre, limitandosi ad annuire, nel caso fosse d'accordo con uno dei partecipanti. Nei pranzi e nelle cene tra amici e colleghi di lavoro, lui c'era, ma sempre un po' appartato, e anche lì non parlava mai, limitandosi a mangiare e a sorridere anche nel caso in cui qualcuno avesse fatto una battuta che lo riguardava. Sul posto di lavoro, se qualche cliente gli chiedeva spiegazioni su una certa cosa, quasi sempre rispondeva di non sapere nulla, scaricando l'onere della spiegazione su chi gli era vicino o nei pressi. Anche quando si trovava da solo con un amico, un collega, una donna o una qualsiasi persona, non parlava mai, aspettando che fosse l'altro a farlo e limitandosi a rispondere brevemente; il dialogo per lui era come se non esistesse; a volte dava l'impressione di essere muto. Non telefonava mai a nessuno, non frequentava le case dei conoscenti e nemmeno quelle degli amici, non parlava coi vicini di casa, non aveva un minimo rapporto di parentela e viveva in completa solitudine. Non amava uscire e potevano anche passare tre o quattro giorni senza che mettesse il naso fuori dalla sua porta di casa; in questi casi nessuno se ne accorgeva e tanto meno lo cercava. Quando morì, ci vollero dieci settimane perché qualcuno potesse rendersene conto.

 

***

 

Può finire tutto così... Una giovane vita stroncata in un attimo, dopo un tremendo impatto contro un camion che viaggiava ad una velocità folle nelle strette strade cittadine. Non ti sei neppure resa conto di quello che ti è accaduto: tornavi, con la tua bicicletta, ti attendevano la tua casa, i tuoi affetti... Poi lo schianto e tu che eri ancor viva, malgrado tutto, e persino provavi a dire qualcosa, forse... ma forse era soltanto un ultimo singulto di vita. E i tuoi occhi sbarrati, il tuo corpo rilasciato, mi hanno trasmesso una sensazione talmente dolorosa che non la dimenticherò mai. Che ti sia lieve il trapasso, che sia tu, ora, in un mondo migliore di questo, che ci sia un senso a quello che ci accade (maledettamente ci accade). Addio per sempre, cara, addio...

 

***

 

Hanna vive in un paese straniero, non per sua scelta - lei sarebbe rimasta ben volentieri nel luogo natale - ma soltanto perché le era diventato impossibile vivere nella sua nazione d'appartenenza. Ha dovuto sborsare una somma di denaro non indifferente, per farsi trasportare nel posto in cui si trova, e il viaggio che ha dovuto affrontare è stato tutt'altro che facile (ha rischiato anche di perdere la vita). Quando è sbarcata, però, si è sentita rinascere, pensando ai mille ostacoli superati, e alle tante speranze che nutriva, relative ad una vita migliore, più libera e degna di essere vissuta, differente insomma da quella grama che fino a quel momento gli era toccata in sorte. Ma delle sue illusioni, dei sogni e delle speranze che aveva al momento del suo arrivo, non gli rimane più nulla: quello che riteneva un piccolo paradiso, si è rivelato tutt'altra cosa, tanto che ha anche pensato se ne è valsa la pena affrontare tanti pericoli, per fare la stentata vita di oggi.

Hanna non ha una relazione sentimentale. Ne ebbe una, importante, con un uomo che non c'è più. E oltre alla sua perdita, si aggiunse quella del figlio appena nato, per cui non potè far nulla. Queste durissime esperienze hanno lasciato un segno indelebile dentro di lei.

Malgrado tutto Hannah è una credente: il suo Dio non è quello della religione cristiana, ma è comunque un Dio buono, che perdona chi sbaglia e che premia chi fa del bene. Tutte le sere Hannah prega il suo Dio, e lo fa sinceramente, con intensità e fiducia. Il suo pensiero religioso va tutelato e rispettato.

Hanna non ha un'abitazione regolare, non ha un lavoro regolare né un regolare permesso di soggiorno; si può dire che l'unica cosa regolare per lei sia la sofferenza, che non l'ha mai abbandonata da almeno una trentina di anni. Vive in una stanza, insieme ad altre quattro donne; svolge un lavoro faticoso e malpagato, e la sua dura giornata non gli concede alcuna distrazione extralavorativa, poiché quando torna la sera nella sua dimora, la stanchezza la attanaglia, e non vede l'ora di stendersi sul letto e riposare.

Hanna possiede un'anima semplice buona: è incapace di fare del male a chiunque, ma nella sua ancora giovane vita ha subito una serie non numerabile di crudeltà e di cattiverie; anche oggi, subisce umiliazioni e soprusi quasi tutti i giorni. Prima, nel suo paese, poteva contare sulla sua famiglia, ovvero sui suoi tre fratelli e sui genitori, che quando e come potevano non esitavano a proteggerla e consolarla; ora Hanna è sola, se si esclude un'amica che, comunque, non conosce abbastanza, nemmeno per potersi sfogare o confidare. Non di rado sente dentro sé una tristezza cupa, e una voglia di piangere la assale soprattutto nei momenti in cui subisce degli insulti gratuiti, per il colore della sua pelle o soltanto perché è una straniera; ma anche quando capisce che non c'è più una persona, una soltanto che le voglia ancora bene. Spesso la sera, al buio, stesa sul suo letto, quando si accorge che intorno a lei tutti dormono, scoppia in un pianto dirotto difficilmente arrestabile; così e soltanto così prova a liberarsi dalle mille afflizioni che la tormentano. Poi, è nel sonno che si tuffa, quasi sperando di non doversi più svegliare il mattino successivo; quando il sonno fatica ad arrivare, e i pensieri si fanno sempre più assillanti, si convince che la morte per lei sarebbe la soluzione più appropriata, e medita il suicidio.

Io ora penso a lei, e a questa nostra società così intrisa d'egoismo e di odio, a quanti sarebbero felici di vederla morta e direbbero: "Bene, una straniera di meno!" Allora mi vergogno profondamente di essere italiano, e mi chiedo il motivo di tanta crudeltà gratuita; poi capisco che non serve a nulla, e vado avanti sempre più sconfortato, sempre più sorpreso di come l'umanità possa regredire improvvisamente, e tornare senza vie d'uscita all'età della pietra.

 

***

 

«Perché tanta cattiveria nel mondo?» È questa una domanda che ho ascoltato dal televisore, durante una fiction che non potrei definire intelligente; ma la domanda lo è, ed anch'io me la sono fatta più di una volta giungendo alla fine ad alcune conclusioni personali, senza aver letto le opinioni di illustri filosofi e pensatori del passato. Ritengo che la cattiveria, l'odio e la violenza siano insiti nell'uomo: fanno parte del suo DNA. Ma, come alcune malattie che pure sono potenzialmente presenti nel DNA di alcuni esseri umani, ma non è scontato che si manifestino durante tutta la vita, così questi stupidi sentimenti possono uscire allo scoperto o meno, a seconda dei luoghi, delle società e delle situazioni in cui si svolge la vita degli uomini. Le esperienze soggettive sono determinanti: chi vive in luoghi dove l'esistenza è particolarmente difficile per condizioni estreme di povertà, per esempio, ha più possibilità di odiare e di fare violenze di vario tipo. Poi le città e, ancor di più, le metropoli: la stragrande maggioranza di episodi di cattiveria, di odio e di violenza si riscontrano nelle città: qui si ammassa una quantità enorme di umanità; questo comporta una diminuzione drastica di spazio per ciascuno e, di conseguenza, circostanze fastidiose che possono creare facilmente stati di profondo stress. Da qui nascono ripetute sensazioni di nervosismo eccessivo, di notevole affaticamento e di perdita della pazienza. Ovvio affermare quindi che la possibilità di esternare il proprio malessere in sentimenti di odio e quindi passare ad azioni violente sia naturale conseguenza di una vita inadatta agli uomini più fragili mentalmente. La società creata dal capitalismo è anche responsabile, poiché pone gli individui in situazioni di forte competitività e tende a creare invidie sociali facendo desiderare dei beni di lusso a chi, per vari motivi, non potrebbe permetterseli. Chi non riesce a stare a galla, ovvero a comperare determinati oggetti che fanno status symbol, rimane escluso; da tale condizione può nascere, tra l'altro, anche un sentimento di rancore nei confronti di chi possiede quei determinati oggetti e li esibisce spudoratamente. Ma l'esclusione può nascere anche in altre situazioni, come l'impossibilità di trovare un lavoro (e qui il capitalismo più selvaggio e amorale è fortemente imputato) e quindi l'impossibilità di guadagnare il denaro sufficiente per la sopravvivenza; a questo proposito mi sembra giusto e opportuno affermare che uno stato incapace di garantire un minimo di giustizia e di benessere ai propri cittadini rende più facili episodi di odio e di violenza. C'è poi una politica dell'odio che tutti conosciamo, la quale trae vantaggi enormi dalla propaganda razzista e xenofoba. In questo preciso contesto, c'è un precedente che purtroppo l'umanità si porterà sul groppone per molto tempo: il nazismo. Scontato infine l'odio che nasce da situazioni belliche vissute direttamente.

 

***

 

Quanta rabbia, per non dire ira, invade sempre di più la mente degli umani! Ma a cosa serve, in vero, arrabbiarsi? A cosa serve odiare una o più persone? Assolutamente a nulla. E la rabbia si scatena sempre più spesso per futili motivi, senza una ragione comprensibile. C'è chi odia gli stranieri, chi i politici, chi i diversi, chi le donne, chi chiunque gli capiti sotto gli occhi... E si possono odiare squadre di calcio, categorie sociali o lavorative, personaggi pubblici... Insomma, quel che conta, nella sconvolgente e sconvolta società di oggi, è odiare qualcuno o qualcosa, e scatenare la rabbia repressa in ogni modo possibile e immaginabile. Giovane, ingenuo, forse parzialmente condizionato dai mass media, anch'io fui colpito da potenti furori; e m'arrabbiai, m'indignai, accumulai rancore, astio e odio dentro di me, col risultato di stare più male e basta. Perché quando la mente prende queste strade pericolosissime, si può divenire violenti, vendicativi, e passare ai fatti che, pure quando risultino efficaci, lasciano all'interno della coscienza un segno indelebile. Chi non è violento, né cattivo di natura, non può e non deve lasciarsi andare all'istinto peggiore dell'uomo, che è l'odio. Questo, per ragioni e situazioni particolari può benissimo affiorare, ma, grazie ad un opportuno ragionamento, può anche, nello stesso modo in cui è comparso, scomparire di nuovo. Mia madre, riportando una frase che gli dicevano i vecchi saggi della sua famiglia, affermava: "Se ti arrabbierai farai due fatiche: una ad arrabbiarti, ed una a farti passare l'arrabbiatura". Non si può negare: la nostra società, che ci vede costretti a vivere in spazi troppo stretti, a diretto contatto con moltissime altre persone, in situazioni spesso frenetiche, per non dire caotiche, non ci aiuta a mantenere la calma; può essere considerata normale, quindi, durante una giornata vissuta lavorando al centro di una città assai trafficata, enormemente popolata, essere vittima di qualche sgarbo, qualche infrazione o scorrettezza. L'importante, a mio parere, è partire già dal momento in cui ci svegliamo al mattino, preparati a tutti i possibili eventi negativi che ci attendono, i quali, seppure molto fastidiosi, sono superabili, e non possono farci star male più di tanto. Per quanto riguarda le piccole e le grandi ingiustizie che possiamo subire in una società troppo spesso infarcita di esseri infimi, così come i furti, le offese e perfino gl'insulti che possiamo ricevere da persone più o meno consce di ciò che fanno, anche questi andrebbero gestiti in modo molto razionale, badando a non perdere mai la testa, e stabilendo, nel minor tempo possibile, quale sia la nostra giusta reazione, ovvero quella più opportuna per non aggravare situazioni senz'altro spiacevoli. La cosa migliore, secondo me, è assumere un comportamento particolare, che è proprio di certe filosofie: rimanere sempre e comunque impassibili, cercando di non reagire affatto a qualsiasi provocazione, e meditando sul fatto che, quelle cose brutte che ci stanno accadendo non sono poi così importanti, e non è mai il caso, quindi, di considerarle più di quel che realmente valgono. In molti casi, già all'indomani avremo dimenticato quelle antipatiche situazioni, le avremo superate senza che ci abbiano lasciato il minimo segno. La nostra vita, purtroppo, è caratterizzata anche da questi momenti che preferiremmo evitare, ma tutto passa, e non è il caso di soffermasi più di tanto sui dettagli sgradevoli, quando il cammino che ci attende è ancora lungo e tortuoso. L'indignazione è una reazione normale, positiva, soprattutto se porta ad una svolta risolutiva; ma molto, troppo spesso è facile indignarsi ed è altrettanto facile non trovare una soluzione che possa migliorare il nostro stato d'animo. Quando la situazione lo richiede, perché grave, è conveniente e giusto rivolgersi alle forze dell'ordine, ma non è mai il caso di farsi giustizia da soli. Se non ci piacciono determinati dirigenti politici, amministratori o simili, abbiamo l'opportunità di non votarli più, ma insultarli nei social network, non solo non risolverà niente, ma rischierà di procurarci serie conseguenze. Insomma, ci sono tanti modi per attenuare o annullare la rabbia che invade le nostre menti, cerchiamo sempre di rimanere calmi e di pensare, in ogni caso ad una via non violenta per risolvere qualsiasi situazione. 

 

 

CAPITOLO IX: DI NUOVO IL PASSATO

 

Mi capita sempre più spesso di pensare alla mia vita passata, vita che ormai ha quasi la lunghezza di mezzo secolo. Posso certo dire che, se dovessi fare un bilancio della mia esistenza, sarebbe senza mezzi termini fallimentare. In verità, lungo gli anni lontani e vicini della mia vita, non ho mai avuto grandi ambizioni, ma anche i piccoli desideri e i sogni semplici che mi sono balenati in testa, non si sono mai avverati. La realtà dice che non ho fatto molto perché si avverassero, per pigrizia, indolenza e apatia. Giunto a questo punto, in una età che è adulta ma non ancora anziana, posso ben dire di aver tirato i remi in barca e di non nutrire più alcun desiderio. Vivo come posso, nel modo in cui mi riesce di farlo, e mi accorgo che sempre di più, avanzando gli anni, si afferma in me un quasi totale disinteresse per la gran parte delle cose umane.

 

***

 

Chissà come, mi sono tornati alla mente dei ricordi appartenenti ad un mio ormai lontano passato: forse erano i giorni della fine di ottobre di trent'anni fa, quelli in cui io, tutti i pomeriggi, camminavo e camminavo lungo i corridoi dell'Ospedale Grassi di Ostia Lido, in attesa di poter rientrare nella stanza dove era ricoverato mio padre, per fargli un po' di compagnia e per poterlo aiutare a cenare, visto che non poteva muoversi dal letto. Erano, se ben ricordo, pomeriggi grigi, a causa di un persistente maltempo; quei minuti, che diventavano anche ore, non trascorrevano mai... Io allora ero un ragazzo di vent'anni o poco più, ingenuo, introverso e svogliato. Concluso il servizio di leva da più di un anno, avevo già abbandonato ogni speranza di laurearmi, pur essendo ancora iscritto ad una facoltà universitaria, e speravo di trovare un lavoro da impiegato, magari con l'aiuto dei miei genitori. Per il resto non avevo ambizioni particolari e non sapevo bene cosa fare della mia vita, pur avendola, potenzialmente, ancora quasi tutta davanti. Insomma, non cercavo di crearmi un futuro per conto mio, ma vivacchiavo alle spalle dei miei; era facile che passassi intere giornate in casa, ad ascoltare le canzoni trasmesse dalla radio, o a guardare la televisione.

Da allora son passati tre decenni, e sono avvenuti dei fatti che hanno mutato soltanto in piccola parte gli esiti della mia vita. Oggi eccomi qui, quasi vecchio, mentre ripenso a quel periodo già così lontano nel tempo. Eppure, pur dovendo ammettere che nei successivi trenta anni della mia vita ho fatto ben poco, non mi viene per nulla la voglia di ritornare indietro, o, per lo meno, non a quello sciagurato momento. Se ripenso agli anni che immediatamente seguirono quell'ottobre del 1988, ed ai tanti problemi di salute che afflissero, praticamente senza un anno di tregua, sia mio padre che mia madre; e nel contempo mi sovviene, sempre riferendomi a quel tempo, della mia invincibile pigrizia, della mia inadeguatezza alla vita e delle difficoltà incontrate per avere un rare e misere soddisfazioni, rinuncerei volentieri a ripercorrere questo lungo lasso di tempo, in cui ho provato pochissimi istanti di vera felicità ed ho accumulato innumerevoli giorni di vuoto e di desolazione, fino a giungere, ahimé, sull'orlo della vecchiaia. Ho fatto tanti errori, non lo nego, e probabilmente potevo fare tante cose a cui ho rinunciato per problemi miei, ma non ho rimpianti o rimorsi per questo, e so bene che, se fantasticamente dovessi fare un balzo indietro nel tempo, e ritrovarmi a vivere nel pieno della gioventù, combinerei ben poco di più, rispetto a ciò che ho già combinato. Accetto quindi la mia vita per quello che è stata e per quel che sarà; vivrò quest'ultima, poco attrattiva fase della mia esistenza magari lamentandomi un po', ma senza troppi drammi, sperando che la meta finale, ovvero la morte, non sia particolarmente traumatica. Tutto sommato mi ritengo una persona fortunata: ho vissuto per mezzo secolo senza mai avere problemi di sostentamento o di salute; economicamente non sono mai stato in cattive condizioni; ho sempre avuto un tetto sopra la testa e, fino a poco tempo fa, dei familiari che mi amavano e mi proteggevano; infine ho anche un lavoro. Se penso alle migliaia di persone che non hanno o non hanno avuto nemmeno una di queste cose che ho elencato, come potrei lamentarmi? Se mi lamento è soltanto perché affliggersi è un bisogno intimo dell'umanità, in qualunque condizione essa si trovi. La verità è che ogni essere umano ha la sua storia e il suo modo di pensare: Il miliardario in piena salute può suicidarsi perché si sente particolarmente infelice, e il mendicante cagionevole di salute può benedire la vita fino all'ultimo suo giorno. Amen.

 

***

 

Era una sera invernale: io stavo già disteso sul letto della mia stanza, cercando di prendere sonno; i miei genitori invece, erano nella adiacente sala da pranzo, a guardare la TV. Improvvisamente, non so come né perché, ebbi la prima, chiara, dolorosa consapevolezza della morte. Ero entrato da qualche anno nella fase adolescenziale, e, prima di allora, per quel che ricordo, soltanto un'altra volta pensai alla morte in modo piuttosto serio: a dodici anni, in un giorno d'estate per me bello e felice, quando feci tra me un ragionamento semplice e ingenuo: «Posso morire anche ora o domani, ma comunque devo ritenermi soddisfatto della vita che ho trascorso, poiché sono stato felice». Quella volta invece, il pensiero della morte mi fece sprofondare in un abisso, perché compresi a pieno il suo significato e le conseguenze che avrebbe portato. Infatti, prima di giungere a me, meditai sulla scomparsa dei miei genitori, che allora non erano certo anziani, e che mai fino a quel momento mi ero figurato già deceduti. Provai, quindi, un senso di profondissima solitudine mai percepito in precedenza: il mondo, pensando a quegli eventi luttuosi che prima o poi sarebbero dovuti arrivare, mi sembrò un immenso deserto, ostile come non mai all'amore e alla felicità. Poi la vita continuò più o meno uguale, ma nella mia mente rimane indelebile il ricordo di quei pensieri giunti improvvisamente in una sera qualunque, senza un motivo preciso.

 

***

 

Ho sempre sentito dire che per gli uomini la bellezza non è importante; sarà anche vero, ma da quello che tanti uomini fanno ai giorni nostri per migliore il fisico, certo non si direbbe. Il fatto di non essere mai stato bello né muscoloso forse mi ha condizionato, ma è pure vero che non ho mai fatto nulla per migliorare. Alla fine, è stata la pigrizia che mi ha sempre sovrastato, rendendomi abulico, svogliato e refrattario a qualsivoglia iniziativa. Non so se sia mai stato depresso, forse no, perché i veri sintomi della depressione non mi sono mai appartenuti, o per lo meno non tutti.

 

***

 

Se ora mi sfogo anche leggendo e scrivendo, in passato le mie maggiori valvole di sfogo sono state il gioco, il sogno e il pianto. I miei giochi sono sempre stati solitari, non avendo la possibilità di farli in compagnia; i miei sogni li ho sognati ad occhi aperti, e a ripensarci sono sempre stati assai semplici, innocui e modesti. I miei pianti, per vergogna, li ho consumati in completa solitudine, e si sono rivelati utilissimi per superare momenti drammatici e tragici.

 

***

 

Ricordo che da ragazzo ero un'altra persona rispetto ad oggi: certamente ero più allegro ed in particolare amavo fare piccoli scherzi. Le vittime di questi miei scherzi erano quasi sempre i parenti. Per esempio ricordo che un giorno, mentre giocavo nel cortile antistante la casa dei miei nonni, ed avevo in mano una piccola palla di plastica che non mi serviva più, mi avvicinai alla finestra aperta e sentii la voce di mio nonno; lui stava seduto sulla poltrona vicina alla finestra e io lo sapevo; senza perdere un minuto scagliai la palla all'interno della finestra e scappai. Quando tornai in casa, mia nonna mi chiese il motivo per cui avessi tirato la palla in testa al nonno (e io non sapevo di averlo colpito), causando in me una irrefrenabile risata. Anche mia nonna subì alcuni miei scherzi; ricordo che una volta nascosi all'interno di un tegame che usava spesso un piccolo serpente di gomma (sapevo che lei aveva il terrore dei serpenti); quando andò a prendere il tegame cacciò un urlo e soltanto dopo un po' capì che si trattava di un giocattolo. Io, naturalmente, continuavo a ridere a crepapelle di nascosto. Ma colui che subì più scherzi da me, fu mio padre. Ad esempio, quando lasciava accostata una porta uscendo per poco tempo di casa, era facile che ritornato, allorquando apriva la porta si sentiva cadere addosso qualcosa; in genere erano oggetti leggeri e non pericolosi che io avevo piazzato sopra la porta, pronti ad andar giù non appena quest'ultima fosse stata aperta da qualcuno, ciò bastava per farlo andare su tutte le furie; più lui si arrabbiava, più io mi divertivo e pensavo di rifare il medesimo scherzo. Con mia madre provai a fare la stessa cosa, ma non più di tanto, perché sapevo che lei non si sarebbe limitata ad urlare, e mi avrebbe dato una lezione ben più dolorosa. Anche gli animali domestici che ho avuto sono stati vittime dei miei scherzi; una volta, per esempio, piazzai una sveglia accanto al mio gatto che dormiva profondamente; quando suonò, ricordo che fece un grande salto per la sorpresa e per la paura, facendomi scompisciare dalle risate; mentre mi guardava sconcertato, io continuavo a ridere come un deficiente. Una volta mi bastava poco per essere allegro.

 

***

 

Dice il vocabolario Palazzi alla voce "Timido": che per natura ha timore || di persona che è esitante e impacciata per soggezione. La timidezza è stata una mia inseparabile compagna fin dall'infanzia, quando ancora non me ne rendevo conto; questo sono venuto a saperlo leggendo il giudizio finale che mi venne attribuito a seguito della licenza elementare; ecco cosa scrisse, riguardo al mio carattere, la maestra - ovvero la suora - che ebbi per quattro anni all'istituto scolastico del mio quartiere: E' un elemento emotivo, eccitabile ed è riuscito gradatamente, a superare una buona dose di timidezza. Anche l'emotività faceva parte di me, e ciò è confermato da altri giudizi scolastici posteriori a questo, che la menzionano affermando la sua influenza negativa sulle mie prestazioni nello studio e nell'apprendimento; ma i progressi che nel giudizio vengono paventati, riguardanti la mia timidezza, se ci furono, risultarono certamente momentanei, visto chi da lì in avanti essa aumentò, fino ad impedirmi di avere relazioni col prossimo e perfino di uscire di casa. Ricordo che facevano parte della mia personalità alcune caratteristiche tipiche della timidezza che vado brevemente ad elencare: tenere sempre lo sguardo basso, non rivolgere la parola a nessuno, non salutare, non farsi notare mai, evitare d'intervenire in discussioni o liti e, cosa più dolorosa, arrossire in volto in determinate situazioni; nell'adolescenza mi accadeva spesso di arrossire all'improvviso, e non potevo assolutamente farci nulla, per questo il mio imbarazzo saliva alle stelle e quante volte mi sarei sprofondato o avrei voluto divenire invisibile! Un'altra peculiarità di questo tipo di personalità, che mi apparteneva e soltanto in parte tutt'ora m'appartiene, è l'impossibilità di pronunciar parola: un blocco della comunicazione dovuto ad uno stato di forte preoccupazione, che quindi si trasforma in mutismo. Per evitare di trovarmi in situazioni imbarazzanti - cosa che mi succedeva spesso - finii col rinunciare ad uscire, ad avere degli amici e perfino ad andare nei negozi a comprare qualunque cosa. I miei giorni erano vuoti di socializzazione e si limitavano agli obblighi consueti cui non è possibile fare a meno; li trascorrevo quasi sempre in casa, e se uscivo, lo facevo coi miei genitori o con qualche altro parente. Malgrado ciò non mi sono mai sentito depresso, ed ho trovato il modo di adattarmi, pur vivendo in isolamento pressoché totale. Non mi pare di avere mai avuto degli attacchi di panico, anche se a volte, in situazioni particolari, la mia paura e la mia preoccupazione salivano a dismisura, e non riuscivo più a controllarle. Non seppi e non volli superare la mia timidezza, e non andai mai a fare delle sedute psicoanalitiche o cose del genere, come mi veniva consigliato da qualcuno. Pure riuscii in qualche modo a vivere, con mille difficoltà - questo è vero - però andai sempre avanti. Fu un po' tutto faticoso il mio percorso esistenziale: faticai a prendere il diploma; faticai a fare il servizio di leva; faticai a guidare l'automobile; faticai a trovare un lavoro... ma alla fine tutto si risolse, e sebbene sia sicuro il fatto che non abbia mai vissuto una vita intensa, avventurosa e interessante, ho comunque vissuto. Non ho mai odiato né maledetto la mia timidezza, la quale, tutto sommato, non mi dispiaceva. Osservando i comportamenti di tante persone sfacciate, superbe, esibizioniste, arroganti e cialtrone (e quante ne sono nel nostro paese!), mi consideravo, se non superiore, certamente migliore di loro, con tutte le mie debolezze. Anzi, erano proprio le debolezze e le inadeguatezze a farmi sentire migliore, provando io disgusto per coloro che ostentano sicurezza, spavalderia e infallibilità. Probabilmente, da questo mio essere insicuro, e dal sentirmi un po' escluso dalla società, scaturì la mia simpatia verso tutti coloro che sono ritenuti dei deboli e degli sconfitti. Comunque, non è stata soltanto la timidezza a limitarmi durante la vita, ma anche altri tratti della mia personalità che riguardano la sfera dell'orgoglio, della pigrizia e dell'abulia; quest'ultime, forse, hanno influito meno, ma erano e sono presenti in me. Oggi, la timidezza che avevo parecchi anni addietro è senz'altro scemata, un po' per l'età, e un po' perché sono riuscito ad abbandonarla. Ma è pur vero che, di tanto in tanto, si riaffaccia; ed io allora la riconosco, parzialmente cambiata, ma autentica. Cara timidezza, resteremo insieme fino alla fine dei giorni!  


***


I ritorni dalla scuola: dopo le quattro del pomeriggio, pensando al pallone piccolo e leggero che mi attendeva nella casa dei nonni; uscivo velocemente e restavo nel cortile per ore a giocare partite fantastiche insieme agli amici di allora. Poi, verso sera, arrivava mio padre che diceva: "Vieni con me, è ora di tornare a casa!"

I ritorni dalla scuola: camminavo lungo un viale sporco di Ostia, guardando, a poca distanza da me, due ragazze (una bionda ed una mora) che parlavano e ridevano di chissà quali sciocchezze. E avevo la sensazione di essere innamorato.

I ritorni dall'università: viaggiavo in tram, e mi godevo per la prima volta lo splendido paesaggio romano, in mattini invernali e soleggiati; ma non concludevo nulla, e cominciavo a percepire, dentro di me, un senso di rinuncia alla vita, una voglia di lascarmi andare ed attendere che il fato decidesse al posto mio qualsiasi cosa.

I ritorni dalle vacanze: il viaggio, che all'andata mi sembrava bellissimo, era diventato triste; non vedevo l'ora di tornare a casa, dove mi attendeva la solita noiosa vita. L'estate stava per terminare di nuovo.

I ritorni dal corso d'informatica: attraversavo i giardini dell'EUR, e dentro me faticavo a trattenere il riso, che a volte scoppiava improvvisamente; mai avrei pensato che, di lì a poco tempo, il mondo mi sarebbe crollato addosso.

I ritorni dagli ospedali: quando pensavo che Dio volesse punirmi di chissà quali peccati; già allora iniziava a farsi largo in me, l'idea che in breve tempo avrei perduto le poche persone che ancora mi volevano bene, e che sarei rimasto solo per il resto della vita.

I ritorni dal lavoro: era il primo lavoro, e dopo giornate convulse e faticose, tornavo soddisfatto e fiducioso nel futuro; finalmente avevo svolto le mansioni che erano state dei miei genitori: sebbene per pochi mesi, ero diventato un umile impiegato di sportello in un piccolo ufficio pubblico di Fiumicino. Quei pochi mesi mi restano nel cuore, più di tutti gli anni del lavoro che ho svolto successivamente.

Tutte queste immagini e queste sensazioni sono ancora vive dentro di me: grazie ad esse posso ancora ritornare nel mio lontano passato, e in qualche modo rivivere quei tempi già così remoti. Questo avverrà finché, anch'io come tutti, ritornerò nel nulla da cui provengo. 


 


CAPITOLO X: IL PRESENTE

 

Un giovane di buona famiglia può chiudersi nel guscio per decenni, può entrare in un cul de sac, può isolarsi in modo totale dal resto del mondo, può abbandonare qualsiasi possibilità di riuscita, preferendo lo scacco, la sconfitta, l'indifferenza. In sostanza è una quasi totale rinuncia alla vita, una mancata partenza, il primo volo di un giovane lucherino che termina con una fatale caduta, un frutto che marcisce prima della maturazione, una casa nuova che è stata abitata soltanto per poche settimane, finendo poi, col passare degli anni, in completa rovina.

E intanto la vita passa, sta passando, è passata... Ma ecco che allora ci si accorge di non avere poi così tanti rimpianti. Potevano succedere tante cose e non sono successe (cose positive o negative), ma comunque sia, va bene anche così. Il treno si avvia velocemente verso l'ultima stazione, ma perché pensarci, l'importante è andare... andare... andare...

 

***

 

L'età che avanza senz'altro comporta un calo fisico, ma nello stesso tempo si ha la sensazione di poter e saper meglio affrontare determinate situazioni difficili, grazie all'aumento dell'esperienza; non mi succede quasi più di perdere la testa in momenti particolarmente complicati, e anche le reazioni, una volta spropositate, sono più attenuate o, più raramente, del tutto assenti. Anche la scontrosità giovanile è diminuita: se ripenso a quando, ventenne, ero capace di rompere ogni tipo di relazione col prossimo! Il passare degli anni non mi ha reso socievole, ché non lo sono mai stato né mai lo sarò, ma certamente meno scorbutico, più accondiscendente. Il fatto è che ormai non m'importa di nulla, e per tale motivo non mi viene mai in mente di polemizzare su qualsiasi argomento: ognuno pensi e faccia ciò che vuole, e vadano tutti al diavolo!

 

***

 

La mia goffaggine adolescenziale e giovanile era assai elevata, e forse oggi ancora son goffo, ma non come allora. Non sono mai stato un atleta, poiché la mia negazione per qualsiasi sport era ed è evidente a tutti (ricordo ancora perfettamente i miei tentativi inutili di riuscire in esercizi ginnici apparentemente semplici). Ora, l'unico ambito in cui posso dirmi migliorato, è quello del lavoro manuale, poiché a forza di fare le stesse cose per anni ed anni, si acquisisce un minimo di abilità.

 

***

 

La paura della malattia cogli anni che passano va aumentando. E ciò è anche giustificato, visto che il corpo umano, invecchiando, perde colpi e diviene più probabile imbattersi in acciacchi di vario genere. Se penso che alla mia età, la mia povera mamma ebbe un cancro e che mio padre, due anni più vecchio di me, dovette affrontare un intervento chirurgico che condizionò il resto della sua vita, è certo che dovrei preoccuparmi; ma è pure vero che la storia di ogni essere umano fa storia a sé, e non è assolutamente detto che le malattie dei genitori si ripetano anche nei figli. Lo scorso anno, fortunatamente, ho risolto grazie ad un banale intervento un problema di salute annoso, che stupidamente mi sono portato dietro un po' per pigrizia e un po' per timore; ma so che alla mia età altri problemi potrebbero sorgere da un anno all'altro, e che non posso assolutamente prevedere di quale natura e gravità potranno essere. Non dovrei pensarci, ma per quanti sforzi uno faccia, la testa poi va per conto suo, soprattutto se giungono notizie di coetanei ammalatisi e poi morti in poco tempo.

 

***

 

Già quando ero ancora giovanissimo, mi ritenevo fortunato ad essere nato e vissuto in tempi in cui dominavano la pace e la prosperità. Così non era stato per le generazioni a cui appartenevano i miei genitori ed i miei nonni: i primi erano bambini quando scoppiò la 2° Guerra Mondiale, mentre i secondi, oltre ad aver vissuto in età giovanile l'evento bellico, ebbero a che fare, sebbene ancora piccoli, con la penultima pandemia che attraversò la nazione italiana: la famigerata febbre "Spagnola". Ma quest'ultimo decennio mi sta dimostrando che neppure la mia generazione può ritenersi così fortunata: lo dimostrano i fatti accaduti di recente, riguardanti sia una incredibile e imprevedibile violenza generalizzata, scatenata in ogni parte del mondo dal terrorismo fondamentalista arabo, sia le allarmanti modifiche subite dal clima a causa di un inquinamento giunto a livelli non più tollerabili; dulcis in fundo, proprio all'inizio di questo annus horribilis, è giunta una nuova, terribile pandemia denominata "coronavirus", contro cui combattiamo e combatteremo anche il prossimo anno. Aggiungo a questi tre eventi già molto allarmanti, il sentore che mi appartiene (e forse non a me soltanto), di un'umanità sempre meno umana, sopraffatta dall'egoismo e dalla paura, che agisce in modo rabbioso alle nuove situazioni in cui si ritrova a vivere; da qui l'ascesa al potere, in nazioni europee e mondiali, di personaggi pericolosi, che incitano alla violenza e all'odio, che tendono ad escludere chi cerca rifugio per situazioni d'emergenza, e a chiudere i confini, e che spesso appartengono ai partiti di destra: una destra nazionalista, razzista e autoritaria, simile a quella che dominò in Europa quasi un secolo fa, e che favorì l'inizio della guerra più devastante per l'umanità. Ebbene sì, posso affermare che la mia fortuna sia stata tale in passato, ma non in questi tempi difficilissimi; molto difficile è anche riuscire a vedere un futuro migliore (io oggi mi accontenterei che non si verifichi un peggioramento della situazione attuale). Spesso, pensando a questi fatti, mi meraviglio, e mi accorgo del mio totale fallimento nel prevedere ciò che poi è veramente accaduto. La vita di tutti è un'incognita, una x a noi completamente sconosciuta, che nasconde qualcosa di positivo o di negativo: quando sappiamo cosa si cela dietro quel segno, è già troppo tardi per agire e pure per pensarci.   

 

***

 

Il blog è il luogo virtuale che preferisco tra quelli che vengono proposti in rete. A differenza dei più famosi social network, il blog possiede caratteristiche in grado di poter sviluppare maggiormente le proprie passioni e la propria fantasia; la sua struttura facilita la voglia di costruire qualcosa di personale, di nuovo, di bello, d'interessante e di utile. Il blog non pone delle basi tali che il tutto, alla fine si limiti ad un "mi piace" o a dei piccoli simboli, non ci sono frasi di altri riportate per milioni di volte: è qualcosa di più. Sono felice di essere un blogger, e spero di esserlo per più tempo possibile. Se ho pensato più di una volta di allontanarmi da certi social network, non mi è mai passato per la testa di chiudere il mio blog. Sono però consapevole del fatto che la prosecuzione dell'esistenza di un qualunque blog non dipende da chi lo ha aperto, ma da chi ha creato questo tipo di servizio nel web; di conseguenza non farò drammi se, mio malgrado, sarò costretto a interromperlo. E' stato grazie ad un blog che ho avuto le maggiori soddisfazioni in rete; in particolare, devo molto ad un blog che ho dedicato alla poesia italiana. Questa passione per la poesia, nata in me dai tempi della gioventù, dopo aver preso un po' di confidenza con il computer e con internet, l'ho voluta condividere con un pubblico che ne fosse attratto o interessato. Il mio primo blog risale a circa dieci anni fa; lì, in verità, non pubblicavo soltanto cose inerenti alla letteratura, ma le alternavo con post dedicati alla musica, alla pittura, al cinema e ad altri argomenti. Ad un certo punto, questo tipo di blog non mi si addiceva più, perché mi appariva come un guazzabuglio di materie in cui era facile perdersi. Quindi lo chiusi, e ne aprii inizialmente quattro (ora sono diventati otto): ognuno nato per trattare soltanto un preciso argomento. Tra questi, il blog a cui dedicavo più tempo e più post, era senz'altro quello relativo alla poesia; ed è divenuto, di conseguenza, il più interessante, se è vero che vanta un discreto numero di lettori. La sua peculiarità risiede nel porre l'attenzione su poeti di un determinato periodo, che ora sono quasi del tutto ignorati, ma che ebbero discreta fama ai loro tempi; non sono assenti, però, i poeti più famosi così come gli sconosciuti. Adesso, periodicamente non manco di pubblicare qualche nuovo post, e lo faccio con grande entusiasmo e con particolare attenzione affinché possa risultare ancora interessante e gradito. Nell'organizzare il mio blog, moltissimo mi hanno aiutato i tanti libri che ho comperato per passione personale, e che mi fa piacere far conoscere per quello che mi è consentito, anche ad altre persone, molte delle quali, magari, condividono con me questa passione. Certo, si tratta di un settore molto specifico e ristretto della nostra letteratura - in pratica la poesia italiana del secondo Ottocento e del Novecento - ma ho notato che, comunque, non sono pochi coloro che amano la poesia in generale e di questo periodo in particolare. Come ho già detto, il blog mi ha dato molte soddisfazioni, poiché è bello avere dei lettori, sentirsi fare dei complimenti e sapere che un sito ideato da me è diventato un punto di riferimento per alcune persone che studiano o leggono poesia. Ora l'importante, per quel che mi rimane da vivere, è che questa esperienza vada avanti. Io continuerò a mettercela tutta per renderlo migliore, ed ogniqualvolta aggiungerò un nuovo post, mi sembrerà di aver aggiunto un mattone ad una casa in costruzione che, quando sarà ultimata, dovrà risultare stupenda. Poi, come tutte le cose di questa terra - e il discorso è ancor più valido se si parla di internet - scompariremo sia io che i miei blog; ma, magari, ci sarà qualcun altro che vorrà e potrà portare avanti il discorso da me iniziato, e creare un nuovo blog più ricco, aggiornato e interessante del mio.

 

***

 

Per un po' di tempo mi sono allontanato da Facebook. Mi iscrissi a questo social network nel 2009, più per sollecitazione di amici e colleghi di lavoro che per convinzione personale. Poi, un po' alla volta, ho imparato a nuotare in questo stranissimo e nuovissimo mare, trovandolo, spesso, anche molto interessante. Malgrado questo, mi sono ben chiari l'estrema futilità, l'evidente vanagloria, lo spudorato esibizionismo e mille altri difetti che caratterizzano Facebook: uno strumento tecnologico sicuramente più adatto ai giovani che non agli uomini attempati come me. So che molti miei coetanei non sono iscritti, né si iscriveranno mai; molti altri, invece, lo usano in modo quasi ossessivo, anche e soprattutto tramite gli smartphone. In verità, più di una volta mi son sentito veramente stupido per aver pubblicato delle cose che non era il caso di pubblicare, sia per buon senso che per pudore. In effetti, il pericolo di Facebook è rappresentato anche dalla mancanza di gusto e di decenza: in molti si affollano a pubblicare qualunque cosa gli salti in testa, e, misteriosamente, in molti casi ottengono anche dei consensi. Chi mostra il proprio corpo snello e atletico, chi fotografa un piatto appena servito al ristorante, chi si fa un selfie nei posti più svariati per dire: «eccomi! sono qui e mi sto divertendo!». Tutto questo è umano e comprensibile, soprattutto per coloro che sono ancora giovani e non stanno tanto a pensare cosa è bene o non è bene fare; un discorso a parte invece sarebbe da farsi per i più maturi, che, probabilmente, hanno perso la cognizione del tempo, subendo una specie di rimbambimento dai nuovi strumenti tecnologici che nell'ultimo decennio hanno dilagato. Ma, messi da parte questi inutili discorsi, in un recente momento di sofferenza morale ho provato una specie di nausea per Facebook; non sopportavo più tutte le gratuite esibizioni che lo caratterizzano; non sopportavo neppure i numerosi condizionamenti, a volte inconsci, che portano, ad esempio, a fare gli auguri di compleanno a persone che non si conoscono o quasi; a mettere degli stupidi "mi piace" su qualunque post dei cosiddetti "amici"; a inserire, come foto del profilo, la propria faccia col sorriso idiota... Per non parlare delle cose personali, troppo spesso spiattellate senza reticenze, magari per ottenere un po' di attenzione in più. E non ho parlato dei pericoli presenti in gran quantità su questo social network, ma riguardanti soprattutto i minorenni. Da alcune settimane sono tornato a pubblicare cose su Facebook. Non so per quanto tempo lo farò, né se sia diventata, ormai, una mania, un vizio come tanti altri; ma adesso, superata la fase più acuta della mia crisi, ho riflettuto sul fatto che questo servizio di rete sociale ha anche parecchi lati positivi. Tanto per cominciare è un posto "libero", dove chiunque può pubblicare, con moderazione e decenza, tutto ciò che vuole; è una smisurata bacheca dove tutti possono affiggere i loro messaggi, i loro video, le loro foto, magari sperando di attirare l'attenzione di qualche anima che possa o voglia apprezzare queste manifestazioni del proprio gusto o della propria personalità; è, insomma, un ulteriore, nuovo passo avanti della democrazia. Può essere paragonato ad uno "Speaker's Corner" del Web: un luogo virtuale in cui ci sono infinite possibilità di espressione. Ed è grazie a questa grande libertà di espressione che ognuno può cercare ciò che lo attira, seguendo pagine, gruppi o personaggi che lo interessano. Si possono quindi approfondire argomenti che ci coinvolgono o notizie di attualità ecc. Ma può divenire anche una valvola di sfogo, per dire o mostrare qualcosa che ci preme, che abbiamo bisogno di esternare. Insomma, per ora esiste ancora un feeling tra me e Facebook.

 

***

 

Il fatto di tenermi costantemente sintonizzato con una emittente che fornisce soltanto notizie, le volte che accendo la TV, mi procura una leggera sensazione di angoscia: niente di preoccupante, ma di fastidioso sì. Come molti sapranno, il mestiere del giornalista è decisamente particolare: la cosa fondamentale, per chi sceglie di fare questa attività, è, prima di tutto, trovare le notizie più importanti e interessanti in anticipo sugli altri, e quindi cercare di attirare l'attenzione del lettore o dello spettatore, riportando tali notizie in modo tale che quest'ultimo si senta coinvolto al massimo livello. Ecco allora spiegato il motivo per cui, quasi sempre, le notizie televisive sono urlate e gonfiate, e sembra cerchino di spaventare il povero utente che guarda e ascolta questi fatti riportati come se si parlasse della imminente fine del mondo.

 

***

 

Col passare del tempo, ci si accorge che non esiste più niente, grande o piccolo evento, che possa procurarci quella sensazione di meraviglia e nello stesso tempo di piacevolezza, che abbiamo vissuto nei migliori periodi della nostra vita, corrispondenti più o meno alle prime tre fasi dell'esistenza umana: l'infanzia, l'adolescenza e la gioventù. A mano a mano che invecchiamo, ciò che ci circonda ci appare sempre più vuoto, noioso e ripetitivo; non proviamo più alcuna emozione, e ci chiediamo cosa sia cambiato in noi, e perché ora la vita ci appare così inutile. Eppure, raramente, qualcosa nella nostra mente fa riemergere dei momenti che abbiamo vissuto in un lontanissimo passato; essi ritornano all'improvviso, per chi sa quale motivo, a ricordarci in modo vivido quelle remote e intense emozioni provate per motivi apparentemente stupidi; sono i nostri sensi - fortunatamente ancora in perfette condizioni, che, grazie ad eventi e situazioni quasi del tutto insignificanti, ci aiutano a far riemergere sensazioni, emozioni e perfino visioni che si erano nascoste in chissà quale angolo del nostro cervello; questi ricordi così belli e reconditi, non aspettavano altro che un'occasione, un'opportunità mai arrivata in precedenza, per fare di nuovo capolino. Personalmente mi è accaduto di avere questa esperienza svariate volte, anche in tempi recentissimi; ecco, allora, un elenco di rumori, immagini, odori e altro ancora che ricordo perfettamente e che mi hanno procurato e, spero, mi procureranno ancora, un benessere mentale assai intenso.

 

Camminando tra la gente, essere inebriato da un profumo molto forte, già percepito tanti anni prima.

Entrare in un bar e sentire immediatamente il profumo dei dolci e del caffè.

Passando in una strada circondata da case verso l'ora del pranzo, sentire il buon odore di un condimento in fase di preparazione o appena preparato.

Sentire il rumore di una o più biciclette sulla ghiaia.

All'improvviso, ascoltare da chissà quale radio una bella canzone molto vecchia, sentita e risentita anti anni fa e ormai del tutto dimenticata.

Riassaporare, dopo tanto tempo, una caramella Rossana.

Sfogliare una vecchia rivista e ricordarsi, grazie alle immagini che contiene, di mode e personaggi di almeno quarant'anni fa.

Ritrovare, nel ripostiglio, una foto, un abito o un oggetto che si pensavano ormai perduti.

Rivedere in TV, uno spezzone di una trasmissione andata in onda tanti anni prima.

In primavera, cogliere un piccolo fiore in un prato e palparlo.

Prendere con la mano un insetto e, con l'indice, accarezzargli il dorso.

In un pomeriggio d'autunno inoltrato, trovarsi a camminare in un viale alberato, col terreno ricoperto dalle foglie cadute, e ripensare a quando, sulla stessa strada e nel medesimo periodo dell'anno, eravamo con una persona cara che non c'è più.

Ritrovarsi all'aperto in un bel mattino di giugno, e, senza una spiegazione logica, percepire di essere tornato bambino; e per un solo, velocissimo momento, assaporare la meravigliosa sensazione che si prova quando è appena finita la scuola, e davanti c'è soltanto un lungo periodo di spensierata vacanza.

 

***

 

Non ne posso più della società odierna: non mi piace e mi sento un extraterrestre rispetto al comune modo di pensare. Mi hanno etichettato come un taciturno, uno che parla poco o per nulla. Sarà pure vero, ma è una scelta che ho adottato per non polemizzare inutilmente con persone che non potrei convincere, né loro potrebbero mai convincere me delle loro opinioni. Troppo spesso dovrei intervenire per dire la mia, che è completamente differente, e cercare di spiegare il perché del mio obiettare; ma nemmeno mi sento la forza di prendere la parola, sapendo che poi sarei sommerso da un coro di voci più alte e prepotenti, che mi vorrebbero spiegare come stanno le cose veramente. Allora, è giusto che ognuno si tenga le sue convinzioni, e gli altri le esternino pure, mentre io le tengo per me. 

 

***

 

Si fa sempre più consistente una stanchezza che mi opprime, quasi mi soffoca, ed io non so più cosa fare per proteggermi. È una stanchezza dovuta a tante ragioni.

Stanchezza di fare le medesime azioni, di vivere le medesime giornate.

Stanchezza di ricominciare, al mattino, la solita e inutile vita.

Stanchezza di ascoltare le ripetitive notizie che parlano di crisi economiche, di ottuso razzismo, di odio politico e sociale, di violenze contro le persone più deboli.

Stanchezza di vedere, in TV, nei giornali e sul PC, i volti di certi politici nauseabondi, che predicano l'odio.

Stanchezza d'incontrare persone che mi sono totalmente estranee, a volte ostili, e che farei volentieri a meno di vedere

Stanchezza di ascoltare discorsi idioti, grossolani, senza una logica, senza una sintassi, vuoti di verità e pieni di rabbia.

Stanchezza di tutti questi razzisti, questi neofascisti, questi neonazisti e di tutti gli altri esseri abietti che continuano ad aumentare giorno dopo giorno.

Stanchezza di ascoltare le solite battute sciocche, volgari, ripetute fino all'esasperazione.

Stanchezza di dover ridere per forza, tanto per far vedere che si è allegri e gioviali, celando ciò che veramente si prova.

Stanchezza di preferire il silenzio alla parola, poiché è impossibile dire ciò che si pensa.

Stanchezza di pensare ad un futuro senza alcuna attrattiva.

Stanchezza di pensare a cosa mangiare, cosa indossare, cosa guardare in TV.

Stanchezza di pensare alla prossima tassa da pagare, alle scadenze imminenti, alla dichiarazione dei redditi, all'automobile e alla casa.

Stanchezza di pensare che sto invecchiando, che sto perdendo giorno dopo giorno le mie energie vitali e che il mio corpo lentamente si sta deteriorando.

Stanchezza di temere le malattie, che sono sempre dietro l'angolo e a volte sono mortali.

Stanchezza di sapere che un mio coetaneo sta male, o è deceduto, e di ricordarlo bambino e amico nei tempi dell'infanzia.

Stanchezza di pensare alla mia morte, a quando e come avverrà, e se dovrò soffrire molto prima di andarmene.

Stanchezza di vivere in questa società che ogni giorno peggiora, mostrandosi sempre più intollerante, cinica e malvagia.

Stanchezza di vivere questa vita inutile.

 E allora si fa largo in me la voglia di andare lontano: un'utopia che coltivo dentro di me, che non succederà mai, ma che mi consola.

Voglia di partire per un luogo imprecisato, certamente isolato, dove non giunga alcun'eco di ciò che avviene da queste parti.

Voglia di cercare un altro mondo, un altro pianeta, un posto più tranquillo, dove vivere il resto dei miei giorni in piena pace.

Voglia di paradiso, voglia di Eldorado, voglia di morire anche, piuttosto che continuare a vivere in questo squallido luogo, piuttosto che sopportare ancora questa stanchezza senza rimedio.

 

***

 

Mi sento sempre più stanco.

Stanco di che? Di tutto!

Sono stanco di alzarmi tutti i giorni e di andare a lavorare: rifare sempre le medesime cose, rivedere sempre le medesime facce (e Dio sa cosa farei per non vederle) e cercare di essere gioviale, di dire qualcosa quando ho voglia soltanto di tacere aspettando con ansia il momento in cui mi è possibile andare via da lì.

Sono stanco delle solite commissioni, della spesa al supermercato, delle tasse da pagare, del corpo che perde colpi, che è da curare e da controllare.

Sono stanco delle perdite che si accumulano (ogni anno qualcuna in più) e della vecchiaia che si avvicina (ogni anno un passo di più) e dei ricordi che si allontanano (la mente non li tiene più).

Sono stanco della televisione, coi suoi programmi tutti uguali, tutti stupidi, coi suoi notiziari allarmanti, col suo sport tutto a pagamento, con nessuna novità, con i vecchi personaggi sempre più patetici che cercano in ogni modo di mettersi in evidenza; coi nuovi personaggi che non conosco e che non voglio conoscere perché di loro non m'importa un fico secco.

Sono stanco della musica classica (sempre quella) già tutta ascolta e riascoltata, che ormai mi annoia a morte.

Sono stanco della musica pop (vecchia e nuova) che ripropone sempre le stesse note e non si rinnova e fa soltanto cadere le braccia.

Sono stanco dei film vecchi così come di quelli nuovi, che di originale non hanno più neppure i titoli.

Sono stanco della politica, che non propone mai qualcosa di moderno, anzi, va a pescare nel passato più remoto e più torbido e fa letteralmente schifo, e fa soltanto vomitare.

Sono stanco dei social network (perché mai mi ci sono iscritto?) che mi appaiono come un guazzabuglio di idiozie e dove io faccio la parte del pesce fuor d'acqua.

Sono stanco dei virus mortali, del freddo, del caldo, delle ricette insignificanti, dei comici che non fanno ridere, delle notizie false, del razzismo sempre più ottuso, dell'inquinamento che non si risolve, del degrado sempre più evidente della mia città, delle persone che non sanno più cosa fare per mettersi in bella vista, degli incidenti stradali, di quelli che non hanno mai visto una donna e strabuzzano gli occhi, di quelli che stanno attaccati alla vita come le sanguisughe ad un corpo, di quelli che non riescono a smettere di fumare, di quelli che fanno le foto in villeggiatura, di quelli che fanno le foto ai piatti da mangiare, di quelli che fanno i selfie e di tutti gli altri che fanno solamente schifo!!!

Sono stanco di tutto ciò, e anche di altre cose che non sto a dire, e non trovo più scappatoie, né alcun sollievo pensando a fughe fantastiche verso egli eldoradi dei sogni.

E allora mi rassegno, tengo duro e vado avanti (perché sempre avanti bisogna andare).


***


In questo grigio pomeriggio di novembre, mentre la pioggia, lentamente, ha cominciato a cadere, ho suonato il tuo campanello, e dopo pochi secondi tu mi hai aperto il cancello della tua casa: ti sono venuto a trovare, dopo qualche settimana che non ci vedevamo. Una tazza di tè, qualche biscottino e il caldo della stanza in cui c'è il tuo bel caminetto acceso, mi hanno allietato la giornata autunnale e piovosa. Certo, i nostri discorsi non sono stati allegri, né esaltanti; troppo spesso ci succede di parlare dei tempi passati, e di persone che non sono con noi, e non lo saranno mai più. Io e te, parlando di questi cari morti, di questi tempi lontani e felici, ci sentiamo  come dei sopravvissuti ad un naufragio; a volte, pur vivendo ancora ci sentiamo già trapassati, tanto siamo legati ai vecchi tempi, che erano anche i nostri tempi. Ogni anno che passa ci guardiamo in viso, e scorgiamo qualche ruga in più; sì, stiamo invecchiando velocemente, e con la vecchiaia sopraggiungente vengono meno le nostre ultime speranze di felicità; la vita diviene sempre più un tempo inutile e faticoso, che si prolunga in modo insopportabile. Forse, il nostro unico conforto è proprio ricordare quel passato che ci ha visti insieme, felici e speranzosi, sognare un'altra vita. Ma il futuro che agognavamo è passato da un pezzo, cara mia, e noi siamo rimasti indietro, troppo indietro... 

Ora è tardi (già calano le prime ombre serali), ti saluto e mi allontano da te, dalla tua casa, dalla tua cagnetta sempre più attempata e stanca: tornerò quando il novembre sarà quasi trascorso,  magari in una giornata grigia come questa; berremo ancora del tè, parleremo ancora dei nostri bei ricordi, e cercheremo così di allontanare la nostra cronica tristezza, proveremo, stando un po' insieme, a sopportare meglio questo tempo vuoto, insensato, lunghissimo...


***


Se è vero che la solitudine offre dei vantaggi non indifferenti (la libertà su tutti), è altrettanto vero che comporta delle sofferenze tutt'altro che irrisorie. È nella stagione invernale che queste sofferenze - fisiche e morali - si fanno maggiormente sentire. Quando fanno la loro comparsa i primi freddi, quando le giornate si accorciano incredibilmente e la luce si fa avara (a volte il grigiore domina per tutta la giornata), la mia mente non riesce più a trovare alcuna consolazione allo squallore della vita presente; neppure la poesia: carissima, sola amica ancora rimasta accanto a me, non riesce a distogliermi da pensieri totalmente negativi. In questi momenti di disperazione totale, i ricordi s'indirizzano verso lontani anni, in cui vivevo coi miei genitori ed i miei nonni, circondato da affetto e da attenzioni; la consapevolezza che i miei cari sono tutti scomparsi da tempo, mi crea un senso di desolazione difficilmente spiegabile, e inevitabilmente mi provoca un pianto dirotto, irrefrenabile e senza possibilità di alcuna consolazione. Il pensiero che l'inverno sia appena iniziato, mi fa sprofondare ancor più in un pozzo buio, freddo e serrato, da cui non si scorge alcuna luce. Provo così a contare i giorni che mancano all'arrivo della primavera - e sono tanti! - per sperare ancora un poco in qualcosa che possa risollevarmi da questo stato di abbattimento senza scampo. Attendo già, quindi, l'arrivo di marzo coi suoi primi tepori, coi suoi fiori appena nati, che annunciano il ritorno della bella stagione: la sola che può ancora scaldare il mio corpo e la mia mente quasi ibernati da un assai crudo dolore.

 

 


CAPITOLO XI: IL FUTURO

 

C'era una volta un pianeta eccezionale. Questo pianeta non aveva nome, perché nessuno poteva darglielo. La sua eccezionalità risiedeva nel fatto che fosse popolato da esseri viventi: vegetali e animali. Le creature che lo occupavano vivevano secondo leggi non scritte, che comunque, spietate e selvagge che fossero, non compromettevano la presenza della vita su questo luogo dell'universo che non aveva simili. 

Un giorno, sulla faccia del pianeta vivente, fece la comparsa un essere dall'intelligenza superiore, che si definì "Uomo". L'Uomo, a differenza degli altri esseri, poteva parlare, e così diede dei nomi a tutte le cose - animate o inanimate che fossero - del pianeta in cui improvvisamente si trovava a vivere. Ma, purtroppo, non si limitò a chiamare per nome ciò che vedeva intorno a sé; il suo istintivo egoismo lo portò ad utilizzare a suo vantaggio tutto ciò che trovava, animali e piante compresi. Però questo comportamento sciagurato, inizialmente non comportò danni di particolare importanza - se non si considerano importanti le scomparse di alcune specie animali - e il pianeta vivente continuò ad esistere senza particolari problemi. Ma l'Uomo, sempre più ingordo, incapace di accontentarsi e indifferente alla vita degli altri esseri viventi, cominciò, col tempo, a compromettere l'equilibrio naturale e vitale del pianeta; subirono dei danni irreversibili gli elementi essenziali per la vita, che, col tempo, mostrarono in modo evidente un'alterazione tutt'altro che trascurabile; così si presentarono, in modalità sempre più consistenti, eventi climatici, atmosferici, geologici e idrogeologici che mai si erano verificati prima. Ma l'Uomo, incapace di tornare indietro, sempre più vorace e sempre più arrogante, volle ignorare questi allarmanti segnali.

Ora, siamo giunti ad un punto di non ritorno. Probabilmente - se non sicuramente - ogni sforzo per riparare i troppi danni fatti all'ecosistema del pianeta, all'aria, all'acqua e alla terra, è diventato inutile. L'Uomo ha continuato a seguire la strada della dissolutezza e della distruzione, e se ne è altamente fregato delle sue nuove generazioni che, innocenti e inconsapevoli, pagheranno a carissimo prezzo la noncuranza dei loro predecessori. Il pianeta vivente ora è seriamente malato e sta morendo a causa dell'Uomo. L'intelligenza di questo essere "superiore", sulla quale non si può discutere - non ha prevalso nella sua storia. Hanno prevalso invece altri elementi che gli appartengono, e, purtroppo, sono tutti negativi. Non so quando accadrà, ma è certo che per colpa dell'Uomo, questo pianeta eccezionale perderà anzitempo ciò che lo rendeva tale: perderà la Vita.

 

***

 

Non è questo il mondo che, la parte più sana dell'umanità, avrebbe voluto vedere. Le tante speranze di cambiarlo in meglio, che per decenni hanno proliferato nei pensieri di tanta gente, oggi stanno venendo meno, di fronte ad una realtà politica e sociale tutt'altro che rosea. Una lunga, interminabile crisi economica; un fanatismo religioso che è divenuto, col tempo, sempre più rabbioso e violento; le numerose guerre che sono presenti nei continenti più poveri del pianeta; le grandi migrazioni che non finiscono mai, di persone ridotte all'estrema povertà, spaventate dalle atrocità che si perpetuano nei paesi dove sono nate; lo scontento, il rancore e la protesta dei popoli occidentali, dovuti ai fatti sopra elencati e ad una politica incapace di fronteggiare gli eventi nuovi che coinvolgono anche i continenti più ricchi; un inquinamento in crescita, malgrado alcuni paesi importanti abbiano scelto di percorrere una strada virtuosa per diminuirlo; la disoccupazione giovanile e non solo, che deprime e frustra larghe fasce della popolazione. Tutto ciò ha reso e rende la nostra società decisamente sgradevole, se non brutta; e pensare ad un futuro migliore diventa difficile, perché questi problemi si sono ormai cronicizzati, e le scelte degli elettori stanno diventando allarmanti, se è vero che si indirizzano verso estremismi che pongono ai primi posti della loro politica l'intolleranza, l'egoismo e l'odio.

In tanto sconfortante squallore, c'è qualcosa che migliora: la tecnologia e la scienza. Questo è il solo lato positivo del mondo di oggi, e allora diviene bello ignorare tutto il resto, pensando solamente ai progressi di queste discipline, che sono enormi. Ricordo che, da bambino, nei fumetti che leggevo, nella televisione che guardavo e in tanti film di fantascienza, imperversavano i robot; questi esseri meccanici creati dall'uomo, che erano capaci di fare qualunque cosa; in possesso di un'intelligenza artificiale simile a quella umana, in grado di volare, di compiere qualsiasi tipo di lavoro, di sostituire l'uomo in qualsiasi mansione. Ebbene, questi esseri che quarant'anni fa erano così lontani dalla realtà, oggi stanno nascendo. Già se ne vedono i primi prototipi: rozzi, limitati nelle azioni, imperfetti, ma con incoraggianti possibilità di progresso. Presto, probabilmente, osserveremo delle automobili che viaggeranno senza conducente umano; tramite un semplice comando vocale, potremo far partire o interrompere l'attività di un elettrodomestico; avremo, nelle nostre case, un'intelligenza artificiale che ci guiderà nelle nostre attività giornaliere o ci avvertirà in caso d'incombenti pericoli. Insomma, il futuro è già qui, e se è vero che i robot ci toglieranno il lavoro, è altrettanto vero che ci aiuteranno a migliorare la nostra qualità di vita. C'è, poi, internet: uno strumento tecnologico che ha avuto sviluppi incredibili. Grazie ad esso, ora, è possibile comunicare direttamente e immediatamente con qualsiasi parte del pianeta; è possibile fare acquisti di qualunque tipo in negozi reali o virtuali situati in luoghi lontanissimi; è possibile, tramite uno smartphone o un computer, prenotare un viaggio, pagare una bolletta, acquistare un biglietto tramviario, fare un'operazione bancaria e tantissime altre cose. Anche nel campo della medicina i progressi sono evidenti: alcune malattie che hanno ucciso, nel passato, milioni e milioni di persone, oggi non esistono più; molte sono le patologie che fino a poco tempo fa richiedevano un intervento chirurgico, mentre ora si risolvono assumendo dei medicinali; per questo, non credo di essere fuori dalla realtà se affermo che le generazioni future potranno assistere alla sconfitta definitiva di malattie inguaribili come il cancro.

Insomma, visto che la politica, la vita sociale e le notizie d'attualità ci causano solamente una forte depressione, e non possiamo fare nulla per migliorare una situazione più grande di noi, dedichiamoci soltanto a quelle discipline che ci danno soddisfazioni: pensiamo alla tecnologia e ignoriamo tutto il resto.

 

 

CAPITOLO XII: DIO

 

Non credo in Dio, ma, a volte, mi rifaccio la medesima domanda: a che scopo la vita, il mondo, tutto ciò che ci circonda, se non c'è un significato all'esistenza? Io amo la poesia: vado a cercare vecchi libri con vecchie parole in rima o in versi liberi e vi trovo una bellezza immensa... Io amo la musica e in certe melodie, che siano di cantanti pop o di musicisti celebri, trovo una inspiegabile sublimità... Amo la pittura, e nel guardare certe tele: che siano di Leonardo o di un quasi sconosciuto pittore, trovo un incalcolabile piacere... Per questo mi convinco, a volte, che la presenza divina possa esistere soltanto nell'arte. Ma come si può escludere dal contesto dell'eccelso la bellezza incomparabile di certi spettacoli naturali; come si possono dimenticare, parlando ancora di bellezza e di eccezionalità, i corpi delle giovani donne, la tenerezza dei cuccioli, l'eleganza dei felini, i voli delle rondini, i colori delle farfalle... Insomma, in natura, e non soltanto nell'arte, è possibile cercare e magari identificare qualcosa di divino. Ma queste visioni, a pensarci, rimangono nell'ambito delle sensazioni soggettive: non accomunano tutti gli esseri umani. E poi, l'impressione che Dio sia presente in una poesia, nel suono di un violino, nei colori di un quadro o anche in un corpo umano, è, probabilmente, soltanto un'illusione. È da presuntuosi supporre che, in certe manifestazioni dell'estro umano o della natura, vi siano indizi del trascendente; restano soltanto supposizioni, ipotesi che non trovano nessun appiglio nel razionale o nel reale. Io inoltre, pur avendo accettato il fatto che si muore e che dopo la morte non c'è nulla, soffro molto nel pensare che le persone care, che ho amato e che mi hanno amato, sono scomparse per sempre e non le potrò mai più rivedere. Per questo, spesso, cerco di farle sopravvivere con i ricordi. Difficile è anche accettare la vita così come si svolge: qualcosa che si va sbriciolando, perdendo... In ultimo c'è la vecchiaia: la fase più brutta dell'esistenza. Chi ci arriva, non può sperare più nulla, non ha futuro. Sarebbe bello, invece, nascere vecchi e morire bambini!

Queste elucubrazioni inutili sono uscite dal mio povero cervello il giorno 22 aprile del 2017.   

 

***

 

Non so se Dio esista o meno, so solo che non posso avere certezze sull'argomento. Mi ricordo che, raggiunta la maggiore età, mi feci velocemente l'idea precisa che Dio non esistesse, e potevo constatarlo da tanti indizi, a cominciare dalla sua totale assenza in determinate situazioni. Per esempio, venuto a conoscenza di un evento storico così tremendamente crudele e per certi versi incredibile come lo sterminio degli ebrei durante la 2° guerra mondiale, mi chiesi il motivo per cui Dio, ammesso che dovesse esistere, avrebbe permesso un simile abominio. Ma la conferma della sua assenza o, per lo meno, della sua latitanza, mi era offerta dalle infinite sofferenze, dalle innumerevoli ingiustizie e dalle mille violenze che tutti i giorni si perpetuano sulla Terra, senza che nessun essere superiore sia intervenuto o intervenga per farle cessare. Andando avanti con gli anni rielaborai le mie convinzioni, prima di tutto perché mi resi conto che l'essere umano non è in grado di averne molte, essendo la sua possibilità di conoscenza della realtà molto limitata. Basta osservare l'universo per capirlo, l'immensità, l'enigmaticità e il freddo mistero dell'universo... Ora posso dire che, non solo è incerto se Dio esista o meno, ma anche della sua immensa bontà non si può dire nulla. Anzi, se si osservano le sofferenze a cui sono sottoposti in molti casi gli abitanti della Terra, viene il sospetto che non lo sia affatto...

Se volessimo decidere poi che Dio ha un aspetto e una forma molto somigliante alla nostra, e che abbia mandato sul pianeta una sorta di inviati per farci capire che bisogna seguire il bene e disapprovare il male, ci verrebbero certo in mente alcuni nomi: Gesù di Nazareth e i santi per primi, ma poi anche coloro che hanno avuto in vita un comportamento esemplare al di là dei loro credi religiosi come Mahatma Gandhi, per fare solo un esempio. Ebbene con tristezza si deve constatare che questi personaggi rarissimi, per non dire unici, o sono stati ammazzati, o sono stati dimenticati. Il loro esempio, osservando i comportamenti degli esseri umani che oggi popolano la Terra, è seguito da pochissimi. Da ciò dovremmo dedurre che i tentativi dell'essere superiore, creatore del mondo, sono falliti. Ma può essere sconfitto colui che tutto può? Riflettere, meditare e analizzare la realtà delle cose porta a risultati sconfortanti, soprattutto per chi spera che alla fine, tra noi uomini, prevalga la giustizia, la bontà, la misericordia e la solidarietà; detto in una parola: il bene. Questo nostro pazzo pianeta sembra essere una nave senza capitano in balia del mare e delle sue tremende onde.

 

***

 

Se sapessi con certezza che Dio esiste e volessi fare a lui una preghiera, non gli chiederei nulla inerente al mio presente o al mio futuro, poiché ben so che oggi come domani la mia vita ha ben poco senso, e troppe volte mi chiedo che ci faccio ancora qui, tra gli esseri umani di un pianeta sempre più deteriorato, tra persone che non mi dicono nulla né io ho nulla da dire ad esse. Se percepissi con sicurezza l'esistenza di un essere soprannaturale che le folle identificano col nome di Dio, io lo supplicherei, poco prima della mia dipartita, di farmi tornare indietro nel tempo e di darmi l'opportunità di poter rivivere, con piena consapevolezza, quel periodo felicissimo della mia vita che corrispose ad una lontanissima estate. Rivivere quei tre mesi mi basterebbe, con la stessa età e lo stesso modo di pensare, ma con maggiore consapevolezza, affinché io riesca di nuovo a gustare l'ineguagliabile sapore della felicità infantile. Nello stesso tempo avrei la possibilità di ritrovare le anime e i volti di chi mi è rimasto nel cuore: nessuno di essi è ora con me, perché sono già morti o perché sono mutati completamente e mi è divenuto impossibile trovare in loro qualcosa di identificabile in quel preciso periodo. Soltanto questo io chiederei a Dio, e dopo aver vissuto brevemente in quel remoto paradiso, potrei certo morire felice e senza più desideri.

 

***

 

Parlando di fede religiosa perduta, penso che nella vita prima o poi, pur avendo ricevuto una educazione improntata alla religiosità (cattolica nel caso degli italiani), un po' tutti comincino a farsi delle domande e a dubitare del fatto che possa esistere una divinità. Ciò può avvenire sia dopo fatti personali molto dolorosi, sia a seguito di approfondimenti sulla storia dell'umanità. Nel mio caso la fede religiosa è crollata (ma già vacillava fortemente) quando ho scoperto la tremenda realtà dell'Olocausto: le immagini e i video di quell'eccidio, trasmessi sempre più spesso in TV, hanno fatto sì che nascesse in me la convinzione della inesistenza di Dio. Impossibile è infatti pensare che un Dio possa permettere simili crimini. A tal proposito è significativa la seguente frase di Primo Levi:

«C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.»

 

 

 

CAPITOLO XIII: IO

 

Non posso dire che, lattante, collezionassi già ciucciotti e biberon, ma dico il vero se affermo di essere un collezionista nato. La mia prima collezione risale, all'incirca, alla metà degli anni '70 del XX secolo, quando, bambino, mi appassionai dei film western e dei soldatini che riproducevano in maniera perfetta quegli eroi del Far west che vedevo in TV. Allora, ogni qual volta i miei mi chiedessero quale regalo preferissi, o nelle occasioni in cui qualcuno mi portava all'interno di un negozio di giocattoli, non esitavo a indicare i soldatini dei cowboy. Mi fu regalato, a Natale, anche un fortino, che completò quella divertente e lontanissima collezione. Qualche anno dopo, stanco dei soliti giocattoli, iniziai a collezionare automobiline; dapprima le riproduzioni in scala che comperavo erano un po' di tutti i tipi, poi andai a cercare specificatamente i modellini della Formula Uno (già guardavo i Gran Premi della categoria in televisione), ed ebbi la fortuna di trovarne in discreta quantità nel negozio di mio zio, a pochi passi da casa mia. Abbandonata anche questa passione, mi dedicai alla collezione dei giornalini della Marvel Comics: l'Uomo Ragno, i Fantastici 4, Capitan America, Thor e Devil. Conobbi parte di questi fumetti grazie ad una trasmissione televisiva intitolata Supergulp, che andava in onda su Rai 2 il giovedì sera, e che mai mi perdevo. Dopo aver accumulato centinaia di giornalini, mi venne a noia anche questa passione, e dirottai i miei interessi su altri oggetti. Nel 1979 ricevetti in regalo una radiolina che in breve tempo divenne mia sola compagna dei tempi morti; fu allora che conobbi il mondo della musica leggera e che cominciai ad acquistare i primi dischi. Alla fine dello stesso anno, soprattutto grazie all'aiuto dei miei genitori e di qualche mio parente che si recava a Roma piuttosto spesso, radunai un cospicuo numero di dischi a 45 giri; questa fugace passione si prolungò per circa un altr'anno, per poi estinguersi. Fu nel 1980 che iniziai a collezionare i famosi almanacchi illustrati del calcio della Panini; ogni anno, puntualmente, verso la metà di dicembre, mi recavo dal giornalaio e gli chiedevo se fosse uscita la nuova edizione dell'almanacco; in caso di risposta affermativa, ovviamente, lo comperavo e con grande emozione lo sfogliavo per leggere attentamente tutte le statistiche del campionato finito da poco e le notizie di quello che era già iniziato. Ricordo che richiesi alla casa editrice di Modena anche parecchie edizioni arretrate, che non avrei mai potuto trovare in altro modo. Leggevo quei volumi come se fossero libri, memorizzando in modo maniacale tutti i nomi dei calciatori delle formazioni calcistiche nazionali e internazionali, del presente e del passato. Ma anche questo interesse andò scemando col tempo, così fui nuovamente attratto dalla musica leggera, in particolare dai cantautori italiani, e incominciai a collezionare musicassette. In questo periodo, che si può far iniziare dal 1987, la mia meta preferita era una discoteca romana molto rifornita, nella quale potevo trovare tutto o quasi tutto ciò che preferivo musicalmente. Anche in questo caso la mia collezione si sostanziò in centinaia di oggetti, che, col tempo, divennero obsoleti (ci fu l'avvento del CD e poi del file MP3); quindi misi da parte quelle cassette (solamente dopo un po' di anni gettai tutto) e non mi dedicai più a quel tipo di collezione; ma ancora per un po' di tempo la musica fece parte dei miei interessi e delle mie collezioni; fui attratto infatti dalla musica classica, in modo particolare dal concerto barocco (Bach, Handel, Vivaldi, Corelli, Albinoni ecc.). E allora nacque un'altra collezione: quella dei Compact Disc. In questo caso però non ne acquistai moltissimi (una settantina circa in tutto), e nemmeno vi dedicai troppo tempo. Nei primi anni '90 del Novecento, nacque in me quella che potrei definire "la passione della vita", che è ancora ben presente e che, spero, si protrarrà per il resto dei miei anni: i libri di opere in versi. In questo caso la mia collezione iniziò un po' in sordina: acquistavo di tanto in tanto qualche libro, lo leggevo e quindi lo riponevo, non pensando di comperarne molti altri. Poi, gradatamente, i miei interessi riguardanti questo specifico settore andarono ad allargarsi, e perciò decisi di acquistare più libri. Ricordo che mi recavo al centro di Roma, forse due o tre volte al mese; lì mi era possibile visitare sia le librerie moderne che quelle antiquarie; ogni volta che ritornavo a casa, la mia collezione si impreziosiva di tre o quattro libri. Devo dire che, visti i prezzi di certi libri antichi, mai mi paventò l'idea di spendere una cifra folle per comperarli, malgrado mi attraesse il contenuto. E, a proposito di contenuto, preferii sempre quest'ultimo alle condizioni ottime dei volumi, sicché, nella mia collezione, o, con una parola grossa, nella mia biblioteca, vi sono anche tanti "libracci". Aggiungo infine che, allorquando, in netto ritardo, ebbi in casa un videoregistratore, non esitai a collezionare anche i film; la stragrande maggioranza delle videocassette che accumulai erano frutto di registrazioni personali: ricordo che andavo a cercare con particolare meticolosità tutti i film trasmessi dalle emittenti televisive più famose durante le ore notturne; in quegli orari le pellicole venivano mandate in onda senza interruzioni pubblicitarie, e questo fatto era, per le mie registrazioni, di fondamentale importanza; inoltre, sempre in quelle fasce orarie, la faceva da padrone il cinema d'essai, grazie ad alcuni programmi come Fuori orario, in onda su Rai 3, in cui si susseguivano anche tre film senza nessuna interruzione. Ma col tempo, un po' perché la mia passione cinematografica perdette colpi, un po' perché, come avvenne per le musicassette, mi ritrovai con un cumulo di oggetti decisamente obsoleti, anche questa collezione finì al macero. Come ho già detto, ora colleziono soltanto libri; ma devo dire che anche in questo settore qualcosa è cambiato: oltre ai volumi di carta, ormai da alcuni anni, sono nati i cosiddetti ebook; questi ultimi, presenti in vari formati sul web, gratis o a pagamento, hanno cominciato già a far parte della mia collezione. Ma, a differenza di altri, il libro rimane un oggetto insostituibile, imparagonabile, imprescindibile; per tale motivo preferisco e sempre preferirò arricchire la mia personale collezione di veri libri, fossero anche in cattive condizioni.

 

***

 

Se mi son fatto la nomina di taciturno e, forse, quella di asociale, deve esserci qualcosa di reale. Posso affermare che raramente, in tutta la mia vita, mi è successo di parlare a vanvera: ho sempre preferito tacere piuttosto che dire stupidaggini, e mi hanno sempre infastidito le persone che, pur di attirare l'attenzione su di loro, sproloquiano. È vero: troppo spesso non partecipo ai discorsi della gente; non riesco ad inserirmi nella mischia, tanto più se l'argomento è banale o trattato grossolanamente; mi escludo totalmente quando si fanno dei pettegolezzi. Ho avuto la sfortuna di conoscere poche persone civili, e tante incivili, che non ascoltano chi la pensa diversamente da loro e, coi loro argomenti stupidi, rozzi e deliranti, cercano di convincere gli altri usando un linguaggio aggressivo, facendosi forti anche con l'appoggio di altri, sempre pronti a dar ragione al più forte o che ha la presunzione di essere forte. Spesso mi sono ritrovato solo contro tutti, e mi sono accorto che in certi ambienti manca totalmente la civiltà, ed a prevalere sono leggi primitive, che si basano sulla prepotenza e sulla violenza; in tali contesti, mi sono reso conto ben presto di essere in minoranza, anzi, in taluni casi di essere completamente solo, sia per pensieri che per modi di agire. Ahimè, io non ho mai avuto la cosiddetta risposta pronta, in particolar modo quando qualcuno mi ha aggredito verbalmente; non sono di battuta facile, non ricordo infatti di aver mai suscitato un consenso per aver detto la frase giusta al momento giusto. Non mi piace alzare la voce e detesto chi lo fa, soprattutto se ciò avviene in modo ripetitivo. Ma c'è qualcosa di più: troppo spesso mi sento imbarazzato quando sono in compagnia, ciò fa sì che cerchi di appartarmi, di scomparire se mi è possibile. Capisco bene che questi comportamenti possano infastidire, o perlomeno possano causare una certa antipatia nei miei confronti, ma non posso evitarli, né mutarli: fanno parte della mia personalità. Ho ormai superato i cinquant'anni, e non posso né voglio modificare il mio modo di essere. Mi giudichino pure un taciturno, un introverso, perfino un antipatico, ma quelle che contano per me sono altre cose, più importanti di tali sciocchezze; infine questi giudizi sommari spesso provengono da persone che hanno un centinaio di difetti più di me, e si comportano come, parafrasando il vangelo, colui che guarda la pagliuzza nell'occhio altrui e non si accorge o non vuole accorgersi della trave che si trova nel suo.

 

***

 

Chissà come nasce la voglia di condividere, con altre persone, le nostre passioni personali; perché si desidera esternare dei pensieri, dei sentimenti e delle convinzioni. La cosa certa è che anch'io ho sentito e ancora sento questa voglia e questo desiderio, fin da quando ho cominciato ad avere più confidenza con internet e coi social network. Non mi piace, però, pubblicare qualsiasi cosa, e tendo a mettere dei paletti, oltre i quali mi diventa impossibile andare. Sono, in sostanza, i limiti della decenza, del pudore, del buon gusto, del buon senso e, soprattutto, della legge. Tra le cose che non mi piace fare e, a volte, provo fastidio vedendole fare con leggerezza e in modo abbondante, è condividere certe frasi fatte, copiate e, il più delle volte, stupide; oppure diffondere immagini che mostrano un vuoto e smodato esibizionismo; o, ancora, riportare opinioni che sfociano nell'invettiva e nell'insulto gratuito e tante altre cose simili, che, purtroppo, oggi sono spesso di prassi nel web. Ma, come ho già detto, ci sono delle cose che mi sembra giusto condividere, perché farlo può aiutare sé stessi e gli altri a migliorarsi, a trovare delle parole di stima, a coltivare nuove amicizie (anche se soltanto virtuali). E mi sono reso conto che gli artisti, se non avessero mai condiviso le loro creazioni con altri esseri umani, non solo non sarebbero stati mai apprezzati e valutati, ma non avrebbero più trovato alcun motivo valido per dedicarsi a qualsiasi tipo di produzione artistica. Il bisogno dell'uomo di creare va a braccetto con quello di condividere le sue creazioni.

 

***

 

Compiere cinquant'anni fa riflettere, fa pensare alla vita ormai per la sua gran parte già alle spalle. Può sembrare strano, perché, tutto sommato, avere quarantotto, quarantanove o cinquant'anni è su per giù la medesima cosa; ma è quel cinque come primo dei due numeri, quel mezzo secolo ormai trascorso che spaventa e fa vedere la vecchiaia a un tiro di schioppo. I segnali dell'invecchiamento, purtroppo, si sono già manifestati da qualche anno: il calo della vista, le rughe sul viso, la perdita dei capelli... Si ha poi la netta impressione che il meglio del nostro passaggio sulla terra sia già avvenuto; dai cinquanta in su, quasi certamente non si verificherà quello che poteva verificarsi precedentemente: è andata così, non migliorerà più la nostra vita. Questa sensazione per il morale di ciascuno è una batosta notevole, e se non comporta una depressione, poco ci manca.

 

***

 

Il momento peggiore della giornata, per me, ha spesso coinciso col risveglio mattutino: sia quando ero studente, sia quando cominciai a lavorare in modo continuativo; e ancora oggi è così. Il tremendo pensiero di dovermi alzare e, magari, affrontare un giorno invernale, freddo e piovoso fuori di casa, mi ha sempre tormentato. Per questo cominciai a consolarmi fin da ragazzo, quando, appena alzato di prima mattina per recarmi a scuola, già pensavo alla tarda serata dello stesso giorno, quando mi sarei di nuovo coricato e, ben caldo sotto le pesanti coperte, avrei potuto abbandonarmi al dolcissimo e lungo sonno notturno. Altro mio tormento, per tanti anni, è stato quello della povertà assoluta: non ritenendomi all'altezza di qualsiasi situazione, mi vedevo già poverissimo e incapace di vivere. La consolazione in questo caso era rappresentata dalla morte, che seppure sia temuta da tutti gli esseri umani, è in grado di risolvere ogni problema. Inoltre, quando mi terrorizzavano degli eventi che avrei dovuto affrontare, come un esame o comunque una prova selettiva, pensavo sempre al giorno successivo: quell'ostacolo così preoccupante per me, l'avessi superato oppure no, ventiquattrore dopo non sarebbe stato più nulla, e la vita sarebbe proseguita comunque. C'era poi un'altra scappatoia ai tanti terribili pensieri che mi assillavano, riguardanti la salute e la morte dei miei cari: fare finta che tali fatti non mi riguardassero e affrontare qualsiasi difficoltà relativa a questo argomento, come se fosse una cosa lontana da me. In questo caso però, per quanto ci provassi, non ci riuscivo, e venivo sopraffatto dalla disperazione. Ricordo in particolare quando, nel giro di nemmeno un anno, furono diagnosticate due mortali malattie sia a mia madre che a mio padre: quello è stato il solo momento in cui ho avuto l'impressione di essere stato abbandonato da una sorta di divinità, che forse mi aveva maledetto e voleva vedermi soffrire come non mai. Per il resto, ho sempre cercato di consolarmi in qualche modo, e ci sono riuscito. Riuscirò a consolarmi anche quando saprò con certezza che mi resta poco da vivere? Non lo so, ma di sicuro ci proverò...

 

***

 

Non amo qualsiasi tipo di festa, e ogni volta che mi trovo costretto (si fa per dire) a parteciparvi, non vedo l'ora che il supplizio abbia termine.

Da bambino amavo le feste: ricordo con indicibile nostalgia quelle di Natale, trascorse coi miei parenti, così come quelle dei miei primi compleanni, con torte squisite comperate per l'occasione, coi regali e con tante persone gioiose, eccitate e allegre. Il mio stato d'animo cominciò a mutare cogli anni: tutto divenne sempre più noioso e lo slancio vitale che mi apparteneva venne a mancare sempre di più. Già nell'adolescenza questi eventi festivi cominciarono a pesarmi, tanto che, pur essendo presente, amavo appartarmi: andarmene da solo in una stanza un po' lontana dal chiasso dei festanti, magari per guardare la TV o leggere, comunque per assentarmi da quell'inutile frastuono e quella fastidiosa allegria. Poi vennero le poche feste organizzate dai ragazzi; anche in quel contesto, però, a parte un senso di novità iniziale, che scomparve quasi subito, mi ritrovavo come un pesce fuor d'acqua: isolato, taciturno, timido, impacciato e desideroso soltanto di tornarmene a casa al più presto. Assolutamente incapace di ballare, non in grado di stabilire un minimo contatto con gli altri partecipanti, probabilmente ero additato come asociale da chi mi vedeva in un angolo, solitario e triste, mentre tutti gli altri si divertivano, ridevano, scherzavano e ballavano. C'era sempre qualche anima buona che tentava di inserirmi nel gruppo, di far sì che io partecipassi in qualche modo alla festa, e non rimanessi così distante da tutto e da tutti, ma ogni tentativo si rivelava inutile: ero troppo refrattario alla gioia, al divertimento, al gioco e a qualsiasi altro sentimento o attività che caratterizzavano e caratterizzano le feste tra giovani. Naturalmente, ben presto finii per non andarci più, e ogni volta che mi veniva chiesto di partecipare, il mio rifiuto costante probabilmente suscitò antipatia e rabbia verso la mia persona; quasi sicuramente fui considerato un misantropo.

Lo stesso discorso potrebbe valere per gli inviti a pranzo e a cena, che ho ricevuto e che ancora, raramente ricevo, sebbene in questi casi non ci sia nessun obbligo di essere divertenti e di divertirsi, ma soltanto quello di mangiare insieme agli altri; certo, anche in questi ritrovi ho sempre fatto la figura dell'asociale e del taciturno, e magari qualcuno si è chiesto se era il caso d'invitare anche uno come me, che è come se non ci fosse... Ma poi, alla fine, le persone più intelligenti e più tolleranti, hanno compreso e comprendono che ognuno è fatto a modo suo, e che non merita critica qualunque comportamento, purché non danneggi il prossimo. A me le feste non piacciono, e se posso evitare di partecipare ai festeggiamenti sto meglio, tutto qui.

 

***

 

Il calcio è lo sport che mi ha appassionato più di ogni altro, e continua ad appassionarmi, anche se in misura assai inferiore rispetto al passato. Iniziai a praticarlo quando avevo, forse, quattro o cinque anni, pur non sapendo minimamente le sue regole basilari. Insieme ad altri bambini, in un cortile di vecchie case popolari, davo dei calci ad un pallone rimediato da chissà chi, cercando di indirizzarlo in uno spazio limitato da due grossi sassi, che qualcuno aveva definito "porta", e che vedeva la presenza fissa di un altro bambino chiamato "portiere", che aveva il compito di non far passare il pallone. Poi conobbi meglio questo sport, e divenni tifoso del Milan, proprio come mio padre, che spasimava per la squadra meneghina, e che non si perdeva mai una partita trasmessa in TV o alla radio. Fu lui a inculcarmi il tifo calcistico. Papà nacque a Senigallia, nelle Marche, e sia nella fanciullezza che nell'adolescenza, quando è facile che nasca la passione per lo sport nazionale, non poteva seguire una squadra locale che militasse nella massima serie; così, come un po' tutti i suoi amici, dovette scegliere tra le tre squadre italiane più blasonate: Juventus, Inter e Milan, e propese per quest'ultima. Era anche uno sfegatato fan di Gianni Rivera (mia madre, ironizzando, diceva  che il calciatore alessandrino era il suo secondo figlio), e lo fu anche quando il "Golden Boy" invecchiò e smise di giocare. Io, pur ammirando Rivera, avevo un altro idolo, che risponde al nome di Luciano Chiarugi. Per chi non lo sapesse, Chiarugi era un'ala di grande estro, che il Milan acquistò dalla Fiorentina nel 1972, e che rimase nel club rossonero fino al 1976. Ed è proprio questo il mitico periodo del calcio nazionale che ricordo con maggior piacere, poiché in quegli anni amai questo sport come non mai, seguendo le partite alla radio (ricordo bene la celebre trasmissione Tutto il calcio minuto per minuto, che ascoltavo attentamente insieme a mio padre); guardando alla TV, programmi prettamente calcistici come 90° minuto e La Domenica Sportiva; comperando l'album dei calciatori e le stupende figurine Panini (rammento l'emozione di quando andavo in un emporio non lontano dalla casa dei miei nonni, e comperavo tre o quattro bustine che contenevano al massimo cinque figurine ciascuna); e soprattutto giocando coi miei compagni d'infanzia (inventavamo delle partite importanti e ognuno di noi impersonava uno o più calciatori famosi). Poi, improvvisamente, quando avevo poco più di dieci anni, il mio interesse per il calcio si estinse, e subentrò una specie di nausea per questo sport, tanto che non volli più praticarlo. Quando i miei amici, si radunavano per giocare una partita, io mi allontanavo o mi estraniavo, facendo altri giochi e cercando inutilmente di convincerli a fare la stessa cosa. Questo periodo durò circa tre anni, poi rinacque in me l'interesse per il calcio, e ricominciai a seguirlo tramite i mass media. Quanto a praticarlo, ormai era divenuta cosa rara; lo facevo soltanto in qualche ora di ginnastica ai tempi in cui frequentavo il liceo, pur ritrovando, in quei fugaci momenti, un entusiasmo quasi infantile. L'ultima mia partita che disputai fu di calcetto, e la giocai nell'ormai lontanissimo 1990. Ma, ritornando al secondo periodo in cui mi appassionai di calcio, dirò che dal 1980 iniziai a collezionare gli Almanacchi Illustrati del Calcio della Panini di Modena, ovvero della stessa azienda che pubblicava le famigerate figurine. Come la Bibbia per un cristiano particolarmente devoto, questi libri per me erano pieni di cose interessantissime: dalle carriere dei calciatori, alle rose delle squadre nazionali; dai tabellini delle partite alle statistiche dell'intero campionato appena conclusosi; dai resoconti degli incontri della Nazionale Italiana a quelli delle squadre di club impegnate nei più prestigiosi tornei delle coppe europee... Imparai a memoria le formazioni titolari delle squadre di calcio di serie A, in particolare di quelle che parteciparono ai campionati compresi tra il 1973 e il 1988. Comperai anche dei quaderni a quadretti, dove trascrissi queste formazioni, campionato dopo campionato, anno dopo anno, inserendovi anche i calciatori che giocavano di meno. Grazie al cielo, questa sorta di maniacale perdita di tempo ebbe fine, e a partire dall'ultimo decennio del XX secolo smisi di fare cose del genere. Non per questo il mio interesse per il calcio finì, visto che, ancora per un po' di anni, continuai a seguire le partite di calcio in televisione, specialmente se si trattava di incontri importanti. Poi, superati i trent'anni, la passione del calcio si affievolì in modo progressivo, fino a scomparire del tutto o quasi. L'unico modo che avevo e che ho tutt'ora - malgrado l'età - per trovare un minimo di divertimento calcistico, è quello di giocare col computer a FIFA; quest'ultimo, per chi non lo sapesse, è un videogioco famoso, probabilmente il migliore tra quelli che simulano il gioco del calcio. Niente a che vedere con l'obsoleto bigliardino, o col subuteo: FIFA è un gioco altamente appassionante anche per me, che ho superato i cinquant'anni e soltanto grazie ad esso riesco ad avere ancora un bel rapporto con questo sport, che per il resto non m'interessa praticamente più.

 

***

 

Un noto scrittore che ha compiuto ottant'anni pochi giorni fa, in un'intervista televisiva ha affermato di non avere più paura e di averle bruciate tutte, quelle che una volta gli appartenevano... Potessi dirlo anch'io! Purtroppo, devo dire che nella mia vita le paure sono state sempre presenti, anche se adesso sono notevolmente diminuite.

Pensando a quelle dell'età infantile, mi vengono in mente  la fobia dei ragni e il terrore del buio; la prima, forse, nacque dal fatto che nei luoghi all'aperto dove in genere mi trovavo a giocare, mi succedeva spesso di vedere questi animaletti, alcuni dei quali facevano una ragnatela molto fitta intorno ad un piccolo buco dove si nascondevano, e quando una preda si avvicinava, subito scattavano, grandi e terribili, per afferrarla velocemente e portarla all'interno della tana; in verità, mai nessun ragno mi ha fatto del male, e oggi non li temo più. Il buio, invece, mi faceva soffrire di notte, quando ero solo a dormire nella mia piccola stanza; a volte desideravo fortemente la presenza di uno dei miei genitori, e, se il sonno non arrivava in fretta, mi azzardavo ad entrare nella loro stanza, per essere però subito rimandato indietro dopo qualche rimprovero e poche parole rassicuranti. Ben presto questa puerile paura scomparve. Crescendo, le mie paure sono cambiate, ma non certo scomparse. Per esempio, ebbi paura dell'interrogazione scolastica, di guidare un'automobile e, addirittura, di recarmi semplicemente in un determinato negozio per fare acquisti. Quindi, ebbi il terrore di essere richiamato al servizio di leva (che feci con molta sofferenza); ebbi paura di non trovare mai un lavoro e, ben presto, di perdere tutte le persone care che mi circondavano (e in particolare i miei genitori). Tutte queste paure, sebbene lentamente, sono praticamente scomparse, ma sono state sostituite da altre, che in sostanza sono tre: quelle della vecchiaia, della malattia e della morte. La prima, è subentrata da pochi anni, e, malgrado non sia intensa né devastante, mi dà un po' di preoccupazioni, poiché so bene che l'ultima parte della vita di un essere umano è tutt'altro che bella, e comporta spesso sofferenze e severe limitazioni delle funzionalità del corpo e, conseguentemente, della libertà personale. La seconda, ovviamente, dipende dalla tipologia e dai dolori fisici che comporta; inutile dire che, se seria o incurabile, una malattia può portare inevitabilmente alla terza ed ultima paura. La morte, come si sa, terrorizza un po' tutti, e non si può sapere quando e come si presenterà. Ma è certo che verrà. Una volta morto (solo allora), non avrò più paura di nulla, ma non potrò neppure pensarlo e saperlo.

 

***

 

Nella vita di un uomo o di una donna, a parte la morte fisica, che prima o poi arriva per tutti, esistono dei momenti in cui succede di morire in altro modo: potremmo definire questo tipo di morte con l'aggettivo "spirituale". Io, se vado a ritroso coi miei sempre più sbiaditi ricordi, di questi terribili momenti ne individuo facilmente almeno cinque, ed è di loro che voglio parlare in questa esposizione-confessione.

Sono morto per la prima volta, come ho già spiegato in un post precedente, quando fui conscio che l'età della mia fanciullezza si era ormai conclusa. Fu dopo un'estate, trascorsa in totale felicità e spensieratezza, che ebbi la percezione di essermi lasciato alle spalle un periodo meraviglioso e irripetibile, e di essere entrato in una nuova e più problematica fase della vita. Cominciai già allora a rimpiangere il passato, e ad avere una nostalgia spropositata per i pochi anni da me già vissuti.

La seconda arrivò una sera come un'altra di tanti anni fa: avevo quindici o sedici anni, non di più; ero a letto, in attesa di prender sonno; a fianco alla mia stanza, nella sala da pranzo, c'erano mio padre e mia madre che ancora guardavano la TV, e quindi mi arrivava chiaro il rumore emesso dall'elettrodomestico. Non so se era quello il motivo per cui non riuscivo a dormire, fatto sta che cominciai a pensare, a pensare... E dopo un po' di tempo, per la prima volta nella mia vita, ebbi una percezione netta e spietata della perdita: mi resi conto che con l'andare degli anni, avrei perso tutte le persone care che ancora erano in vita: i miei nonni, i miei zii e anche i miei genitori, che fino a quel momento, forse inconsciamente, avevo ritenuto immortali. E pensai al giorno in cui sarei rimasto completamente solo, senza affetti... Mi sentii, per la prima volta da quando nacqui, sprofondare in un abisso senza fondo. Ebbi una sensazione nuova, tremenda, di desolazione e di tragedia. Poi, con l'arrivo del sonno, questi tetri pensieri svanirono, né si ripresentarono per molto tempo, almeno in maniera così devastante.

La mia terza morte avvenne qualche anno dopo: era un mattino di prima estate, e, casualmente, incontrai una ragazza che conoscevo bene, e che mi piaceva molto. Parlammo un po', quindi andammo entrambi a fare qualche commissione; poco prima di lasciarci, improvvisamente quella ragazza mi chiese se il giorno dopo avessi voluto andare con lei al mare; io, ascoltando le sue parole, rimasi totalmente spiazzato; forse perché sentii un imbarazzo insopportabile, forse per ritrosia o forse per paura, rifiutai l'invito con una scusa banale. Quando tornai a casa, completamente disperato mi buttai sul letto e cominciai a pensare al mio stupido rifiuto. Capii che avevo fatto una sciocchezza, e che non potevo tornare indietro per rimediare; con quel diniego, mi sembrò di aver decretato la mia morte sentimentale ed affettiva, e che quindi non avrei mai avuto una compagna, rimanendo sempre da solo fino alla morte (e la mia impressione si avverò). Ci vollero giorni perché mi riprendessi, e perché ricominciassi ad andare avanti senza pensarci più.

La quarta volta in cui morii fu in un periodo ben più duro di questi due che ho appena raccontato: era una mattina dei primi giorni del gennaio del 1991 - ancora lo ricordo perfettamente - quando mio padre subì un intervento delicato in un ospedale di Roma. Dopo tale intervento, io e mia madre, ansiosi e molto preoccupati, entrammo nella stanza del chirurgo che aveva appena operato il mio genitore; il medico, in pochi secondi e senza usare mezzi termini, ci disse che papà aveva un tumore maligno, che era inoperabile e che sarebbe morto nel giro di sei mesi. Nel sentire queste terribili parole, ebbi una sensazione così dolorosa, che non ricordo di averne avute altre simili nella mia vita: mi sentii quasi mancare, mi girò la testa, e caddi in uno sconforto senza rimedio, ancor di più guardando mia madre, forse più disperata di me, che piangeva a dirotto. E anch'io, ovviamente, piansi per giorni, trattenendomi soltanto quando mi trovavo nella stanza ospedaliera dove era ricoverato mio padre. Per superare questo momento tremendo, occorsero anni, ma fu possibile, visto che la diagnosi del medico si rivelò sbagliata, e che il mio papà, seppure non guarito del tutto, continuò a vivere per molti anni ancora.

L'ultima mia morte, non fu tanto diversa, né meno dolorosa di quella che ho appena esposto. Avvenne in un mattino dell'estate di tre anni fa, allorquando i medici di un altro ospedale, con meno crudezza ma con indubbia chiarezza, mi rivelarono la gravità delle condizioni di mia madre, che era lì ricoverata da qualche settimana. Fino a quel giorno, io, pur avendo ben capito che la mia mamma rischiava di non farcela a superare la malattia che l'affliggeva, avevo sperato in qualcosa di positivo, ed ero stato portato a farlo anche in seguito ad un colloquio che avevo avuto con un altro medico dell'ospedale, il quale non aveva escluso un suo possibile miglioramento. Ma poi, quella mattina mi fu rivelata una sentenza senza appelli. A differenza di altri momenti drammatici vissuti nel passato, riuscii con più facilità a trovare la forza per affrontare quest'ultimo, forse per l'esperienza maturata, forse per una sorta di aridità che nel frattempo si era insinuata dentro di me, e che non mi faceva più percepire a pieno né il dolore e né la gioia... Fu dopo la scomparsa di mia madre che soffrii in maniera spropositata, provando un senso di solitudine intenso come non mai. E morii per la quinta volta.

Non so se per me ci saranno in futuro altre morti spirituali: certamente mi resta la morte vera e propria, che potrebbe arrivare oggi - e visti i tempi non è così improbabile - come fra dieci, venti o trent'anni, e che forse non mi procurerà maggiori sofferenze di quelle che ho patito subendo altri tipi di morte.  

 

 

CAPITOLO XIV: DATE E STAGIONI

 

Da quando non ci sei più ho diviso il passato recente in due parti: con te e senza di te. Quando ripenso ad un evento recente che mi ha riguardato, subito cerco di ricordare se è avvenuto prima di due anni or sono o dopo. La tua dipartita ha troncato definitivamente un lunghissimo periodo della mia vita, che è stato il più importante ed anche il più bello. Già sono passati due anni da quando mi hai lasciato, e devo dire che la sensazione del passare del tempo è più che mai viva in me: ben presto, lo sento, mi ritroverò vecchio, e forse allora, unica consolazione sarà il morire presto, con una remota speranza di poterti rincontrare chissà in quale mondo. Ma anche se ciò probabilmente non accadrà, la morte sarà comunque un sonno eterno che m'impedirà di pensare e di soffrire troppo.

Quando, durante la notte del 24 agosto di due anni fa, mi svegliai e avvertii la presenza di un terremoto, rimasi quasi indifferente, poiché un sisma tremendo si era già abbattuto nella mia vita nel momento in cui i medici mi dissero che non c'era alcuna speranza di poterti salvare. In quei giorni durissimi, non volli nemmeno stare ad ascoltare le drammatiche notizie dei telegiornali, che parlavano di un numero altissimo di morti a causa di quello sciagurato cataclisma. Io vivevo il mio terremoto, e non poteva interessarmi di un altro. Una voragine enorme già si era aperta davanti alla mia strada, ed io vi precipitavo dentro, senza poter fare nulla: tu mi stavi per lasciare.

Quando, quella sera di fine agosto del 2016, uscii dall'ospedale, non era ancora calato il buio. Notai la presenza di giovani donne coi loro piccoli, si respirava un'aria spensierata e felice e solo dentro di me si era fatta notte fonda. Camminavo verso la mia auto ben sapendo che la tragedia era tutta mia, né avrei potuto parlarne con qualcuno, né trovare una minima consolazione. Tornato in casa, scoppiai a piangere e sfogai in quel modo l'immenso dolore che avvertivo in me. Tu eri ancora in vita, ma già non c'eri più. Mancava soltanto il momento dell'ultimo respiro, che si verificò due giorni dopo.

 

***

 

Mitica, irripetibile, indimenticabile estate del 1978! Quelli sono stati i tre mesi più felici della mia vita, ed ora sono passati ben quarant'anni da una stagione per me favolosa! A scandire quei caldi giorni, nella mia mente ancora fanciulla, erano le note di una canzone: Bella sarai; la cantava un complesso: La Bottega dell'Arte, composto da cinque musicisti romani. Io l'ascoltavo fugacemente, mentre camminavo per strada, alla radio di chissà chi, in TV e, forse, in qualche juke-box. E ascoltandola ancora oggi, mi tornano in mente i giorni meravigliosi di allora: i giochi con gli amici dell'infanzia; le passeggiate in bicicletta per le strade di Ostia Antica o in campagna; il cortile della casa dei miei nonni; i pranzi divorati in fretta per tornare il più presto possibile a giocare; i frutti appena maturati e colti sugli alberi dell'orto, che mio nonno mi consegnava, alla sera, affinché li portassi a casa; le sere a guardare la televisione pensando al giorno stupendo che mi attendeva all'indomani; i momenti prima di addormentarmi, quando pensavo ad un sonno veloce, dopo il quale, al primo mattino, avrei ritrovato il mio incomparabile mondo; la Festa dell'Unità di quell'anno, alla quale partecipai in modo assai coinvolgente; il breve viaggio, in compagnia di mio padre, verso Senigallia; i primi temporali d'agosto che mi spinsero verso una fine dell'estate più fresca e più entusiasmante; i primi giorni di settembre, con una vaga malinconia dovuta all'imminente ritorno sui banchi di scuola, ma, pure, con gli ultimi sprazzi di autentica felicità, mai, fino ad allora, percepita in modo così netto. E perfino mi sembrano lieti, oggi, eventi che non lo furono, come le visite sporadiche a mia nonna in ospedale, che sarebbe stata operata proprio in quell'estate, superando la malattia dopo una lunga e tribolata convalescenza; o la morte, improvvisa, del papa, avvenuta nei primi giorni del mese di agosto. La mia anima, già nostalgica e malinconica, un anno dopo rimpiangeva quel periodo felice; e lo rimpianse per tutti gli anni che seguirono, fino ad oggi... E quella canzone, che era dedicata ad una donna, per me divenne il simbolo di quell'estate, anche nel titolo che rifletteva un pensiero di bellezza rivolto al futuro; riferito però, nella mia interpretazione, esclusivamente a quell'estate. A proposito, ricordo che cominciai a cercare il disco che la conteneva in modo quasi maniacale, inizialmente mi accontentavo di ascoltarla sulle emittenti radiofoniche private (o libere, come si usava dire allora), poi chiesi ai miei parenti di andare a comprare il disco. Fu mia zia che riuscì a trovarlo in un negozio di Roma; ancora oggi conservo come una reliquia quel 45 giri, pur non avendo più un giradischi per ascoltarlo. Molte, troppe persone che erano con me in quella mitica estate, oggi non ci sono più; ma mi rimangono i vivi ricordi e quel disco, che mi aiutano a far rivivere un periodo irripetibile.

 

***

 

Come sono belle queste tue prime giornate, Settembre! Mi sono tornate alla mente tante altre giornate, trascorse da anni e anni ormai, fatte di albe entusiasmanti, di mattini laboriosi, di pomeriggi lenti e di sere stupende. Ricordo il tempo in cui, mentre tu avevi iniziato da poco a trascorrere, era facile che aiutassi mio nonno a fare dei lavori nel suo orto, ed erano lavori facili e piacevoli; ricordo la sottile tristezza che subentrava nel mio animo quando, nei tuoi primi dì, pensavo all'imminente riapertura delle scuole. Ricordo le giornate ventose e serene che mi donavi, trascorse sulla spiaggia di Senigallia, e i bagni divertenti con le onde altissime e l'acqua già fredda. Che bel mese è Settembre.

Ricordo pure che in un giorno di metà Settembre mia nonna se ne andò, sperando ancora in una giornata di pioggia che finalmente potesse rinfrescare l'aria. La sua attesa fu vana. A pensarci bene fu fortunata, perché Settembre è il mese migliore per morire.

Già alla fine di agosto si sono susseguiti dei temporali che hanno abbeverato la terra riarsa, le giornate sono più corte e le notti più fresche; l'estate sta per finire, ma sta anche offrendo il meglio di sé, grazie ad un clima ottimo. Cammino lungo una strada deserta, e sento tutto il tuo splendore, mese caro che mi sei sempre stato amico.

Sono tornato a casa ed ho portato con me i tuoi meravigliosi frutti, settembre: uva, fichi, pere e pesche. Presto assaporerò la loro dolcezza, e di nuovo mi torneranno in mente quei tanti giorni del passato in cui tu trascorrevi placido e spensierato, mese che mi hai dato tanto e che amo alla follia. Grazie Settembre, di esistere.

 

***

 

Anima, sta per tornare un altro autunno: prepariamoci a viverlo. Quanti autunni sono già trascorsi, Anima, e quanti altri ancora ne rimangono? Che importa! lasciamolo passare il nostro tempo, ormai non ci preoccupa più nulla del passato, del presente e del futuro... Anima, noi non dobbiamo pensarci. Presto l'aria si farà più fredda, e indosseremo gli abiti della nuova stagione; il cielo sarà più grigio, le giornate più corte, e il sole ci scalderà di meno... sempre di meno. Anima, in quel tempo noi ce ne andremo a passeggiare per le strade di campagna, soprattutto nei giorni soleggiati (com'è gradevole il solicello ottobrino!), e ripenseremo ai nostri vecchi autunni. Cammineremo e cammineremo, finché la stanchezza non ci fermerà; qualche piccolo dolore ci farà capire di avere ormai un'età che non tollera troppi sforzi, e allora, lentamente, con un po' di sconforto prenderemo la strada del ritorno. Tornati a casa, cara Anima, ci affacceremo alla finestra e vedremo tramontare il sole; qualche lacrima farà capolino dai nostri occhi, perché la malinconia, in quei particolari momenti, ci sovrasterà e ci renderà più tristi. Poi arriverà la sera, e mediteremo sulla giornata che si sta concludendo: una in meno da vivere, una in più da aggiungere alla nostra inutile vita. Anima, finalmente giungerà la notte, e potremo riposare pensando, poco prima di addormentarci, al giorno che ci attende: vuoto e inutile come quello appena trascorso. Anima mia, siamo quasi vecchi! è giunto già da un po' il nostro autunno, e l'inverno è a due passi... Ha importanza tutto ciò, mia cara Anima? Cerchiamo comunque il buono del tempo che ci rimane, e non disperiamoci, poiché, Anima, sarà comunque bello rivivere un nuovo autunno, ed osservare gli alberi dei viali spogliarsi a poco a poco. Tu conosci perfettamente la straordinarietà, la magnificenza di questa bellissima stagione: noi ci saremo per amarla, come l'abbiamo amata negli anni che sono già passati. Ottobre lascerà il posto a novembre, ed allora noi potremo ricordare i nostri morti (un numero sconfinato), ancor più nelle giornate piovose e rigide; sarà emozionante, credimi Anima, quando riaffioreranno nella mente tutti i ricordi degli autunni vissuti insieme a loro... Sapessi com'è bello! Poi, anche novembre passerà, e l'autunno avrà i giorni contati. Già nei primi giorni di dicembre, la gente s'immergerà nel nuovo Natale, o meglio il vecchio, grasso, chiassoso e ridondante Natale moderno. E allora, soltanto allora un altro inverno comincerà. Noi, Anima, ci domanderemo se all'arrivo del prossimo autunno saremo ancora qui, su questo stanco pianeta chiamato Terra, o già avremo raggiunto coloro - quanti! - che l'hanno già abbandonato per sempre. Ma ora, Anima mia, abbandona questi tetri pensieri!

 

***

Quando, a ottobre inoltrato, si comincia ad avvertire un freddo pungente, soprattutto in giornate ventose che seguono o precedono altre giornate piovose, ci si sente sprofondare in un abisso senza fondo; ciò che personalmente mi butta giù, è il pensiero dell'imminente invernata: il freddo che diventa sempre più insinuante, fastidioso, doloroso. Sì, posso affermare che oggi io temo la stagione invernale, poiché mi provoca sofferenze morali e corporali intense e apparentemente interminabili. Temo l'inverno che mi sembra lungo, sempre più lungo e sempre più gelido. A fatica riesco a riscaldare, in questa stagione per me nefasta, sia il mio corpo che la mia anima; così rimango ore ed ore raggomitolato, quasi rattrappito, in cerca di un po' di calore che fatico a trovare. Se fossi costretto a vivere in paesi del nord Europa, come la Svezia o la Finlandia, credo non metterei, per gran parte dell'anno, neppure un piede fuori dall'uscio di casa; e se lo dovessi fare per necessità, non ne uscirei vivo. Già oggi, che le temperature non sono poi così basse, il solo pensiero del freddo invernale mi fa tremare; m'immagino già a dicembre, gennaio, febbraio e forse anche a marzo, fare il conto alla rovescia pensando all'arrivo della prossima primavera; sperando nel ritorno di un sole caldo, che coi suoi raggi possa di nuovo scaldarmi. Ma ora, a due passi dalla fine dell'anno, mi sento di morire. 


***

Tutti sanno che esistono due tipi di freddo.

C'è il freddo esterno, che ho cominciato ad avvertire da diversi giorni, e che mi crea fastidi e dolori, poiché io mal sopporto la stagione invernale, soprattutto quando si manifesta con piogge lunghissime e freddo intenso, che penetra nelle ossa e causa sofferenza. Dicembre, gennaio e febbraio sono i mesi in cui questo freddo la fa da padrone, e non se ne va fino all'arrivo della primavera, che a volte giunge - ahimé - in ritardo, facendo sì che l'inverno si prolunghi ulteriormente.

C'è, pure, un freddo interno, che io ho cominciato ad avvertire fin dall'adolescenza, ogniqualvolta mi accorgevo di essere completamente solo, in disarmonia con tutti gli esseri umani che mi circondavano. Mi rendevo conto di avere pensieri, sentimenti, opinioni ed emozioni che nulla o quasi avevano a che vedere con il resto dell'umanità. Quando, negli anni che seguirono, cercai un minimo comun denominatore che potesse unirmi in qualche modo almeno ad un essere umano, per poco m'illusi di averlo trovato; poi, chiaramente capii che ciò era impossibile. Così, il mio isolamento crebbe, e alla stessa stregua si fece più intenso il freddo all' interno della mia anima, sempre più scoraggiata e convinta di essere predestinata ad una vita vuota di comprensione ed affetto. Ora, questo tipo di freddo è aumentato in modo considerevole, forse acuito dalla solitudine cronica che caratterizza e caratterizzerà la mia esistenza. Ora, tra me ed il resto dell'umanità c'è un abisso incolmabile; dove mi trovo, c'è un vento gelido che non smette mai di soffiare, e di lontano non scorgo alcuna forma vivente, soltanto deserto e sabbia che si alza, coprendo completamente l'orizzonte. 



 

CAPITOLO XV: LA POLITICA

 

Ricordo che, ventiquattrenne, frequentavo un corso d'informatica che si teneva in un'azienda avente sede nei pressi del quartiere EUR di Roma. Dopo qualche settimana, prima di giungere al luogo in cui si svolgeva tale corso, incominciai ad acquistare un quotidiano. La mia scelta si era indirizzata sul Tempo; il motivo non risiedeva assolutamente nel fatto che stimassi i giornalisti di quel quotidiano, né, tantomeno, nell'indirizzo politico dello stesso ché mi era completamente ignoto. Comperavo quel giornale perché mi piaceva il nome e perché mi attirava la prima pagina a colori, che all'epoca rappresentava una novità da non tutti adottata. Una mattina, un collega di corso mi chiese se ero "di destra"; io, naturalmente, risposi negativamente, lasciando l'interlocutore perplesso; infatti mi disse: «no... perché ho visto che compri Il Tempo». In quel momento seppi che questo giornale aveva un indirizzo politico di destra e quasi mi vergognai di averlo acquistato per settimane, nutrendo già allora una decisa avversione nei confronti del fascismo, e nessuna simpatia per le politiche di destra. La mia ignoranza al riguardo, era pure dovuta al fatto che usassi sfogliare velocemente le prime pagine dei quotidiani (specialmente quelle dedicate alla politica e all'economia), passando direttamente alle notizie di cronaca e di sport. La politica, a quei tempi, mi era quasi o del tutto estranea: votavo per la Democrazia Cristiana perché era il partito preferito dai miei genitori e anche, in parte, per convenienza: speravo infatti di trovare un buon posto di lavoro grazie ad una raccomandazione politica. Però, avendo un po’ di anni di studio alle spalle, e avendo già acquisito un bagaglio culturale sufficiente, conoscevo abbastanza approfonditamente la storia d'Italia, anche perché, già allora, avevo visto diversi film e svariati documentari che raccontavano le vicende dell'ultima guerra mondiale; per questo non potevo nutrire alcuna simpatia per il fascismo. Dal giorno dopo non acquistai più quel quotidiano, preferendogli, spesso, altri come Il Corriere della Sera e Il Messaggero, che erano ritenuti più neutrali; qualche volta comperai anche La Repubblica, L'Unità e Il Giornale (di quest'ultimo, il direttore era un certo Indro Montanelli che, al di là di come la pensasse politicamente, poteva definirsi uno dei migliori giornalisti in circolazione). Poi, alcuni anni dopo, condivisi alcuni ideali della sinistra, pur rimanendo sempre piuttosto distaccato dall'ambito politico; ancora oggi, mi ritengo una persona "di sinistra", our faticando, a volte, ad identificarmi con i partiti politici che dovrebbero rappresentare questi ideali. Per quanto riguarda Il Tempo, occorre dire che, dalla sua nascita avvenuta nel 1944, ha accolto al suo interno anime diversissime; può quindi essere definito un giornale democratico, pur avendo assunto, a partire dalla direzione di Gianni Letta, un indirizzo politico di centro-destra, che però non ha nulla a che vedere col fascismo. Quello che mi meraviglia, ripensandoci oggi, è la facilità con cui si era inquadrati in anni già lontanissimi dal fatidico 1968 - che rappresentò una svolta epocale a livello sociale, e che contribuì a far risaltare l'aspetto politico di ogni decisione presa dagli individui, con il conseguente giudizio sommario che troppo spesso si adottava, per etichettare una persona a seconda le suo presunto pensiero politico, semplicemente basandosi sulla lettura di un quotidiano -. Io ero stato identificato, a torto, come un giovane "di destra".  

 

***

 

Mi è tornata alla mente una famosa frase del senatore a vita Mario Monti che dice: «I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita». Del resto diciamo la verità,che monotonia un posto fisso per tutta la vita!». Ora, riflettendoci bene, posso dedurne un pensiero: si può essere meritevoli e capaci talmente tanto da ottenere posti di lavoro importanti e ben remunerati, ma nella maggioranza dei casi, nel nostro paese avere un lavoro è considerato già un lusso, e mantenerlo per tutta la vita può diventare l'unico modo per sopravvivere in modo decente. Cambiare lavoro durante la vita è bellissimo, soprattutto se il cambiamento significa anche miglioramento, ma la realtà dice che questo discorso vale per ben poche persone (ovviamente privilegiate), sia se si tiene conto dei meritevoli, sia dei non meritevoli. In Italia infatti perdere un posto non equivale quasi mai a trovarne un altro, ma bensì a dover affrontare un periodo di disoccupazione interminabile che può portare ad una situazione di totale miseria. In conclusione, avendo dedotto questa considerazione da un semplice ragionamento che tutti (o quasi) posson fare osservando la realtà italiana odierna, si deduce anche un altro pensiero: troppo spesso i politici italiani parlano a sproposito o volutamente o, e questo è gravissimo, perché non conoscono il loro paese. Ciò vale anche per certuni economisti o altre illustri personalità delle più diverse discipline.

 

***

 

Non ho mai capito né mai capirò cosa ci sia di così entusiasmante, secondo tanti italiani, in Mussolini e nel fascismo. Già il modo di presentarsi di questi tipi era semplicemente ridicolo: i fez, le camice nere, gli stivaloni e quell'aria odiosa che più odiosa non si può. Agivano sempre in gruppo, perché presi da soli erano tutti dei vigliacchi, ma insieme erano capaci di fare le peggiori violenze, anche di uccidere un uomo a colpi di manganello, soprattutto perché godevano della più totale impunità. E che dire del loro capo: Benito Mussolini? Un uomo veramente brutto, per non dire disgustoso, arrivato un giorno a Roma con i suoi scagnozzi per prendere il potere e riuscitovi grazie ad un piccolo re incapace e insignificante che ha regalato all'Italia la sua distruzione. Mussolini, come molti sanno, dava il peggio di sé quando si affacciava dal balcone di un edificio e parlava agli italiani presenti in massa sulla piazza sottostante che lo adoravano come un dio. Ho detto parlava, ma in realtà urlava i suoi discorsi e i suoi stupidi slogan fatti di arroganza, boria, presunzione e violenza; faceva credere al popolo italico di essere superiore, ma superiore in cosa? Si rifaceva al mito dell'impero romano, non valutando che quel periodo era morto e seppellito, né c'erano i minimi presupposti perché si ripetesse; e così abbindolava chi lo stava ad ascoltare con manie di grandezza e di espansione che erano fuori tempo e fuori di testa. Gli italiani, nel sentire la sua voce che strillava si eccitavano ed esultavano nello stesso modo in cui fanno oggi quando un calciatore della loro squadra mette la palla nella rete avversaria; lo fecero ancor più quando il pazzoide dichiarò che la nazione era entrata in guerra, ma non appena le cose si misero molto male, i leoni divennero pecorelle e come San Pietro non esitarono a rinnegare il loro messia, balbettando parole di pietà e di perdono nei loro confronti. La cosa che capisco ancor meno è che, dopo tutto e nonostante tutto, ancora oggi ci sia chi ama il fascismo e spera in una sua resurrezione; ma per me è stato un capitolo ignobile della nostra storia, vecchio ormai un secolo, che son sicuro mai si ripeterà nello stesso modo in cui è nato e si è diffuso.

 

***

 

Anche se è banale e scontato dirlo, non posso esentarmi dall'affermare che l'intrusione del pensiero politico nei notiziari di tutti i tipi e di tutte le provenienze è cosa estremamente fastidiosa. Sarà pur vero che un po' tutti i giornali e i telegiornali subiscono delle influenze e delle imposizioni dall'alto, che li fanno propendere per una determinata fazione e che, di conseguenza, mettono a serio rischio la loro attendibilità, soprattutto se si parla di notizie specifiche riguardanti la politica e l'economia; eppure a mio avviso non esiste altro modo d'informarsi, se non quello di ascoltare più campane - come si suole dire - ovvero, se si ha voglia e tempo, di acquistare più di un giornale (ovviamente di diverse tendenze) e di ascoltare più telegiornali. Non l'ho mai fatto io, in verità, che alcuni anni fa parteggiavo senza mezzi termini per una parte politica, e guardavo telegiornali e trasmissioni televisive "schierate". Ora, che praticamente non credo più a nulla e a nessuno, vorrei che esistesse almeno un giornale e almeno un telegiornale con la imprescindibile caratteristica della neutralità, e che si avvalga - cosa altrettanto importante - della collaborazione di giornalisti molto validi. Ma anche questa, almeno nel nostro paese, è soltanto un'utopia.

 

***

 

La politica non mi appassiona, anzi, a volte mi dà la nausea, ma esiste comunque un ideale politico ben radicato in me, che non ho mai abbandonato: il socialismo. Ritengo ancora che il socialismo sia la dottrina più umana e quella più adatta a governare i popoli del mondo. Normale che vada aggiornato e, se necessario, anche drasticamente modificato, ma mantenendo sempre quei valori basilari del convivere, che si chiamano solidarietà ed uguaglianza. Lo penso ancor più oggi, in tempi difficili che vedono riemergere i più turpi nazionalismi ed un razzismo incredibilmente palpabile e orrendamente ignobile. Sogno che, in un lontano futuro, grazie ad un socialismo mondiale si arriverà ad un solo popolo, un solo stato ed una sola nazione; non esisteranno quindi i confini e saranno di conseguenza impossibili le guerre; non ci sarà povertà né estrema ricchezza e non esisterà più un essere umano che morirà di fame. Io, ovviamente, sarò scomparso da secoli, e non vedrò mai questo mondo meraviglioso, che mi sono soltanto immaginato.

 

***

 

Per me ha ancora senso, oggi come oggi, essere di sinistra. Certamente non sono più i tempi in cui la sinistra, almeno nel nostro paese, la faceva da padrona tra le classi più povere; mi riferisco, ovviamente, ai tempi del comunismo, quando il partito degli operai e dei contadini poteva vantare un numero considerevole di votanti e d'iscritti. Praticamente, dopo il crollo del Muro di Berlino, e il conseguente declino del comunismo, anche la sinistra italiana dovette modificare alcuni elementi del suo pensiero e delle sue proposte; il vecchio PCI cambiò stemma e si tramutò in PDS, subendo una scissione dolorosa e la conseguente nascita di un nuovo e nello stesso tempo vecchio partito: Rifondazione Comunista (esistito per un po' di anni e quindi scomparso); poi cambiò nome in DS e, infine, fondendosi con un altro partito: la Margherita, divenne PD (l'attuale Partito Democratico). Per dirla tutta, già dall'Ottocento esistevano partiti di sinistra o di centro-sinistra che erano staccati da quello più rappresentativo, tra i quali il famosissimo Partito Socialista Italiano, che nella sua gloriosa storia vanta illustri nomi come il fondatore Filippo Turati e gli antifascisti Pietro Nenni, Sandro Pertini e Francesco De Martino. Io mi sento legato un po' a tutti i partiti del passato e del presente che hanno rappresentato la sinistra mantenendo sempre come punto cardine l'aspetto democratico della loro politica. Ci sono altri elementi, oltre alla imprescindibile democrazia, che mi attirano all'interno dell'area di sinistra; tanto per cominciare la costante presenza della solidarietà nei confronti di chi, per motivi vari, si ritrova svantaggiato o in netta difficoltà nella vita di tutti i giorni. Poi, sempre tra le tematiche che rendono importantissimo questo ideale politico, mi paiono essenziali i tre motti della Rivoluzione Francese: Liberté, Égalité, Fraternité, ovvero la totale libertà di pensiero e d'azione, purché non sia dannosa per il prossimo; l'uguaglianza tra i popoli, per fare in modo che ogni essere umano possa vivere una vita giusta e senza privazioni, così da godere un sufficiente benessere e poter aspirare alla felicità; infine la fratellanza, perché, come è scritto anche nella Bibbia, tra gli uomini non esistano differenze di razza o di provenienza, e il genere umano dovrebbe essere considerato unico, uguale e indivisibile. Ci sono ancora altri elementi che mi attirano, relativi alla politica della sinistra, ma mi limito a questi che ho appena elencato, poiché essi soltanto sono per me fondamentali e imprescindibili. Aggiungo, per finire, che esistono degli ideali simili a quello della sinistra, che però si rifanno ad un preciso credo religioso; io a dire il vero mi sento vicino anche a quest'ultimi ideali, ma non essendo un credente, non posso abbracciarli fino in fondo, venendomi a mancare la base da cui essi si dipanano. Non capisco ancora come si faccia a confondere la sinistra col comunismo, essendo quest'ultimo una dottrina ormai superata da tempo, che ha saputo produrre soltanto disastri sociali. Non ho alcun legame col pensiero politico cosiddetto "di destra"; aborro il fascismo e non comprendo il nazionalismo che, ahimè, ancora oggi va di moda, pur essendo un'ideologia stravecchia e foriera soltanto di guerre. Tutt'al più, riesco a mala pena ad apprezzare qualche ideale che appartiene all'ormai estinto Partito Liberale.

 

***

 

Qualche tempo fa non l'avrei mai detto, ma devo ammettere che oggi il continente migliore in cui vivere è l'Europa. Malgrado i mille problemi che la affliggono è ancora in grado di assicurare un'accettabile quantità e una dignitosa qualità di democrazia; in tempi duri e difficili, quali sono quelli odierni, non è cosa da poco. Ho seguito le ultime vicende politiche degli Stati Uniti e, sorpreso, ho visto salire al potere un personaggio disgustoso, imbarazzante. Ciò è avvenuto dopo otto anni di ottimo governo Obama (e questo fatto mi sorprende ancora di più). Il nuovo presidente probabilmente non riuscirà a buttare giù il portentoso apparato democratico che contraddistingue la nazione americana, ma può sicuramente far danni (e li sta già facendo) in svariati settori importanti come quello ambientale e quello dei rapporti economico-politici con gli altri stati mondiali. Non so bene il perché, visto che non vivo in quella nazione, ma è un dato di fatto che una popolazione sostanzialmente democratica, preparata culturalmente e civile, ha consegnato il potere, tramite elezioni, ad un personaggio quantomeno controverso, che non può essere paragonato ad alcun presidente degli USA del passato. Volendo poi parlare del resto del mondo, non c'è bisogno che io mi dilunghi più di tanto: Russia, Cina, India, Brasile e Argentina (per nominare gli stati più estesi e popolati) sono ancora lontani dai canoni democratici che qui in Europa si possono far risalire già ai primi anni del secondo dopoguerra (includendo però il solo Occidente). È vero, nel nostro continente sono nati molti partiti e movimenti "pericolosi", perché inneggiavano e inneggiano al nazionalismo, perché esternavano ed esternano idee xenofobe e razziste, perché hanno incoraggiato e tutt'ora incoraggiano i peggiori istinti umani che vengon fuori nei momenti particolarmente difficili, come quelli di crisi economica, e che propendono ad un ottuso egoismo e ad una totale mancanza di umanità, di solidarietà e persino di pietà nei confronti di chi si trova in situazioni disperate. Ebbene, malgrado la nascita e la proliferazione di questi partiti, devo dire che nessuno, attenzione, NESSUNO di essi è riuscito fino ad ora a vincere le elezioni. Le rare volte in cui qualcuno di essi ha governato una nazione europea, lo ha fatto come membro di una coalizione di cui non rappresentava la maggioranza. La Grecia, con i tantissimi problemi che ha dovuto affrontare in questi ultimi anni, non ha mai consegnato il potere a gruppi neonazisti o comunque estremisti (che pure esistevano ed avevano un certo numero di elettori). Recentemente, sia in Austria che in Francia, le elezioni politiche hanno visto prevalere partiti di centro, lontanissimi da quella destra estrema che molti temevano potesse vincerle. Altre nazioni storiche dell'unione europea (noi compresi) sono, ormai da molti anni, governate da leader democratici, e non sembrano possibili, almeno a breve, pericoli di dittature. Tutto ciò, in parte, mi consola, e mi fa dire che oggi, l'Europa, è il miglior posto dove vivere.

 

***

 

Ho sempre dato estrema importanza alla libertà, ma ora, visto che da qualche anno, per la prima volta nella mia vita la sto respirando a pieni polmoni, capisco ancora di più quanto sia preziosa e imprescindibile.

Giorgio Gaber, in una sua famosa canzone, affermava che "libertà è partecipazione"; visto che un po' tutti facciamo parte di una comunità, e quindi ci viviamo dentro, il concetto del cantautore milanese è giustissimo, però per me la libertà è soprattutto decidere per mio conto e senza alcuna interferenza esterna le cose che più mi interessano e mi riguardano.

Soltanto quando mi sono trovato completamente solo, seppure in uno stato di sofferenza per la perdita dell'ultima persona cara che ancora viveva insieme a me, ho ben compreso cosa significhi essere completamente liberi, avere la necessità ma anche il piacere di gestire la propria vita autonomamente e non dover dipendere da nessuno.

Elementi fondamentali per rimanere liberi sempre e comunque sono la salute e l'indipendenza economica. La prima, come tutti ben sanno, è basilare, poiché senza di essa nascono problemi di ogni sorta, e per forza di cose la libertà individuale diminuisce. La seconda è importantissima perché permette ad un individuo di vivere in modo dignitoso, e di fare delle scelte personali avendo a disposizione abbastanza denaro per poterle portare a termine.

Ho avuto la fortuna di non vivere mai sotto un regime autoritario, e penso di riuscire perfettamente a intuire che a qualsiasi dittatura è sempre da preferire una qualsiasi democrazia, scadente o imperfetta che sia. Probabilmente, soltanto chi ha vissuto sotto un regime dittatoriale sa apprezzare in modo completo la libertà, poiché è soltanto perdendola che si capisce il suo inestimabile valore. Per tale motivo sono infastidito dagli idioti che continuano ad invocare una dittatura, ovvero la negazione totale della libertà.

Quella che definisco "l'ultima libertà", concerne la facoltà di poter decidere la propria morte, soprattutto se il resto della vita si sia ridotto soltanto a sofferenza atroce e non-speranza. Una degna legge che riguardi l'eutanasia, nel nostro paese ancora deve essere scritta, e chi vuole porre fine alla sua vita per motivi plausibili, oggi è ancora costretto a recarsi in un paese straniero. Non so se, quando decidessi anch'io di interrompere la mia esistenza, permarrà ancora questa situazione spiacevole, o se anche l'Italia riuscirà nei prossimi anni a fare un passo decisivo verso la civiltà, includendo nel suo statuto anche una buona legge sull'eutanasia; triste ammetterlo, ma per adesso nel nostro paese, l'unica libertà che rimane a chi vuole morire, è quella di suicidarsi.

 

 

CAPITOLO XVI: LA FELICITA'

 

Sono in sintonia con chi ritiene la felicità una sensazione rarissima, che si manifesta e si percepisce assai di rado durante la vita di un uomo. Affermo questo per esperienza personale, ovviamente. Ricordo ancora il mio ultimo periodo felice, che risale a qualche anno fa, nato da una circostanza che, in teoria,  avrebbe dovuto causarmi sensazioni tutt'altro che piacevoli. In quel preciso lasso di tempo, che è durato non più di qualche mese, non avevo affatto la coscienza della felicità: mi sentivo soddisfatto, rilassato, sereno, perfino nei momenti di grande stanchezza. Conclusosi questo periodo che aveva rappresentato dei notevoli cambiamenti nella mia vita di tutti i giorni, ho cominciato, anche se solo parzialmente, a capire che avevo vissuto un momento molto particolare: "felice". E più passava il tempo, più questa sensazione si rafforzava, fino ad avere la consapevolezza di essere stato felice proprio in quella determinata fase della mia esistenza. Da altri ricordi più lontani nel tempo, posso dire di aver vissuto dei periodi ben più brevi di felicità: giorni, ore... Più netta è invece la percezione della felicità che ho vissuto nell'età infantile, anche se la consapevolezza, in questo determinato caso, l'ho avuta intorno ai dodici anni, ovvero proprio al limite tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza. Rarissimamente, i momenti "felici" sono nati da possibili amori, cioè dalla frequentazione assidua o meno di alcune ragazze. In questo contesto la felicità nasceva dalla speranza e dall'immaginazione, ovvero dalle possibilità che il cervello creava riguardo a una vita futura che, ahimé, non si è mai concretizzata.    

 

***

 

Ma cosa sarà mai la felicità? In cosa consiste? Personalmente ritengo che sia una parola inventata dagli esseri umani che non possiede reale consistenza, ma si basa su un vago stato di benessere mentale. Ma sfogliamo un dizionario qualsiasi e leggiamo cosa dice a proposito del significato della parola "felicità":

FELICITÀ: Condizione di letizia, di gioia, di soddisfazione.

Come si può dedurre da questa definizione la parola indica una situazione intellettuale particolarmente favorevole che porta l'individuo felice ad uno stato di esaltazione più o meno consapevole. Riflettendo su tale argomento, a me pare di aver vissuto pochissimi momenti cosiddetti "felici"; tali momenti poi, se li vado a cercare a ritroso nel tempo, li ritrovo quasi tutti nel periodo dell'infanzia, quando cioè l'essere umano vive nella più totale inconsapevolezza, intento soltanto al gioco e alla scoperta del mondo presente intorno a lui, il quale è visto con gli occhi e la mente di un bambino e quindi non come è realmente, ma come lo si immagina in quella particolarissima parte dell'esistenza umana. Esiste poi un altro concetto di questa abusata parola, sostenuto da filosofi e poeti importanti (Schopenhauer e Leopardi su tutti) che vede la felicità nell'assenza di situazioni dolorose. Questo concetto può nascere solo in età adulta, dopo varie esperienze di vita e soprattutto dopo aver constatato che il dolore risulta troppo spesso presente nell'esistenza dell'uomo, e che quindi uno stato di tranquillità, persino di noia, può ben essere equiparato alla felicità, la quale è soventemente vagheggiata e desiderata esattamente come una chimera; in verità la felicità dell'uomo è solo e soltanto un bel sogno, e la sua ricerca crea solamente illusioni su illusioni. Bene sarebbe dunque per tutti, di accontentarsi di quei periodi della vita in cui non accade nulla (e per nulla intendo dire nulla di negativo), e godersi la serenità e la quiete di situazioni stabili e magari durature.

 

***

 

È possibile quantificare la propria felicità? Sicuramente no, ma certo è possibile stabilire quale periodo della nostra vita sia stato il più felice di tutti. Nel caso mio questo periodo è compreso nei 365 giorni di un ormai lontanissimo anno: un anno duro, difficile per vari motivi, ma per me eccezionale, in cui ho vissuto gli ultimi scampoli della fanciullezza, quelli in cui si è più consapevoli del proprio stato di benessere, perché s'intensificano i ricordi, le sensazioni piacevoli, e diviene più facile percepire la propria spensieratezza; di conseguenza si respira per la prima volta nella vita il profumo inebriante della felicità.

Adesso che quel tempo è divenuto remoto, ogni qual volta mi succede di pensarci lo vedo bello come non mai: mi basta una canzone, un evento sportivo o televisivo, una foto scattata da me - che già possedevo una macchina fotografica - o da qualche mio parente, oppure un semplice ricordo che riesce ancora ad affiorare in maniera vivida, malgrado la mia memoria sia già stanca, per provare un'emozione così forte da farmi quasi piangere. In poche parole, ho mitizzato quell'epoca della mia esistenza.

L'autunno di quello stesso anno rappresentò per me una sorta di spartiacque tra la spensierata, meravigliosa infanzia e la problematica, tormentata adolescenza. Tutto quello che avevo vissuto prima di quel fatidico autunno era ormai impossibile riviverlo: qualcosa di impercettibile era mutato, una parte preziosa della vita mi stava lasciando e non sarebbe mai più tornata. I momenti di gioia pura e semplice divennero a mano a mano meno frequenti, per poi farsi rari o rarissimi.

Mi viene in mente un verso quanto mai veritiero di Sergio Corazzini: "Muoio, un poco, ogni giorno", che rispecchia nettamente anche il mio punto di vista: ogni essere umano muore, a poco a poco, col trascorrere lento del tempo e della sua esistenza; lungo il tragitto perde via via qualcosa di sé che non ritroverà mai più.

La migliore parte di me è morta nell'autunno di quel memorabile, fantastico, indimenticabile anno.

 

 

CAPITOLO XVII: IL LAVORO

 

Ritengo che lavorare e di conseguenza guadagnare del denaro, sia uno degli elementi fondamentali per rendere migliore la vita degli esseri umani.

Ogni qual volta mi metto a pensare a quanto ho faticato per trovare un lavoro - anche per mie colpe ovviamente - e quanto ho temuto di non trovarlo mai, mi accorgo di essere fortunato ad averne uno, sebbene non sia certamente tra quelli che avevo sognato o sperato di fare, e sebbene sia giunto decisamente in ritardo. Penso che ai giorni nostri avere un lavoro regolare (e sottolineo la parola regolare), soprattutto qui in Italia, sia divenuto un privilegio. 

Quando fui chiamato dall'azienda in cui lavoro, dopo aver partecipato a un concorso ben quattro anni prima, avevo 38 anni, e non potevo rifiutare quell'opportunità che, quasi sicuramente, era l'ultima per me. Malgrado debba sopportare fatiche quotidiane e scocciature frequenti, vado avanti così, ben sapendo che l'anno del pensionamento è ancora lontano (che poi, andare in pensione, oggi come oggi significa esser vecchi).

Se non avessi trovato il lavoro che attualmente faccio, chissà che fine avrei fatto! Uno dei tantissimi dispiaceri che diedi a mia madre, fu quello di affermare, in gioventù, che, non riuscendo mai a trovare alcun lavoro avrei finito per essere un barbone. Lei mi controbatteva che, se uno lo vuole e lo cerca veramente, un lavoro lo trova; magari alquanto faticoso e poco redditizio, ma lo trova. Aveva ragione, ero io che non volevo cercarlo e non intendevo accettare certi lavori, soltanto perché avevo un titolo di studio. Quando, quasi inaspettata ormai, mi è giunta l'ultima possibilità di lavorare, l'ho colta la volo, anche se speravo ancora di essere richiamato da un'azienda pubblica per la quale avevo già lavorato da precario per pochi mesi; ma anche nel caso in cui mi avesse richiamato quest'ultima, non mi avrebbe certamente proposto un contratto a tempo indeterminato. Ormai vicino ai quarant'anni, non potevo attendere più; quindi, alla fine va benissimo così.

Non ho mai fatto nulla di particolarmente umiliante per avere un lavoro. Non mi sono mai inginocchiato di fronte a nessuno, né, tanto meno, ho mai leccato i piedi di qualche persona influente che poteva farmi avere un'occupazione fissa e remunerativa. Però ho sperato che qualcosa del genere lo facessero i miei genitori, non valutando quanto sia avvilente e degradante sottomettersi a qualcuno, anche se lo si fa per qualcosa d'importante, come è un posto di lavoro. Quando i miei, nei lontani anni '60, riuscirono a trovare entrambi un buon posto, non dovettero umiliarsi, ma, al massimo, avere il coraggio di chiederlo.

 

***

 

Faccio un lavoro umile e faticoso, che probabilmente tante persone rifiuterebbero, ma alla fin fine mi sta bene. Quando compii trent'anni, praticamente, ancora non avevo mai lavorato, oltre tutto non studiavo più da parecchi anni; quindi, le mie possibilità di trovare un buon impiego erano drasticamente diminuite. In quel momento decisi che avrei accettato qualunque tipo di occupazione, purché dignitosa e onesta ovviamente.

 

***

 

Svolgere quotidianamente un lavoro prettamente manuale mi viene sicuramente utile, perché mi dà l'opportunità di fare sempre attività fisica; tutti i giorni, infatti, è molto probabile che mi tocchi di camminare parecchio e di sollevare degli oggetti più o meno pesanti. Ora so che per la mia vita, questo tipo di mansione è l'ideale. Se avessi lavorato in un ufficio, come ho sempre sperato in passato, avrei continuato a muovermi poco o nulla, e ciò, forse, col tempo mi avrebbe procurato più di un problema per la salute. Non sono mai stato il tipo che frequenti palestre o cose del genere, e per quanto concerne lo sport, non faccio più alcuna attività dai tempi dell'adolescenza. La mia sedentarietà, negli anni della gioventù, non mi ha dato mai grattacapi, perché il mio fisico se la poteva permettere, ma ora sarebbe un problema serio; e conoscendomi, faticherei molto ad uscire di casa tutti i giorni per fare delle lunghe camminate, che pure adoro.

 

***

 

Quando mi accingevo ad entrare nel mondo operaio - un mondo a me totalmente sconosciuto - mia madre mi rincuorò, dicendomi che, tutto sommato, quella categoria era meglio di tante altre, poiché gli operai non possiedono tutte le malizie, le astuzie e le falsità di gente proveniente da altri mondi, e che lei conosceva bene. Ovviamente, il primo impatto con una realtà nuova e molto particolare, non fu per me facilissimo; ero vissuto in una campana di vetro per troppo tempo, e improvvisamente mi trovavo a frequentare giornalmente persone vissute in strada fin dall'infanzia, che avevano percepito tutte le difficoltà della vita molto tempo prima di me. Ma, cogli anni, sono riuscito ad ambientarmi piuttosto bene, perché ho conosciuto persone in gamba, che mi hanno aiutato e che si sono rivelate anche pazienti con me, che in precedenza avevo lavorato sporadicamente e in ambiti molto differenti. Infine, devo dire che i pochissimi amici reali e sinceri, li ho trovati in questo ambiente, e quindi, anche sotto questo aspetto, mi ritengo fortunato.


Nella vita di un essere umano può succedere che, una volta raggiunto un traguardo rassomigliante ad una vetta inaccessibile, ci si accorga che quell'arrivo era in realtà una nuova partenza verso un ennesimo traguardo, ben più triste, e lontano. Sto parlando del lavoro. Penso siano ben pochi coloro che hanno la fortuna di svolgere un lavoro piacevole, che magari sognavano già da bambini. Per averlo, occorre spesso impegnarsi molto, studiare se è il caso e, soprattutto, conoscere le persone giuste, ovvero gli ambienti giusti. Tutti gli altri - che comunque sono da ritenere dei fortunati, perché lavorare nella società di oggi, a volte può divenire un privilegio - fanno dei lavori tutt'altro che attraenti, anzi, quasi sempre noiosi o addirittura faticosi; costoro (e sono la stragrande maggioranza dei lavoratori), col tempo finiscono per odiare ciò che sono costretti a fare: alzarsi presto la mattina, recarsi in un luogo che detestano, svolgere mansioni che detestano... Tutto ciò è successo e succede anche a me, che pure ho faticato moltissimo a trovare un lavoro stabile, ovvero a tempo indeterminato; una volta ottenutolo, col passare degli anni si è rivelato sempre più pesante, fino a divenire un vero e proprio macigno che mi tocca sollevare ogni giorno della settimana - esclusa la domenica ovviamente - . Il tempo naturalmente passa, e a mano a mano che la vecchiaia si avvicina, la fatica mentale e fisica aumenta, ed io la sopporto a mala pena. Pensare alla pensione non fa che aumentare la depressione, perché essa è ancora lontana, e appare quasi una chimera. Alla fine mi faccio forza e vado avanti comunque, d'altronde non ho altra scelta e l'unico modo per allontanare questa sensazione spiacevolissima, è estraniarsi, pensare ad altro e far finta di nulla. La vita è fatta così.

 

 

CAPITOLO XVIII: L'AMORE

 

La parola amore è forse tra le più usate in assoluto. Molto spesso si nomina a sproposito, ed è comunque difficile dire quando questo sentimento così importante, se non essenziale per la vita sociale dell'umanità, sia veramente presente, e quando, invece, sia solo menzionato o sbandierato senza che ve ne siano tracce. Io, certamente, non sono la persona più adatta a parlare d'amore, visto che l'ho provato soltanto in parte, ovvero nel senso affettivo del termine; ma, a pensarci bene, ora che mi avvio verso la vecchiaia, posso ben dire che anch'io avrei voluto provare quelle sensazioni uniche, irripetibili e insostituibili che offre una relazione amorosa, ancor di più se la medesima passione è condivisa da entrambi gli individui che la vivono. Le cose che affermo in questo post, sono delle opinioni personali, condivisibili o meno; quindi, non essendo mia intenzione il voler convincere qualcuno di ciò che io penso al riguardo, e non volendo essere convinto da altri che le mie idee sono sbagliate, dovrebbero essere semplicemente accettate e rispettate. Dirò che nell'adolescenza e nella prima gioventù, più che amore vero e proprio, provai sentimenti di simpatia e di attrazione per delle ragazze, ma la mia estrema timidezza e il mio sconsiderato orgoglio fecero sì che io non riuscissi mai a dimostrare alle interlocutrici ciò che provavo; tali situazioni, che si ripeterono nel tempo, mi portarono un profondo senso di frustrazione e d'impotenza, facendo sì che io alla fine rinunciassi perfino a tentare un qualsiasi approccio amoroso. Comunque, nella mia vita ho sempre vagheggiato l'amore, immaginandomi possibili incontri, occasioni inattese, e fantasticando sulle ipotetiche compagne di una vita che non vissi mai. Ma, tornando a parlare d'amore in generale, è evidente che, quando c'è questo tipo di sentimento, non può esserci nessun tipo di egoismo; questo perché l'amore è soprattutto altruismo, e voler bene ad un'altra persona comporta il sacrificare una buona parte dell'amor proprio. Chi ama, deve essere disposto a sacrificarsi, anche se questo comporta abbandonare la persona amata, perché quest'ultima non ricambia l'amore provato, o perché si ha la certezza che con noi non potrà mai trovare né felicità né serenità - il che vorrebbe dire costringerla a vivere un'esistenza grama, soltanto per il desiderio di averla come compagna -. Inutile dire che l'amore, nei casi in cui non viene minimamente ricambiato, comporta una serie di sofferenze più o meno sopportabili - dipende dalla personalità di chi ne è coinvolto - che possono degenerare in atti inconsulti o in gravi depressioni che necessitano di cure mediche. L'amore, se autentico, non dovrebbe mai essere esibito, perché, come risulta ovvio, chi ama ed è amato non ha alcuna necessità di farlo sapere a tutti, visto che le sensazioni felici da lui vissute in quei momenti sono più che sufficienti a garantirgli un'esistenza serena; esibire qualcosa del genere significa non provare vero amore e potrebbe compromettere seriamente la relazione con l'altra persona, la quale, accortasi del comportamento sbagliato del partner, comprenderebbe di non essere amata, ma di essere considerata soltanto una conquista da mostrare a tutti. Come mi è stato più volte spiegato, col tempo l'amore si trasforma, e ciò che era a tutti gli effetti una forte passione, a mano a mano che gli anni passano, perde d'intensità, trasformandosi in qualcosa di diverso, ma egualmente importante; subentra infatti il lato affettivo del legame, che alla fine sarà determinante affinché quest'ultimo possa durare il più a lungo possibile, ovvero fino alla morte di uno dei due partner. Concludo affermando che gli amori più importanti, quelli in grado di reggere al tempo e di durare anche per mezzo secolo, nascono sempre durante la gioventù. Il motivo risiede nel fatto che il nostro corpo è predisposto in modo tale che, nella fase definita come gioventù, ovvero tra i venti e i trent'anni, trovi più facilmente i modi e le possibilità di unirsi, di amarsi e di metter su famiglia; anche la mente, in questo preciso periodo, è più aperta, perfino più ingenua, e può contribuire non poco alla nascita ed alla buona riuscita di una relazione amorosa. L'avanzare dell'età fa cadere, una dopo l'altra, le illusioni, le speranze e le emozioni che caratterizzano la giovinezza, conseguentemente, anche la concezione dell'amore subisce un mutamento in negativo, e, praticamente, si viene a perdere quella spinta emotiva che idealizza un qualsiasi rapporto d'amore. Così, in età matura, si può ancora amare ed essere amati, ma in modo diverso; molto spesso chi si unisce ad un'altra persona passata la quarantina, lo fa per non rimanere da solo, per trovare una compagnia. In questo post ho parlato dell'amore di coppia, ma è sottinteso che esistono diversi tipi di amore, come quello affettivo, che si prova per i genitori, per i fratelli o per i figli, e non è meno importante dell'altro, anche se non offre le medesime, intense emozioni.   

 

***

 

Qualche volta mi succede di pensare all'ideale donna della mia vita: quella che non è mai venuta, che non c'è mai stata né mai ci sarà, che non esiste se non nella mia fantasia; e allora provo a figurarmela. Questa donna sarebbe di media-bassa statura, dai capelli e dagli occhi scuri, dal viso piuttosto grazioso: i lineamenti abbastanza delicati. Avrebbe la voce tipica delle donne, e una leggera tendenza a parlare il suo dialetto. Avrebbe il sorriso un po' malinconico e, nei momenti d'allegria, la sua risata non sarebbe mai volgare. Qualche volta, soprattutto nei frangenti più duri della vita, piangerebbe, ma senza far troppi drammi, supererebbe quei momenti difficili, grazie al mio immancabile sostegno. A volte sarebbe molto loquace, e a volte silenziosa; in quest'ultimo caso io gli domanderei il motivo e lei si confiderebbe con me. Noi non litigheremmo quasi mai, ma qualora avvenisse, in poco tempo ci chiariremmo. Avremmo pochi motivi per essere gelosi l'uno dell'altra, perché il nostro amore sarebbe ben saldo, e non andremmo mai a cercare affetto altrove. Non avremmo dei figli, ma non ne faremmo un problema. Lei non avrebbe nessun vizio in particolare, a parte la tendenza a mangiare un po' in eccesso, e, di conseguenza, ad essere leggermente sovrappeso. Lavorerebbe in un ufficio - pubblico o privato - e per recarsi al lavoro userebbe l'automobile. A volte, i diversi turni di lavoro, c'impedirebbero di vederci per intere giornate, ma in quei periodi penseremmo al momento in cui queste particolari e spiacevoli situazioni dovranno terminare, e al fatto che il ritrovarci insieme sembrerà più bello. Ci piacerebbe viaggiare in luoghi vicini e lontani, magari sceglieremmo alternativamente i posti da visitare. Eviteremmo i luoghi molto affollati, preferendo sempre e comunque la tranquillità al caos; la nostra stagione preferita sarebbe l'autunno, e nei giorni soleggiati d'ottobre e novembre usciremmo spesso, in cerca di angoli di paradiso dove poter guardare insieme gli incantevoli paesaggi autunnali. Saremmo entrambi appassionati d'arte, ma non necessariamente della medesima disciplina. Non ci annoieremmo mai, e avremmo sempre qualcosa da fare. Spesso faremmo le compere insieme, consigliandoci l'uno con l'altra per gli acquisti futuri. Ogni decisione la prenderemmo in due, anche a seguito di discussioni; molto raramente uno di noi s'imporrebbe sull'altro, ma quando dovesse succedere, ci sarebbe una conseguente chiarificazione affinché ciò non si debba ripetere. Se uno dei due si ammalasse, l'altro lo curerebbe con devozione ed amore, sperando con tutto il cuore in una veloce guarigione. Io cercherei di interessarmi delle sue passioni personali, e lei farebbe la stessa cosa con le mie, in modo da rispettarci al massimo e, anche nel caso in cui uno di noi non riuscisse per nulla ad appassionarsi di una materia che piace all'altro, non ne faremmo un dramma. Il sesso non sarebbe l'aspetto più importante della nostra relazione: il nostro amore avrebbe basi ben più solide di un accordo sessuale. E vivremmo insieme i nostri anni, la nostra vita che ci rimane; e poi diverremmo vecchi, e, un po' malinconici, ci guarderemmo negli occhi senza parlarci, perché a me ciò basterebbe per conoscere i suoi pensieri così come a lei. E penseremmo di essere stati molto fortunati, ad incontrarci, visto che la nostra esistenza vissuta insieme ci apparirebbe indimenticabile e meravigliosa. Poi, inevitabilmente, uno di noi morirebbe per primo, e l'altro rimarrebbe solo, per il resto della vita, pensando spesso al bel tempo in cui eravamo insieme. E una volta scomparsi entrambi da questo mondo, sarebbe fantastico rincontrarci in un altro, ancor più bello di questo. E così per l'eternità...

 

***

 

Il volto malinconico è ciò che mi colpisce maggiormente di te; la mancanza del sorriso e lo sguardo che mi trasmette un'infinita tristezza; gli occhi che sembrano trattenere a stento le lacrime. Chi sei? ti vedo, alle volte, mentre ti aggiri per il quartiere insieme al tuo piccolo cane; tieni sempre lo sguardo abbassato, come se ti vergognassi o non volessi parlare con nessuno. E io rispetto questa tua volontà, ma non posso fare a meno di guardarti perché, anche se non sei più giovane hai mantenuto una bellezza particolare, rara, di cui forse neppure tu ti rendi conto. La tua estrema tristezza, la tua timidezza e la malinconia che ti porti dietro hanno fatto sì che m'incuriosissi di te, della tua vita, della tua nobile anima. Non so nulla della tua vita, né del tuo lavoro. Forse sei una maestra e probabilmente non hai figli; forse hai cinquant'anni e quasi sicuramente non hai una relazione sentimentale particolarmente importante. Non sei felice da chissà quanti anni, e magari, come me, rimpiangi il lontano passato dell'infanzia. Vorrei parlarti di tutte queste cose e di altre ancora, ma non oso rivolgerti la parola. Non so, magari la malinconia che affiora dai tuoi occhi, che a volte sembra essere autentica disperazione, è dovuta, tra le altre cose, ad una mancata maternità; so che molte donne hanno sofferto e soffrono per questo motivo, e non c'è nulla che le possa consolare. Forse hai rivolto l'istintivo amore materno verso i bambini della tua classe - ammesso che tu sia una maestra - oppure verso la tua cara bestiolina: l'unico essere che guardi con occhi diversi.

A volte, anzi, spesso, penso che sarebbe meglio non conoscersi più di tanto; perché se potessi approfondire la tua conoscenza, molto probabilmente verrei a sapere cose che potrebbero risultarmi spiacevoli; scoprirei che in realtà, tutte le cose che ho fantasiosamente ipotizzato non hanno alcun fondamento e che tu sei un'altra persona. E allora saresti come una statua preziosa e fragile che cade dal piedistallo e finisce in mille pezzi, perdendo il suo incalcolabile valore; saresti una delle tante, l'ennesima delusione. Ma così come ti vedo, come t'immagino, sei un'opera d'arte unica. Ti ho cercata in un dipinto, ma non ne ho trovato uno che raffigurasse una donna simile a te, se non in modo molto vago. Se ti penso mi vengono in mente certe donne che, probabilmente, non sono mai esistite, se non nella fantasia dei poeti; queste donne, non più giovani ma neppure anziane, aristocratiche, altere, solitarie ed estremamente malinconiche, trascorrevano le loro tristi giornate passeggiando nei viali dei parchi che circondavano le loro immense ville; e passeggiando pensavano ad un passato che promise molto e mantenne nulla; pensavano al loro gramo presente e ad un futuro senza speranza. A stento trattenevano il pianto, ed a ben guardarle, qualche lacrima facilmente scendeva dai loro lucidissimi occhi. Esse avevano avuto un'infanzia felice, e in gioventù, ingenue, avevano bramato e sognato il vero Amore. Ma l'abiezione umana e il cinico destino si erano abbattuti contro di loro, le avevano poste al di fuori della vita, in un limbo fatto di amarezza e di desolazione. Come fossero in esilio, taciturne e apatiche, esse vivevano soltanto di rimpianti e di ricordi. Per me tu, simile a quelle esistenze infelici, sei la Donna del Sogno Infranto, sei la Dama della Santa Tristezza, sei la Regina Inconsolabile del Regno Devastato. Io non so quanti anni hai, conosco a stento la tua voce e non so nemmeno il tuo nome, ma, per quel poco, quel nulla che ho compreso, mi basta il solo pensarti o l'immaginarti per illuminare la mia vita. Sarai per sempre nei miei sogni.

Avrei voluto conoscerti tanti anni fa: avremmo avuto tante cose da dirci, tante passioni da condividere... Chissà, magari avremmo deciso di passare il resto della nostra vita insieme, forse avremmo avuto anche dei figli a cui trasmettere il nostro amore per l'arte... Gli avremmo insegnato le cose che contano più di tutto: il ricordo, l'umiltà, la pazienza, la fantasia e il sogno. Loro avrebbero proseguito la nostra strada, senza mai cercarne delle altre.

Ma tutti questi non sono altro che miraggi, astrazioni, pensieri che volano senza mèta. È la solitudine, l'amara solitudine che mi fa scherzi estremamente cattivi. È la disperazione, la terribile disperazione che mi spinge verso territori impercorribili. Eppure in me è nato questo desiderio di sapere qualcosa di te, di conoscerti; forse perché l'uomo non finisce mai di sognare e di sperare, malgrado la vita, malgrado l'età che inesorabile avanza, malgrado tutto... E allora si vagheggiano vite immaginarie, s'ipotizzano situazioni impossibili, incontri e relazioni che non potrebbero mai verificarsi. Si sogna perché non si può far altro che sognare o uccidersi, in una vita avara di felicità, colma di struggimenti.

Però, ripeto, che mi colpisce il tuo volto malinconico, che mi comunica un'affinità, mi induce a supporre che io e te potevamo... potremmo...

 

***

 

Mi sono buttato sul letto e una specie di disperazione mi ha vinto; poteva essere il giorno più bello della mia vita ed è diventato uno dei più tristi. Soltanto ora mi rendo conto di aver perso un'occasione unica, sì, so di aver sbagliato ancora una volta rifiutando un invito che poteva offrirmi una meravigliosa opportunità; e so pure che non ci sarà una seconda possibilità: quel che poteva accadere non accadrà più. Stamattina mi sono recato a scuola, per vedere di persona delle cose che già mi avevano comunicato. Era tutto vero, le belle notizie che mi erano state date, le confermavano quei dati che ho letto attentamente. Così me ne stavo andando a piedi verso la fermata dell'autobus per ritornare a casa quando... ti ho vista da lontano. Mi venivi incontro e sorridevi: eri meravigliosamente bella. Anche tu andavi a vedere quei dati che ti riguardavano come riguardavano me; mi hai salutato e mi hai chiesto di accompagnarti, perché avresti dovuto svolgere una pratica inerente a quei dati; accettai e mi trovai anch'io a svolgere la medesima pratica, che avevo momentaneamente rimandato. Così abbiamo avuto l'opportunità di parlare, di raccontarci un po' di cose. E, tra un argomento e l'altro, mi hai chiesto se il giorno dopo avessi gradito di andare al mare insieme a te. A quel punto il panico si è impossessato di me: non mi aspettavo assolutamente da te un invito del genere, visto anche il fatto che sei fidanzata. Una volta di più hanno avuto il sopravvento i tanti complessi che ho e alcuni pensieri improvvisi, preoccupanti, tipo il cercare di essere simpatico e non riuscirci, il trovarmi solo con te e non sapere cosa dire... Non ho avuto esitazioni: ti ho detto che non potevo venire, perché avevo un altro impegno. Subito dopo, da lontano tu hai visto l'autobus che dovevo prendere per tornare a casa, e mi hai detto che, se avessi corso per un breve tratto di strada, avrei fatto in tempo a prenderlo. E io, allora, ti ho salutato in fretta e ho corso verso l'autobus che sopraggiungeva. Sono salito e ti ho perso di vista. Ora sono qui in preda alla disperazione e alla tristezza, perché mi rendo conto della sciocchezza, della pazzia che ho fatto dicendoti di no. Nello stesso tempo ripenso alla mattinata, all'imprevista tua apparizione, ai brevi, indimenticabili momenti vissuti con te, e allo sciagurato finale. Mi viene da piangere, perché non so cosa fare per rimediare all'errore. Che cosa ho fatto... che cosa ho fatto!

 

***

 

C'è una bellissima canzone di Fabrizio De André, ispirata ad una poesia, che a un tratto recita così: Ma se la vita smette di aiutarti / è più difficile dimenticarti / di quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare / delle occasioni lasciate ad aspettare / degli occhi mai più rivisti. E infatti, a tal proposito, io non ti ho dimenticato, cara D., che sei stata una meteora nella mia vita, ma una di quelle che, passando, lasciano una luce folgorante, vivissima, e non è possibile obliarla. Ti conobbi durante un corso d'informatica di quasi trent'anni fa. Era uno di quei corsi di formazione finanziati dalla Regione Lazio e organizzati da società private. Io da qualche anno, su suggerimento dei miei genitori, tentavo di superare le selezioni di alcuni di questi corsi, ma non vi ero riuscito prima di allora. Però, nel novembre del 1989 ebbi la fortuna di rientrare tra i selezionati, che erano, mi sembra, non più di venti, di un corso per analisti di sistemi Unix e Xenix (questi erano termini tecnici riguardanti sistemi operativi che si usavano allora). Fui entusiasta di ciò, convinto che fosse la strada giusta per entrare, finalmente, nel mondo del lavoro. Per l'occasione comperai un cappotto nuovo, e in uno dei primi giorni di dicembre iniziai quel corso che sarebbe durato sei mesi circa. La società a responsabilità limitata presso cui dovevo recarmi, si trovava  a Roma, in una traversa di via Laurentina. E così iniziai quella nuova esperienza, scoprendo che tra i selezionati c'erano anche diverse ragazze, e accorgendomi subito di te. Dopo i primi giorni, nello stanzone dove si svolgeva il corso furono posti dei PC; ma, essendocene pochi, fu deciso che avremmo dovuto proseguire l'apprendimento formando dei gruppi di lavoro. Però, io dall'inizio mi trovai male col mio gruppo, e l'istruttore se ne rese conto (per fortuna), spostandomi in un altro dove c'eri anche tu. Fu li che ebbi modo di conoscerti, cara D., e, seppure per un brevissimo periodo, ti aiutai a comprendere alcune delle cose che ci venivano insegnate. Furono pochissimi giorni, ma indimenticabili, perché ti avevo sempre a fianco, e parlavo con te, e non mi sembrava vero. Eri una ragazza semplice e bella: di media statua, col bel visetto, gli occhi piccoli e scuri, il nasino a punta, trasmettevi una sensazione di timidezza e di gentilezza. In uno di quei giorni, mentre ti guardavo nel momento in cui rispondevi alle domande dell'istruttore, pensai di essermi innamorato di te. Ma il destino ci allontanò prima che potesse accadere qualcosa di più concreto. Arrivarono altri PC, e i gruppi formati inizialmente, si sfoltirono; così io continuai a lavorare con un ragazzo e tu con una ragazza. Da quel momento ci parlammo poco o nulla, e quei momenti d'intimità iniziali non si presentarono più. Nel giugno dell'anno successivo, dopo una specie d'esame finale, il corso finì, e, purtroppo, non mi diede modo di trovare alcun lavoro. Così non ti vidi più, cara D., che avevo sognato potessi essere il mio amore. Di quel corso, chissà come e perché, mi resta ancora una cartellina degli appunti; di te, nella mia mente, rimane il tuo bel viso e il tuo dolce sorriso.

 

***

 

In questi giorni, col sopraggiungere dell'ennesima stagione estiva, ho ripensato a te e alla nostra estate, ormai già lontanissima nel tempo. Ricordo perfettamente il tuo nome, il tuo volto e il tuo sorriso, ma per il resto, ho perduto qualunque traccia di te. Probabilmente sei tornata nella tua Toscana, ti sarai sposata e avrai dei figli. Chissà se ricordi ancora quei mesi in cui ci conoscemmo e ci frequentammo. C'incontrammo in un luogo triste, come lo sono tutti gli ospedali; entrambi avevamo delle persone care che si erano seriamente ammalate, ed entrambi soffrivamo nel vederle soffrire; nello stesso tempo, però, ci scambiavamo delle parole di conforto e di consolazione: speravamo di vederle guarite; a volte ci concedevamo dei brevi periodi di distrazione, allontanandoci dal sanatorio. Ti ricordi i pomeriggi assolati, al centro di Roma, in cui noi passeggiavamo per le strade quasi deserte, e parlavamo del futuro, di ciò che avremmo potuto fare della nostra vita, di un ipotetico lavoro? Ricordi che mi parlavi della tua laurea, di come ci tenevi ad ottenerla? Ricordi i garbati rimproveri che mi facevi perché, dicevi giustamente, io non avevo ambizioni? E ricordi (io lo ricordo benissimo) quella volta che abbiamo pianto, perché troppo preoccupati dalle malattie che affliggevano i nostri parenti? Proprio in quell'occasione tremenda ci siamo abbracciati per la prima volta, e in quel preciso giorno ho pensato che avresti potuto essere la mia futura compagna. Non è andata così; non so per quale motivo (o forse lo so e non voglio ammetterlo): col tempo, i nostri rapporti sono divenuti sempre più freddi e più rari. Dopo pochi mesi eravamo di nuovi sconosciuti, né ho saputo più nulla di te. Mio padre riuscì a guarire, anche se la malattia lo segnò per il resto della vita; il tuo genitore, seppi, morì dopo tre mesi di agonia, ed io non ebbi nemmeno il coraggio di scriverti o di cercarti per farti, almeno, le dovute condoglianze. Eravamo quasi coetanei e ancora molto giovani, e chissà, se io avessi osato di più, o se tu mi avessi detto qualcosa per farmi prendere coraggio, forse sarebbe veramente nato un rapporto importante, decisivo per le nostre esistenze. Non andò così, e di allora mi rimangono quei caldi giorni vissuti tra l'ansia della malattia e l'emozione della tua presenza; mi rimangono i ricordi di quelle passeggiate in tua compagnia, e stento ancora a credere che tu, bellissima, eri sola con me a vagare e a parlare lungo le strade romane. Fu vero amore il nostro? Il dubbio mi sorge perché so bene cosa provassi io per te, ma non seppi né saprò mai cosa provavi tu nei miei confronti, se volesti illudermi, come più d'una volta pensai, o se nacque un sentimento profondo e autentico anche in te. Forse io ho sbagliato qualcosa, forse il coraggio di fare un passo decisivo mi è mancato... ma ora è inutile fare questi discorsi. E poi, a ripensarci, quale futuro potevo offrirti io, che dipendevo finanziariamente dai miei genitori, che non lavoravo e non studiavo; tu meritavi altro, e spero, sinceramente, che la tua vita sia stata all'altezza delle tue ambizioni; eri e sei senz'altro una bella persona, per questo io non ti meritavo; non ti meriterei neppure adesso, lo so. Erano i mesi di luglio e di agosto appartenenti ad un tempo ormai sbiadito, consumato, inutile. Ed ora che la mia vita si avvia verso il tramonto, il ripensarci mi scatena un indicibile rimpianto e una incontrollabile voglia di piangere. Ricordo che, in uno dei discorsi che facemmo un po' per caso, perché stavamo parlando del tuo cognome, ci trovammo a discutere di fede in Dio, e tu mi confidasti di averla ancora, questa fede benedetta; ebbene, io che già allora non credevo più, voglio, con uno sforzo immane, credere ancora in una divinità, e pure in un aldilà dove sia possibile incontrarti di nuovo, per riprendere quella relazione che interrompemmo così bruscamente. Per ora ti saluto, carissima Anima, ovunque tu sia, e ti dedico questa poesia che ho scritto per rievocare la nostra estate.

 

Ricordi quel giorno

che noi ci vedemmo

in quella piazzetta

svuotata dal caldo

tremendo d'agosto;

ricordi i piccioni

volare d'intorno

e gli alberi alti,

le foglie cadute

già in terra;

ricordi le risa

e il sole sui tetti

che illuminava

le anime nostre;

ricordi le fonti

cercate tra i vicoli,

quell'acqua purissima

nelle nostre mani.

Dove sei andata,

in quale punto,

luogo della Terra

ora vivi e pensi?

Ricordi ancora

i nostri giorni

distanti, sognanti

vissuti per caso

sommersi oramai

dal tempo spietato?

Io ancora ti vedo

ti cerco nel fondo

del cuore ormai stanco

e penso quel tempo

di fuori dal tempo.

Ci ritroveremo...

...

Tu scenderai le scale

di Trinità dei Monti;

io ti verrò incontro

e ci sembrerà

di non esserci

mai separati...

 

 

***

 

Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state.... Così recitano alcuni versi di una famosa poesia di Guido Gozzano; questo sentimento del poeta è anche il mio, che ormai ho raggiunto una certa età, e vivo soltanto di bei ricordi. Per tale motivo ho pensato anche a te, cara N., conosciuta tanti anni fa, durante un corso per un concorso pubblico. Sì, sembrerebbe un gioco di parole, ma quanti ce ne furono, in quel tempo, di questi corsi organizzati per preparare i partecipanti ad ognuno di quei concorsi che prevedevano l'assunzione, magari, di dieci persone soltanto; e quanti libri furono stampati, inerenti ai medesimi concorsi, che noi disoccupati acquistavamo sempre, anche se costosi. Ricordi, N., il giorno in cui ci fu questo concorso, la marea di gente che vi partecipò? E quanti, poi, provenivano da posti lontanissimi? Quando apparivano i bandi sulla Gazzetta Ufficiale, noi eravamo sempre pronti a fare le domande, consegnarle, aspettare che ci dicessero il giorno in cui sarebbero iniziate le prove di selezione e, come facemmo quella volta, poco tempo prima dell'inizio, frequentare anche uno dei tanti corsi che avrebbero dovuto servire da preparazione. In realtà quei maledetti corsi, organizzati superficialmente, in fretta e furia, non venivano utili a noi, ma a tutti coloro che coglievano l'infame occasione per guadagnare un po' di soldi alle spalle delle famiglie dei disoccupati. Sì, perché i nostri genitori, pur di vederci occupati, avrebbero speso anche una fortuna, e s'illudevano che questi corsi potessero servire a qualcosa. Ma l'unico motivo per cui oggi ritengo benedetto quell'inutile corso, cara N., è che mi diede la possibilità d'incontrarti e conoscerti. Mi ricordo bene di te e, malgrado siano passati cinque lustri o forse di più dal nostro incontro, se penso a te è come se ti avessi ancora qui, davanti agli occhi. Eri di media statura, coi capelli lunghi e neri, gl'immancabili occhialini (che arricchivano il tuo fascino) e un viso dai lineamenti regolari; usavi un tipico rossetto rosso-scuro e indossavi quasi sempre un giubbetto color ciclamino, che ti stava a pennello; non mi ricordo di averti mai visto sorridente, non so il perché: mantenevi quasi sempre un'espressione seria, ma mai arrabbiata. Abitavi, con i tuoi, nel quartiere Prenestino di Roma, di cui, spesso, mi elencavi i pregi e i difetti. Mi confidasti anche la concreta possibilità che avevi, di entrare, in un futuro prossimo, come infermiera in un ospedale; per questo, mi dicesti, quel concorso non aveva poi molta importanza per te, ma hai visto mai... Quando ti chiesi se ti sarebbe piaciuto fare l'infermiera, rispondesti di no, ma che comunque eri stanca di aspettare un buon posto che non esisteva, e che era giunto ormai il momento di iniziare a lavorare. Mi rivelasti anche il fatto che ti eri fidanzata e che non volevi rimandare troppo il matrimonio. Quando mi dicesti quest'ultimo particolare, immediatamente ebbi una forte delusione, che cercai di celare, e le mie speranze di iniziare una relazione sentimentale con te, terminarono in quell'istante. Però, in precedenza, avevo fatto un sogno ad occhi aperti: pensavo potesse nascere veramente qualcosa d'importante tra noi, visto il modo in cui avevamo fatto amicizia, visto la nostra intesa e tutto il tempo passato piacevolmente con te. Almeno per quel mese scarso in cui durò il corso, quelle due ore di due giorni della settimana le trascorrevamo insieme, e parlavamo. Qualche volta, dopo l'orario del corso, ci siamo presi qualche ora di libertà, passeggiando per le strade di Roma, guardando un po' di vetrine, scambiandoci delle opinioni, scherzando... Poi, improvvisamente, non ti ho vista più. Chissà se fai ancora l'infermiera o, magari sei stata promossa caposala; se sei a Roma, nel tuo vecchio quartiere, o ti sei trasferita in un'altra città; chissà se ti sei sposata ed hai dei figli... Però, comunque stiano le cose, io voglio ricordarti così come ti ho conosciuta: spontanea, garbata, simpatica, bella: una ragazza da sposare e da viverci tutta una vita!

 

***

 

E visto che, pur non sapendo il perché, sto facendo una sorta di testamento sentimentale della mia povera vita, è giusto e opportuno che parli anche di te, cara E. Ci conoscemmo in un ufficio, in occasione di una breve parentesi lavorativa. Dopo pochi giorni di lavoro, avemmo l'occasione di trovarci nella stessa stanza, e di svolgere le stesse mansioni. Mi chiedesti dove abitavo, e alla mia risposta mi dicesti che anche tu abitavi da quelle parti; e visto che io, in quel periodo, mi recavo sul posto di lavoro coi mezzi pubblici (non guidavo pur avendo preso la patente), tu ti offristi, nei giorni in cui facevamo lo stesso orario lavorativo, di accompagnarmi a casa. Naturalmente accettai, e molte volte avvenne che fosti tu a portarmi all'entrata di Ostia Antica, ovvero fino al punto più vicino alla mia abitazione, del tragitto che facevi per tornare a casa. In quel quarto d'ora di viaggio tu parlavi a ruota libera ed io non riuscivo a starti dietro; anche in ufficio, spesso mi parlavi, creandomi qualche problema di concentrazione. Eri, insomma, assai loquace; mi raccontavi, tra le altre cose, anche della tua giovane vita, dei tuoi familiari, dei tuoi cani, del rapporto d'amore con un ragazzo che era in stand by, della tua intenzione di avere dei figli in un immediato futuro... Mi chiedesti alcune cose, tra le quali la mia età. Tu avevi ben dodici anni meno di me. Quando ti confessai che mi sentivo già vecchio tu mi consolasti, dicendomi che provavi le stesse sensazioni (ma tu eri ancora molto giovane!). Da altri particolari ebbi l'impressione che ti piacessi, se non fisicamente, forse, caratterialmente. Magari ti aspettavi che mi facessi avanti, che, almeno, ti facessi qualche complimento... Tu eri ancora giovanissima, magra, piccolina, con un volto da bambina; avevi una grinta non comune che eri sempre pronta a sfoderare, riuscendo immancabilmente a farti valere. Non ero sicurissimo delle tue intenzioni, ma quei dodici anni di differenza tra te e me non mi fecero quasi mai balenare nella mente che potesse nascere una relazione tra di noi, tanto meno che questa potesse durare nel tempo. La mia non è stata una fuga vigliacca, come forse tu avrai pensato, ma quando ebbi l'opportunità di lavorare per il resto dei giorni del contratto in un altro ufficio, la colsi al volo, perdendoti completamente di vista. Il motivo del mio trasferimento non riguardava te, ma l'ambiente caotico che predominava nell'ufficio dove lavoravamo spesso insieme; preferii, quindi, un posto più tranquillo. Quando tornai nel luogo dove tu ancora lavoravi, per salutare definitivamente i colleghi e, quindi, anche te, non ti trovai; da allora non ti vidi più. Tu, ora che ci penso, forse hai rappresentato l'ultima concreta possibilità che avevo di avere una compagna e, magari, anche dei figli: una famiglia insomma. Addio anche a te, cara E., ovunque tu sia...

 

***

 

Non è soltanto la pioggia che mi rende triste mentre ritorno a casa in questa sera autunnale, ma la tua assenza, che purtroppo durerà ancora per un po' di giorni. Probabilmente non resisterò così a lungo senza mai vederti, e per questo domani o dopodomani ti telefonerò; spero tu voglia perdonarmi del disturbo e mi auguro di non darti troppa noia. Ormai ti faccio visita da qualche mese, sebbene non molto spesso. Posso dire di conoscerti meglio, anche se non perfettamente; ho compreso la tua bellezza esteriore e interiore, e ciò mi basta. Ogni volta che varco il cancello della tua casa, Puntino mi fa le feste e non mi abbaia più, come accadeva nei primi giorni in cui venivo a trovarti. Tu mi accogli sempre con grande gentilezza, e te ne sono grato; tuo figlio, invece, mi dà l'impressione di non gradire le mie visite, e lo capisco bene. Se tu in futuro mi dirai che non mi devo far più vivo, lo farò senza indugio: ne hai tutte le ragioni. Però finché durerà tale situazione, non sarò io a tirarmi indietro, questo devi saperlo. Sto bene con te, siamo due anime simili e riusciamo a parlare, ad intenderci, a trovare un minimo comun denominatore nei nostri interessi e nelle nostre convinzioni. Spesso, conversando, abbiamo l'impressione di esserci già conosciuti cento, mille anni fa, e di non averlo mai saputo prima. Non tocchiamo mai determinati argomenti, perché potrebbero trovarci in imbarazzo ed anche in disaccordo, ma sono talmente tanti quelli di cui discutiamo, che il resto non ha la minima importanza. Recentemente mi hai confidato qualcosa dei tuoi problemi col tuo ex, ed io ti ho potuto dire ben poco, poiché non gradisco intromettermi negli affari privati altrui; probabilmente hai la ragione dalla tua parte, e ti comporti in modo giusto nei suoi confronti e in quelli di tuo figlio, che ami e proteggi per quanto puoi; io non so nulla di queste cose, e, come già detto, mi pare opportuno non immischiarmi. Mi hai anche rivelato che qualche anno fa la tua salute è peggiorata, ma che ora stai meglio, e questo mi rincuora; se penso ai gravi problemi di salute che ebbero molti anni or sono i miei genitori, e di come ci soffrii, immagino facilmente il patimento del tuo figliuolo nel sapere che non stavi bene; ma ora mi dici che tutto è passato, e di ciò anch'io sono molto felice.

Se penso al modo del tutto casuale con cui ti ho conosciuta... Però, a pensarci bene, le cose più belle della vita avvengono casualmente, e il tuo incontro, per me, fa parte di esse. Spero che anche tu, un giorno, verrai a farmi visita; non troverai una casa ordinata come la tua, ma ti accoglierò al meglio che posso, come se ricevessi una principessa o un'autorità. Forse farai amicizia col mio gatto, anche se dovrai stare attenta a non farti graffiare, visti i suoi sbalzi di umore e il suo caratterino. Certo, se s'incontrassero Puntino e il mio Micio, sarebbe assai difficile vederli in armonia, ma fortunatamente per loro, ora questa ipotesi è remota. Adesso però basta, sto fantasticando un po' troppo, e ciò mi capita spesso, ultimamente; godiamoci questo nostro tempo, sebbene sia incerto e avaro; non chiediamo troppo alla vita, poiché ci potrebbe togliere quel poco che ancora ci dà. Ecco, io ora sto chiudendo il mio ombrello e mi accingo a rincasare, e mentre lo faccio, il pensiero di rivederti tra qualche giorno mi trasmette una voglia di vivere che non mi apparteneva più da tanto tempo: questo mi basta per ora, non desidero altro. Arrivederci, cara R.


Ora so con quasi assoluta certezza che oggi per me, stare da solo è l'unica e migliore soluzione per vivere meglio il tempo che mi resta. Ma per quanti anni ho sperato di avere una donna accanto! Eppure, a pensarci bene, non ho mai fatto nulla perché ciò accadesse. Per timidezza, per pigrizia, per orgoglio e chissà per quale altro stupido atteggiamento, in tutta la vita ho sempre atteso un miracolo che non poteva verificarsi (perché in realtà, i miracoli non esistono). Per una quantità spropositata di tempo ho aspettato che una donna mi cadesse tra le braccia, senza, tra l'altro, un solo motivo valido per cui ciò potesse accadere. Io non sono mai stato bello, né interessante, né simpatico; anzi, sono stato e forse sono ancora tutt'altra cosa: apatico, asociale, poco loquace e, forse, un po' scostante. Ho vissuto prevalentemente lontano dalle persone che non conoscevo, esclusi brevi periodi. Quando frequentai le scuole medie inferiori, cominciai a mostrare un certo interesse nei confronti delle ragazzine; in particolare per una, che, in compagnia delle sue amiche, un giorno mi si avvicinò ed ebbe la spavalderia di farmi delle domande piuttosto personali. Naturalmente, vista la mia spiccata timidezza, mi limitai soltanto a guardarla, facendo bene attenzione a che lei non si avvedesse di questa mia attrazione che, vista la mia età, non potrei definire sessuale. Ebbi invece una vera  attrazione fisica verso una ragazza - ma non so se si trattasse di reale innamoramento - negli anni del liceo; anche in questo caso, fu lei a fare i primi passi (e mi pareva che non fosse per un vero interessamento nei miei riguardi, ma soltanto per mero divertimento), sedendosi un giorno di lezione, a fianco a me, poiché il mio compagno di banco era assente. Anche questa attraente ragazza mi fece delle domande personali, per curiosità femminile o chissà per quale altro motivo;  io rimasi rigido, preoccupato e nello stesso tempo emozionato al limite della felicità, per quella presenza così gradita; arrivò addirittura, scherzando, a farmi il solletico sotto le braccia. Non so se soltanto per quell'ardito comportamento, o perché era veramente una bella ragazza, da allora fui particolarmente interessato a lei; in verità il mio interessamento si limitava al pensiero ricorrente, e mai ebbi il coraggio, se non di dichiararle qualcosa, di avvicinarmi a lei e di parlarci un po'. Finito il liceo, ebbi ben poche possibilità di conoscere altre ragazze; pure qualcosa ancora avvenne, in luoghi forse non adatti e tutt'altro che belli. Ma nessuno di questi sporadici e occasionali incontri risultò determinante, e non ebbi mai modo di approfondire la conoscenza superficiale che può crearsi quando ci si vede poco. Nella maturità, trovato un lavoro che non posso definire ambito, ebbi la netta percezione, per non dire la certezza, che alcune colleghe fossero interessate a me; ma in questo caso non potevo essere attratto da loro, poiché di attraente non avevano praticamente nulla; ma non era soltanto questione di aspetto fisico, che pure riveste una certa importanza in questi casi; il fatto era che esse appartenevano ad un mondo totalmente diverso dal mio, per cultura, per abitudini e per comportamenti. Oltretutto si trattava di donne piuttosto mature, che avevano alle spalle relazioni, se non matrimoni, finiti male, e che si trovavano sole, magari con diversi figli, e con un modo di pensare troppo distante dal mio. Neppure per un momento mi balenò l'idea di stare insieme ad una di esse; qualcuna mi appariva e mi appare, se ci ripenso, un terribile mostro. A chi mi chiedeva il motivo per cui non mi ero sposato e non avevo ancora una compagna, mi limitavo a dare risposte brevi, attribuendo la mia sconfortante situazione sentimentale all'eccessiva timidezza che mi aveva sempre accompagnato nella vita, e che oramai era diventata cronica.

Mentre scrivo questa sorta di confessione intima, ho già compiuto da tempo 55 anni; da cinque sono totalmente solo, e da qualche tempo nessuno più mi chiede se ho una compagna o se vorrei averla. Come ho affermato all'inizio, ora sono consapevole del fatto che la solitudine per me è, oggi, il male minore e alla fine l'unica via percorribile per il resto della mia esistenza. Certamente questa consapevolezza è giunta dopo un travaglio morale non indifferente; però adesso capisco che, giunti ad una certa età (quasi alla vecchiaia intendo), vivere insieme ad una donna - sia coetanea o mano - diventa assi complicato; l'innamorarsi è semplicemente impossibile, parlando di una donna che avrebbe la mia età; per quanto riguarda le giovani, non avrebbe più alcun senso neppure il pensare di averle accanto, perché sarei un essere patetico e rincoglionito, che non si avvede della differenza netta per modo di pensare, di agire ed anche per aspetto fisico, tra un cinquantenne ed una donna giovane. Ma il motivo principale per cui ritengo sia impossibile accoppiarmi oggi, è l'elevato numero di abitudini  (e anche di libertà) che ora fanno parte della mia personalità, e alle quali dovrei rinunciare, dovendo vivere con un'altra persona. Come ho già detto, il mio è stato e forse è tutt'ora un percorso doloroso; il fatto che io ora stia scrivendo per parlare di queste cose che, in sostanza, appartengono alla  mia privacy, ne è la riprova; come al solito la scrittura mi è utile in quanto valvola di sfogo; la mia triste confessione, la mia rassegnazione e il mio piagnisteo, alleviano ancora una volta un dolore che fatico a sopportare. Basta così. 


***


Quando riceverai questa lettera, probabilmente ti meraviglierai, perché ai giorni nostri chi usa più scrivere lettere? Sì, io ne scrivo ancora, e questa in particolare ci tenevo a scriverla, perché molto importante per me; perché ti devo ringraziare e riesco a farlo soltanto in questo modo. Scusami, quindi, se non l'ho fatto direttamente: se puoi perdonami, ma non sono riuscito a dirtelo faccia a faccia, ciò che ho scritto in questo foglio.

Ti devo ringraziare, perché mi fai sentire ancora vivo. Ti devo ringraziare, perché quando parli con me, lo fai sempre in modo gentile. Ti ringrazio per le belle parole che spesso mi dici, per il rispetto che hai nei miei confronti e perché pensi che io sia importante (più importante di quello che in realtà sono). Se non fosse per te, per la tua estrema gentilezza, per il tuo affetto e per altre cose ancora, certamente mi sentirei assai peggio di come mi sento. Se non ci fossi tu, che mi rincuori e mi aiuti, avrei la sensazione di essere l'uomo più solo della terra; avrei l'impressione di essere già morto pur respirando ancora. Grazie, dunque, e ancora grazie, per avermi dato un po' di speranza e per aver fatto scomparire dalla mia testa l'idea che la morte sarebbe da preferire al resto di una vita sempre più faticosa, inutile e  detestabile. Io non cerco altro: mi accontento di parlare con te, e spero che anche tu voglia continuare a farlo; i migliori rapporti di amicizia non necessitano di una conoscenza troppo intima, ma si consolidano con i colloqui: essi sono talmente profondi da non aver alcun bisogno di ulteriori passi d'avvicinamento; quando noi due parliamo - e potremmo farlo per ore senza stancarci - le nostre anime si congiungono e non si distinguono più.

Ci piacciono i versi più disperati dei poeti più tristi e sfortunati: leggendoli, sappiamo comprendere in modo perfetto quello che era il loro stato d'animo, così come il nostro. E quando parliamo dell'insensatezza della vita, del grigiore che ci circonda e della nostra cronica incapacità di vivere in questo lurido mondo, troviamo un appiglio per proseguire il cammino, perché sappiamo di non essere soli, e sappiamo anche farci coraggio a vicenda.

Questa è la tipologia della nostra amicizia, nata quasi per caso e divenuta così duratura che, forse, non finirà più fino alla morte di uno di noi due. Non mi ritengo sfortunato: nella mia esistenza ho combinato ben poco, ma ho avuto comunque la possibilità di conoscere delle persone eccezionali, e tra queste tu occupi un posto speciale. Ora ti saluto (non vorrei annoiarti ancora con inutili parole), e spero che la nostra amicizia, così vera e così forte, non vada mai diminuendo cogli anni, perché ciò mi farebbe soffrire tanto. E se dovesse addirittura scomparire (Dio non voglia!), forse ne potrei anche morire.

***


AD A., IN RICORDO DELLE NOSTRE PASSEGGIATE INVERNALI

Ricordi?... Era un gennaio di qualche anno fa, con giornate miti e soleggiate, come quelle che stiamo vivendo ora. Io e te trascorrevamo alcuni dei nostri pomeriggi insieme; partivamo in automobile ma poi, trovato un parcheggio adeguato, ci recavamo a piedi nelle piazzette piene di negozi. Erano, per me e forse anche per te, dei momenti di totale spensieratezza e di palpabile gioia. I nostri discorsi, a volte seri e altre volte superficiali, si interrompevano ogni qual volta mettevamo gli occhi su una vetrina che esponeva merci interessanti; allora eri tu che prendevi l'iniziativa e m'incitavi ad entrare anche quando ero più restio; andava da sé che, una volta dentro il negozio, qualcosa avremmo comperato. Così trascorrevano questi nostri pomeriggi, tra un discorso ed un altro, tra un negozio d'abbigliamento ed uno di articoli inconsueti (la tua passione per i piatti in ceramica!). Quindi, quando cominciava a calare la sera, tornavamo verso l'automobile, riempivamo il portabagagli di sacchetti e di scatole per poi ritornare alle nostre case. Spesso, prima di lasciarci, rimanevamo ancora un po' insieme - a casa tua o a casa mia - magari per commentare la buona qualità degl'indumenti appena acquistati e, nello stesso tempo, per gustare una bevanda calda. Cosa resta di quelle giorante così belle? Io le ho ancora nel mio cuore, e mi piace rievocarle, ma tu le ricordi ancora?... Ora sei molto lontana da me, e neppure potrei contattarti per chiedertelo; però ho l'impressione netta che tu le abbia già dimenticate. Se potessi chiamarti adesso, per domandarti se ti rammenti di quelle nostre giornate felici, probabilmente mi risponderesti che non ti vengono più in mente. Per questo motivo sono quasi contento di non poterti parlare - tanta sarebbe per me la delusione di avere una simile risposta -. Tu hai dimenticato tutto di me, ed io al contrario mi rifocillo l'anima ricordandoti: pensando al tuo viso sorridente, alla tua bellissima voce... alla tua persona che ritrovo soltanto nei sogni più belli. Per tutto ciò e per altro ancora, io oggi non posso che ringraziarti.


 

 

CAPITOLO XIX: ANIMALI

 

Si chiamava Tito il cane di mio nonno che non ho mai visto, perché morì parecchi anni prima che io nascessi, ma di cui ho ascoltato con interesse tanti e tanti aneddoti raccontatimi dai miei nonni e da mia madre. Non ho mai saputo, né ho mai chiesto il perché di questo nome: certamente inusuale oggi, per un cane. Tito era un volpino intelligentissimo, da come mi fu sempre descritto, amato alla follia da tutta la famiglia che allora si componeva dai miei nonni materni, da mia madre e da mio zio (questi ultimi erano i figli dei nonni). Tito era divenuto, ormai, a tutti gli effetti un membro della famiglia; si era meritato questo posto grazie al suo infinito affetto, alla simpatia che ispirava a tutti e al suo coraggio non comune. Mi disse mia madre che spesso, Tito partecipava ai giochi che faceva insieme al fratello ed a qualche altro ragazzino; in particolare, mi ripeteva spesso che, quando si giocava alla guerra, e si faceva finta di spararsi e di morire, Tito entrava nella parte in modo perfetto, e recitava il ruolo del "morto" come nessuno. Sempre mia madre (ma anche mio nonno), mi narrarono della volta in cui, disgraziatamente, Tito cadde nel Tevere; tutti lo davano ormai per spacciato quando, superando anche la forza della corrente, il cane cominciò a nuotare in direzione della riva dove si trovava mio nonno che, non appena lo vide avvicinarsi, gli porse un lungo ramo affinché vi si aggrappasse; Tito non indugiò a farlo e in breve tempo fu salvo, con grande sollievo di tutti i suoi affezionati amici. Qualcuno mi disse anche della sua estrema vergogna quando, nel periodo estivo, gli veniva tagliato il folto pelo per non fargli soffrire troppo il caldo; ebbene, come fosse un essere umano che prova pudore perché nudo, Tito, subito dopo la tosatura si nascondeva nei posti più segreti della casa dei miei nonni, e non rispondeva ai richiami accorati di chicchessia. Un altro aneddoto che mi raccontava spesso mio nonno, riguardava la sua bravura nel rintracciare le galline fuggite dal pollaio e la sua abilità nel farle ritornare al loro posto senza nemmeno toccarle. Ovviamente, quando arrivò il momento della sua fine fu una sofferenza atroce per tutta la famiglia, e mio nonno decise di non sostituirlo con nessun altro cane, proprio perché aveva patito troppo la sua dipartita.  

 

***

 

La mantide religiosa è un insetto molto comune in Italia. Ne feci la conoscenza già da bambino, e ne ebbi paura: sia per le sue dimensioni che per il suo aspetto; mi riferisco in modo particolare alle zampette seghettate, che l'animale tiene sospese (quasi in forma di preghiera da cui il nome) e che usa per bloccare la preda e, quindi, divorarla velocemente. Oltre a ciò, come molti già sapranno, la mantide femmina ha un comportamento a dir poco bizzarro: dopo l'accoppiamento divora il maschio senza pietà. Insomma, si può ben definire un "piccolo mostro" questo insetto dal bel colore verde che popola le nostre campagne.

 

***

 

Questa mattina, nella stanza dove di solito soggiorno, sono entrati due mosconi, a poca distanza di tempo l'uno dall'altro, e ho faticato non poco a scacciarli. D'estate succede facilmente che entrino, ma è altrettanto facile che riescano in pochi minuti ad uscire; questa volta, però , pareva non trovassero alcuna via d'uscita. Mentre cercavo di liberarmene, mi sono venute in mente anche le zanzare, che, sempre in questo periodo, m'infastidiscono di giorno e di notte. Allora ho provato a confrontare questi due insetti che nella stagione estiva s'intrufolano nelle case e molestano chi vorrebbe starsene tranquillo e in pace. Tra i due, il peggiore è senz'altro la zanzara, poiché la mosca infastidisce soprattutto a causa del suo ronzio, ma è difficile che si posi su un essere umano, e ancor più difficile che lo punga; quando lo fa, si sente un leggero fastidio o dolore nella parte punta, ma niente di più. La zanzara, invece, si aggira intorno a noi con il preciso intento di nutrirsi del nostro sangue: per lei, insomma, noi siamo una preda. Non appena sentiamo il suo riconoscibilissimo ronzio, non possiamo fare a meno di agitarci, e di provare a sopprimerla in ogni modo; essendo facile che nelle nostre stanze, dove magari dormiamo, ve ne siano diverse, ricorriamo ad alcuni espedienti ben noti per tenerle lontane, e spesso, questi rimedi sono efficaci. Un punto a svantaggio della mosca è il fatto che ama posarsi sopra gli escrementi, e pensandoci, quando la vediamo vicina a noi, viene istintivo scacciarla in ogni modo, con le buone o le cattive. Ricordo che mio padre era quasi terrorizzato dalle mosche, e certamente le riteneva più dannose e pericolose delle zanzare. Io, al contrario, ribadisco che quest'ultime siano di gran lunga peggiori; in particolare non sopporto di ritrovarmi punto da una di loro, e di vedermi velocemente crescere quel ponfo caratteristico del dopo puntura, che causa un prurito intenso, e che mi fa arrabbiare.

 

***

 

L'estate sarebbe una stagione bellissima se non ci fossero quegli interminabili periodi di caldo atroce (che, negli ultimi anni, sono divenuti sempre più lunghi e insopportabili) e, soprattutto, se non ci fossero in giro quegli insetti fastidiosissimi che vengono chiamati zanzare. Per quel che ricordo, da bambino riuscivo a tollerare abbastanza la loro immancabile presenza, anzi, a volte non mi accorgevo di loro; ma cogli anni, ho cominciato ad odiarle, in particolar modo dopo che mi avevano punto, e il prurito conseguente mi disturbava alquanto. I miei genitori usavano, nelle serate afose di estati lontane, degli zampironi nauseabondi, che pure sopportavo, poiché preferivo respirare quel puzzo piuttosto che essere circondato e punto dalle zanzare. Ma, in seguito, quegli incensi maleodoranti scomparvero dalle mura domestiche, in favore di altri marchingegni la cui funzione era emanare delle essenze di non so quale natura, che fossero repellenti per le zanzare; la cosa funzionava, ma visto che era necessario aereare i locali in cui l'emanazione di tali sostanze, dannose anche per l'uomo, avevano agito, succedeva quasi sempre che una o più zanzare entrassero non appena l'odore sgradevole fosse scemato. Anche l'uso di retine alle finestre risultò sempre o quasi inutile, visto che qualche zanzara riusciva comunque ad entrare in casa. Ci fu un periodo in cui, ragazzo, non sopportando minimamente la presenza di questi maledetti insetti nella mia stanza, di sera andavo alla loro caccia e, infallibilmente, riuscivo ad ucciderli tutti. Mi addormentavo tranquillo e soddisfatto, ma poi, però, quando capitava che mi svegliassi nel pieno della notte, magari a causa del caldo opprimente, mi ritrovavo puntualmente almeno un pomfo nato a seguito della puntura di una zanzara superstite che, al buio completo, mi sentivo ronzare intorno non ancora sazia del mio sangue. E le estati si sono susseguite, e sono trascorsi i decenni... Oggi, eccomi qui, immerso in un'ennesima estate afosa, che tento di proteggermi ricorrendo agli ultimi ritrovati, per subire il minor numero possibile di punture dalle zanzare, le quali, rispetto ai tempi passati, possono dirsi ancora più agguerrite e numerose (ci sono anche le famigerate "zanzare tigre"). L'ardua battaglia continua.

     

 ***


Guardando in TV un documentario che parlava delle formiche e non solo, mi sono tornati in mente alcuni divertimenti crudeli della mia infanzia, che avevano come protagonisti proprio questi piccoli e bellicosi insetti. Uno di essi consisteva nel prelevare una formica dal suo nido - o meglio dalle vicinanze di esso, in cui si aggirava ed era facilmente afferrabile - e abbandonarla nella fitta ragnatela di un migale, ovvero di un ragno piuttosto grande, che aveva fatto il suo nido all'interno di una fessura del muro di un palazzo del quartiere, dove io ed altri bambini di solito trascorrevamo le giornate estive a giocare. La povera formica, a quel punto, non aveva più scampo, ed io attendevo l'inesorabile arrivo dell'aracnide che, velocissimo, la ghermiva e indietreggiava, per poi subito scomparire all'interno di quel buco nero, per finirla e poi mangiarla. Ma a volte il divertimento era un altro, e vedeva le formichine cambiare ruolo: da vittime a carnefici; il gioco consisteva nel prelevare un maggiolino o un altro coleottero, per poi lasciarlo nelle vicinanze di un formicaio; i numerosi imenotteri lì presenti, non appena percepivano la presenza dell'intruso, si scagliavano contro di esso, mordendolo con le loro potenti mandibole; il malcapitato dapprima tentava la fuga, poi, vista l'impossibilità di allontanarsi, tentava di divincolarsi in qualche modo; ma i suoi movimenti andavano sempre più spegnendosi, fino a quando le formiche lo trasportavano all'interno del nido, probabilmente per mangiarselo. Questi divertimenti così crudeli, erano anche innocenti; non c'era infatti, alcuna consapevolezza, né tanto meno volontà di fare del male in queste azioni; si trattava semplicemente di un gioco come un altro, così come fa il gatto che si diverte con un topolino o con un piccolo volatile: lo agguanta, lo ferisce, e quindi lo uccide senza però mangiarselo, semplicemente per istinto e, in parte, per puro divertimento.  Così il bambino, nella sua totale ignoranza sui concetti di bene e di male, spesso fa quello che gli piace e non ci pensa più di tanto.


 

CAPITOLO XX: LA MUSICA

 

Da quel che mi ricordo, la musica classica cominciò a interessarmi quando avevo già compiuto quattordici anni. L'occasione di ascoltarla, arrivò dal ritrovamento in uno sgabuzzino, da parte di mio padre, di una valigetta che conteneva una trentina di dischi a 33 giri, avuti quando i miei genitori, negli anni '60, comperarono un'enciclopedia del Fratelli Fabbri Editori; questi dischi, mi fu detto, rappresentavano una sorta di omaggio per gli acquirenti. Avendo a disposizione un giradischi tutto mio, che mi era stato regalato da qualche mese, non ci misi molto ad ascoltare quei dischi che m'incuriosivano alquanto. Fu così che ebbi modo di conoscere ed apprezzare i grandi capolavori della musica classica; in quei dischi trovai frammenti musicali tratti da opere celeberrime, come Toccata e fuga in re minore per organo di Johann Sebastian Bach; Water Music di Georg Friederich Handel; Piccola Musica Notturna di Wolfgang Amadeus Mozart; Sinfonia n° 5 in do minore di Ludwig van Beethoven; La scala di seta di Gioacchino Rossini; Notturni di Franz Listz; Sinfonia n° 3 in fa maggiore di Johannes Brahms; Valzer dell'Imperatore di Johann Strauss Jr.; Sinfonia n° 6 in si minore di Piotr Ilijc Ciaikovski; Peer Gynt di Edvard Gieg e tanti altri. In breve tempo nacque in me una forte passione nei confronti della musica classica, e ascoltando alcuni brani musicali di quella vecchia collezione, spesso mi resi conto che già li avevo sentiti da qualche parte, magari in televisione. Ricordo che fui attratto perfino dai canti gregoriani, presenti nel primo dei dischi citati. Quella che amavo di più era la musica sinfonica, mentre la musica lirica, a parte qualche aria famosissima, non rientrava nei miei gusti. Una seconda occasione di ampliare le mie conoscenze in fatto di musica classica, la ebbi circa un anno dopo, allorquando notai, all'interno di un vecchio mobile che era situato nella casa dei miei nonni materni, la presenza di una ventina di dischi, ancora una volta 33 giri, quasi nascosti in un angoletto. Mi accorsi che, anch'essi, contenevano della musica classica, e quindi chiesi ai miei nonni di chi fossero e perché si trovassero lì. Mi fu detto che appartenevano a mio zio (il fratello di mia madre), che li aveva comperati quando ancora abitava coi genitori, e che li aveva abbandonati o dimenticati quando si sposò e traslocò in una nuova abitazione. Interessatissimo a quegli oggetti, subito tornai a importunare i miei nonni chiedendogli se potevo prenderli in prestito; mi fu risposto di sì, anche perché mio zio, probabilmente, neppure si ricordava che esistessero ancora. Un po' alla volta li portai a casa, e li ascoltai. Ce n'erano diversi di Fryderyk Chopin e di Antonio Vivaldi, e per la prima volta conobbi l'infinito talento di questi due musicisti che erano trascurati o poco rappresentati nel gruppo di dischi dell'enciclopedia di cui ho parlato. Del primo, ovviamente, mi piacquero i pezzi per pianoforte; del secondo i concerti barocchi, di cui ricordo bene quelli per flauto. La passione per la musica classica, dopo qualche anno, si affievolì, e quei dischi li ascoltai sempre più raramente. Soltanto alcuni anni dopo, in gioventù, tornò preponderante. La nuova occasione nacque dall'ascolto fortuito, in TV, di una melodia sublime, che conoscevo già vagamente, ma che soltanto in quel momento mi parve eccelsa. Feci le mie indagini al riguardo, e dopo un po' di tempo venni a sapere che si trattava del celebre Adagio di Tomaso Albinoni. Mi recai in un negozio di dischi al centro di Roma, e trovai quel brano in un doppio Compact Disc intitolato L'album classico più rilassante del mondo. Ascoltandolo, ebbi modo di apprezzare altri brani che, sebbene non mi fossero del tutto sconosciuti, avevo fino ad allora trascurato; per esempio Aria sulla IV corda di Johann Sebastian Bach; Canone in re di Johann Pachelbel; Il Cigno di Camille Saint-Saens; Pavane di Gabriel Fauré; Minuetto di Luigi Boccherini; Concerto per clarinetto K 622 (Adagio) di Wolfgang Amadeus Mozart; Intermezzo da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni; Concierto de Aranjuez (Adagio) di Joaquin Rodrigo; Adagio per archi dall'Opera 11° di Samuel Barber... Mi piacquero quasi tutti i frammenti inseriti in questo CD, ma mi accorsi di preferire quelli relativi al periodo barocco. Da allora iniziai a comprare altri CD di musica classica, quasi tutti rientranti nel periodo che va, all'incirca, dall'ultimo decennio del XVII secolo, al primo ventennio di quello successivo. Insomma, molti capolavori di Antonio Vivaldi, Johann Sebastian Bach, Georg Friederich Handel, Arcangelo Corelli, Aleesandro Marcello, Georg Philipp Telemann, Jean Philippe Rameau, François Couperin, Tomaso Albinoni, Henry Purcell ecc. L'oggetto più bello che acquistai in quel preciso periodo, fu un cofanetto con quattro CD della Deutsche Grammophon, intitolato Karajan • Barocco; ognuno dei CD conteneva capolavori dei grandi musicisti del periodo barocco eseguiti dalla Berliner Philarmoniker Orchestra, diretta dal grandissimo Herbert von Karajan. Col tempo, smisi di comperare dischi e ascoltai sempre di meno la musica classica; oggi mi succede di ascoltarla ancora, ma insieme ad altri generi musicali diversissimi fra loro; comunque non smetterò fino alla morte di ascoltare musica, poiché essa è, come disse un anonimo, il miglior antidepressivo che ci sia in circolazione.

 

***

 

Posso affermare che la musica leggera (o pop che dir si voglia) è sempre stata in casa mia. I miei primi ricordi al riguardo, forse appartengono ai primi anni '70, quando i miei acquistarono un mangiadischi di colore rosso, lasciandomi - purtroppo per loro - la libertà di usarlo. Dopo pochi mesi non funzionava già più, poiché io avevo l'abitudine di inserirvi anche tre o quattro dischi insieme. Le prime canzonette che io ricordi, le ascoltati tramite questo elettrodomestico obsoleto; ovviamente erano dei dischi a 45 giri, acquistati quasi tutti da mio padre - era evento molto raro che mia madre comperasse cose simili -. In particolare ricordo due o tre canzoni che erano diventate i miei tormentoni: Ma chi se ne importa di Gianni Morandi; E' tanto facile e Come sarebbe bello del Piccolo Coro dell'Antoniano (queste ultime due facevano parte di un unico disco). Poi, fu la televisione che mi diede nuove opportunità di ascoltare canzoni. Se penso alla metà degli anni '70, mi vengono in mente Mina, i Ricchi e Poveri, Marcella, Wess & Dori Ghezzi e altri ancora; alcuni di questi artisti cantavano le sigle iniziali o finali di trasmissioni serali della Rai. Il primo Festival di Sanremo che ricordo è quello del 1977: i miei avevano da poco acquistato un televisore a colori, e la più grande manifestazione canora d'Italia fu quindi un'occasione importante, che per la prima volta mi diede la possibilità di conoscere un discreto numero di complessi melodici, tra cui i Collage, i Santo California, gli Albatros e gli Homo Sapiens (questi ultimi vinsero la competizione di quell'anno). Nel 1978, durante l'estate, cominciai a nutrire un interesse maggiore nei confronti di questo mondo, avendo modo di ascoltare parecchie canzoni tramite le radio, i juke-box e la TV. Nell' estate seguente, ovvero quella del 1979, grazie ad una radiolina che mi fu regalata, passai tre mesi di vacanze con l'orecchio costantemente attaccato all'apparecchio radiofonico, ascoltando e riascoltando tutte le canzoni appena uscite. In autunno, chiesi ai miei genitori e a mia zia, che lavorava a Roma e passava tutti i giorni davanti ad un negozio di dischi, di comperare una lunga lista di 45 giri - quasi tutti quelli che avevo ascoltato durante l'estate e che mi erano maggiormente piaciuti -. In poco tempo mi ritrovai in casa un centinaio di dischi. Nel frattempo, per soddisfare la mia nuova mania, mio padre aveva rispolverato, prelevandolo da uno sgabuzzino, un suo vecchio giradischi ancora funzionante e un bauletto con i suoi vecchi 45 giri. Per me fu estremamente entusiasmante riscoprire famose canzoni dei primi anni '60, che amavo alternare coi miei dischi. L'anno successivo, mi fu regalato un giradischi nuovo, e allora andai io a comperare ulteriori dischi, in un negozio di Ostia Lido. A questo punto, però, la mia passione per la musica leggera andò calando, a vantaggio di quella per la musica classica. Ma, rimanendo nell'ambito della musica leggera, un secondo feeling lo vissi nell'immediato periodo seguente al servizio di leva; durante i dodici mesi in cui fui militare, nei tanti momenti morti, in cui non avevo nulla da fare, grazie ad una radio-cuffia donatami dai genitori, ricominciai ad ascoltare emittenti radiofoniche che trasmettevano canzoni su canzoni, e tornò in me l'interesse per la musica leggera. Questa volta però, mi appassionai alla musica d'autore italiana, e appena finito il militare, iniziai a comperare musicassette di Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Riccardo Cocciante e tanti altri ancora. Qualche mese prima del congedo, mi recai con mia madre in un negozio di elettrodomestici, e acquistai uno stereo. Grazie a questo apparecchio divenne cosa abituale per me ascoltare le musicassette; alcune di esse le acquistavo vuote e le riempivo registrando le canzoni che mi piacevano maggiormente mentre ascoltavo la radio; altre le comperavo nei negozi di dischi.  Ricordo che diventò mia abitudine andare a Roma due o tre volte al mese, quasi sempre alla Discoteca Laziale, situata nei pressi della Stazione Termini; lì avevo modo di trovare tutto ciò che cercavo. In pochi mesi mi ritrovai in casa le migliori canzoni dei cantautori degli anni '60 e '70. Questi due decenni divennero i soli ad attirare il mio interesse, e grazie all'uscita, sempre in quel periodo, di una collezione di successi chiamata Italian Graffiti, allargai le mie conoscenze, scoprendo numerose canzoni quasi dimenticate che, pur non ricordandole, avevo certamente già ascoltato chissà quando e dove. Quindi arrivò l'era del Compact Disc, e allora comperai un lettore e una serie di CD. Le canzonette dell'ultimo ventennio del Novecento, così come quelle del nuovo millennio, mi attirarono poco o nulla: per me esisteva e tutt'ora esiste soltanto il ventennio che parte dal 1960 e termina all'incirca col 1979. Secondo una mia personalissima convinzione, oggi ancor più di qualche anno fa, le canzoni del cuore hanno una stretta coincidenza con i migliori ricordi, ed i miei appartengono a quel ventennio, anche se tra le mie favorite ce ne sono alcune che uscirono prima che nascessi. Qualitativamente ritengo che, escluse poche eccezioni, il meglio della musica pop si possa circoscrivere all'interno di questo magico ventennio. Probabilmente la mia è una deformazione mentale, fatto sta che, se mi succede di ascoltare della musica pop, oggi ascolto quasi esclusivamente quella che rientra in tale lasso temporale. Il resto m'interessa di meno.

 

***

 

Rumori prolungati, rumori fastidiosi di automobili che passano, di clacson che suonano, di gente che grida e inveisce oppure ride sguaiatamente con l'orecchio appoggiato allo smartphone... Questo e soltanto questo oramai ascolto nelle strade delle città, dei paesi e di tutti i luoghi dove si ammassa l'umanità. In certe ore del giorno (la mattina presto, il pomeriggio o la notte fonda), per meglio che vada è possibile ascoltare il silenzio, interrotto soltanto da qualche canto di uccello o da un abbaiamento di cani. Ma di musiche non se ne sentono più, a parte dei tonfi ripetuti e disarmonici provenienti da qualche autoradio nelle vicinanze. Eppure, mi ricordo bene che alcuni decenni fa non era così; quanto era facile, allora, poter ascoltare, magari passando per qualche quartiere popolare in bici o a piedi, delle canzoni trasmesse da una radio presente in una stanza di chissà quale casa. Oppure, andando serenamente sui lungomare di qualche cittadina balneare, le canzonette dei juke-box: oggetti che erano, a quei tempi, assai utilizzati, e che ora sono soltanto anticaglie. Anche guardando la TV, in special modo nelle ore pomeridiane e serali, era scontato trovare qualche cantante in voga che aveva appena pubblicato un disco, e lo faceva ascoltare per promuoverlo. Ci furono una serie di trasmissioni dedicate proprio a questi artisti; tra le altre ben ricordo Senza Rete, Discoring, Piccolo slam, Popcorn... Così, le canzoni cadenzavano i ritmi dei mesi, delle stagioni, degli anni... Soprattutto in estate, accadeva che un certo periodo di tempo fosse ricordato per un particolare brano musicale o magari anche più di uno. Proprio nella bella stagione proliferavano poi svariate manifestazioni musicali, come, ad esempio, il celebre Festivalbar o Un disco per l'estate. Anche le emittenti radiofoniche organizzavano gare canore che coinvolgevano nomi più o meno famosi del panorama pop italiano; ricordo in particolar modo Radio Monte Carlo, all'epoca molto seguita dal sottoscritto, che trasmetteva, quasi ininterrottamente, canzoni su canzoni per tutta la giornata. Perfino nei canali radiofonici della Rai non era difficile ascoltare canzoni. Poi, gradatamente, tutto ciò è andato scomparendo, ed ora rimangono soltanto quegli spettrali rumori che ho inizialmente descritto: sintomo, a mio parere, di una società che vive tempi di grande rinnovamento tecnologico, ma, nel medesimo tempo, assiste a una progressiva scomparsa della vita semplice e spensierata. Rimane quindi una indicibile nostalgia per quei tempi ormai così lontani, quando, passeggiando d'estate sul lungomare di Senigallia, felice e contento, ascoltavo l'ultimo grande successo di Umberto Tozzi.  


*** 

Ascoltando una vecchia canzonetta mi son venuti in mente gli anni della mia prima gioventù, caratterizzati da una timidezza insormontabile, da una pressoché totale incomunicabilità con tutti gli esseri umani, da una chiusura al mondo e, di conseguenza, da una rinuncia alla vita. In quegli anni tormentati e solitari, ricordo che cominciai ad appassionarmi di musica leggera; in particolare fui attratto dai cantautori italiani degli anni '60 e '70. Alcuni di loro già li conoscevo bene, pur avendo ascoltato soltanto le loro canzoni più famose; altri li conoscevo assai meno ed altri ancora li ignoravo. Per esempio, conobbi Luigi Tenco in seguito ad un bellissimo servizio televisivo a lui dedicato, a cura di Enzo Biagi. Fu nell'autunno del 1988 che iniziai a recarmi nei negozi di dischi di Roma, e a comperare le musicassette con le canzoni dei miei cantautori preferiti. Ricordo che ne acquistavo anche quattro o cinque in una volta sola; poi tornavo a casa, ansioso di ascoltare quelle canzoni, i cui titoli mi facevano presupporre di non averle mai sentite neppure una volta. Quindi, nei giorni successivi, grazie al mio mangianastri potevo finalmente sfogarmi , rimanendo spesso incantato nell'ascoltare una o più canzoni che ignoravo e che trovavo semplicemente eccezionali. Ciò che mi attirava allora, era, seppur inconsciamente, la poesia;  ancora non mi ero appassionato a questo tipo di arte, ma mi attraevano le frasi di certe canzoni, che molto avevano a che fare con i versi. Oggi sono in molti a dire che un cantautore come Fabrizio De Andrè può essere definito "poeta"; ma già allora i cantautori italiani venivano definiti da alcuni critici musicali e non, i "poeti dei nostri tempi". Io li conobbi un po' in ritardo rispetto ai tempi in cui pubblicarono i loro dischi, ma ebbi comunque modo di innamorarmene. Mi piacevano molto sia le canzoni d'amore che quelle "impegnate", ma più di ogni altro tipo, m'interessavano quelle che esternavano un disagio esistenziale: soltanto in quelle io mi ci rispecchiavo; non di meno, mi deliziavo nell'ascoltare le musiche e i testi di canzoni fortemente caratterizzate da un timbro mistico: erano spesso dedicate ai santi oppure a Gesù, ed io, pur non credendo, vi trovavo una spiritualità fuori dal normale, decisamente attraente. Ancora oggi mi piace ascoltare quelle vecchie, bellissime canzoni. 



 

CAPITOLO XXI: IL NATALE

 

E sta per ritornare Natale, seguito, come sempre, dalle altre feste invernali che si protrarranno fino alla prima settimana dell'anno nuovo. Cosa dire di questi eventi che oramai, per me, ha ben poco senso? Ci sono sempre più persone - amici o colleghi di lavoro - che m'invitano a trascorrere le feste di Natale con loro. Di ciò sono contento, e devo ringraziarli per la loro grande generosità. Forse, anzi probabilmente, in molta gente che mi conosce, la mia attuale situazione suscita una sorta di compassione, per il semplice fatto che in questi giorni mi ritrovo sempre in completa solitudine; ma io non mi rattristo di questo, né mi compatisco: sono ormai abituato a trascorrere queste feste da solo. Aggiungo che non suscitano in me alcuna nostalgia, e non spero - come sento dire da molti - che passino al più presto; anzi, approfitto del loro arrivo per passare un po' di giorni in casa, a riposare. Succede anche, più raramente, che qualche amico mi chieda di venire insieme a lui, nei giorni che precedono la festa natalizia, per fargli compagnia e magari consigliarlo, quando, per forza di cose, deve visitare diversi negozi e acquistare determinati oggetti destinati a finire, impacchettati e infiocchettati, sotto il suo albero di Natale. Io accetto, anche se mal volentieri, perché ho sempre detestato il caos che si crea in questi giorni, dovuto alla tradizione natalizia del tutto consumista, che trascina miriadi di persone per le strade delle città in cerca di stupidi regali da impacchettare e da scartare la sera della vigilia (non mi riferisco a quelli destinati ai bambini, che sono sacrosanti). Detestavo anche, quando i miei erano vivi e in salute, quell'eccitazione che li spingeva a comperare oggetti e cibi in quantità astronomica, perché il Natale non poteva dirsi tale se non si facevano quei preparativi, se non si cucinavano quegli alimenti, se non si fosse celebrato in quel determinato modo. Oggi, quelle usanze mi sono totalmente estranee, e non festeggio una festa che per me, da molti anni ormai, è soltanto religiosa. Io considero fondamentale la figura di Gesù Cristo, ma dell'uomo Gesù, non del dio; il 25 dicembre si festeggia la nascita del figlio di Dio, che venne sulla Terra per salvare l'umanità. Tutto ciò che non è relativo a questo evento, non dovrebbe esistere. Nulla ha a che vedere con la natività di Gesù la figura leggendaria di Babbo Natale, l'albero e tutte quelle tradizioni pagane che girano intorno a questa festa senza un motivo valido, se non quello di spingere una massa enorme di persone verso spese pazze, vuoti festeggiamenti e mangiate abnormi.

 

***

 

In questi giorni che precedono la festa del Natale, mi succede spesso di ripensare ai miei natali lontani di trenta o quarant'anni fa. Allora avevo la netta impressione di far parte di una vera e solida famiglia. Ci si riuniva in tanti, a cominciare dalla sera della vigilia di Natale; poi ci si ritrovava il 25 dicembre, il giorno di Santo Stefano, la sera di San Silvestro e il Capodanno; era facile che ci trovassimo insieme anche in giorni non festivi, o se, tra una festa e l'altra, si frapponesse una domenica. La casa in ci riunivamo spesso era quella dei miei nonni materni, ma, sebbene più raramente, era possibile che, per festeggiare venisse scelta un'altra abitazione; in tal caso, quella dei miei genitori o quella delle mie zie erano le più probabili. I miei nonni materni erano sempre presenti, così come mia madre, mio padre, io e la famiglia del fratello di mia madre; poi, ma non sempre, si aggiungevano le mie zie - ovvero le sorelle e una nipote di mia nonna - e, ancor più raramente, i parenti stretti della moglie del fratello di mia madre; qualche volta sono stati con noi anche i miei nonni paterni e un fratello di mia nonna con la moglie. La sera del 24 dicembre rappresentava l'inizio delle celebrazioni festive: si arrivava alla spicciolata, ci si scambiavano gli auguri, si posizionavano i pacchi sotto il classico albero di Natale e, dopo un po' si mangiava a più non posso (ma la sera della vigilia tutte pietanze a base di pesce); quindi, dopo aver assaggiato i vari panettoni, torroni, pasticcini e le torte fatte in casa che non potavano mancare, iniziava il sacro rito dello scartamento dei pacchi, cui seguivano espressioni meravigliate e frasi piene di esclamativi, con ringraziamenti finali per i doni ricevuti e qualche battuta non sempre riuscita, sempre relativa al contenuto dei pacchi e alle persone che avevano ricevuto quegli oggetti in regalo. Trascorreva, forse, un'ora o poco più, per iniziare a digerire quel pasto pesante e per rendersi ben conto delle nuove, inutili cose che ognuno si era ritrovato fra le mani, quando qualcuno diceva: "Adesso è venuto il momento di giocare!" Ed ecco che subito spuntava il cartellone della tombola, con le cartelline, il sacchetto dei numerini e un altro sacco con dei fagioli mai utilizzati, che ci venivano utili per riempire le caselle dei numeri estratti sulle cartelle. Per almeno un paio d'ore si andava avanti con la tombola, e con le solite frasi fatte sui numeri. Ma una cosa so per certo: quasi tutti quei miei vecchi parenti non vedevano l'ora di finirla col gioco della tombola, per passare alle carte: il loro gioco preferito, che potevano praticare per ore ed ore, senza stancarsi. A quel punto, però, qualcuno si allontanava dal tavolo del gioco, ed il primo di costoro era mio padre, che non ha mai amato il gioco delle carte, tanto più se era abitudine fissa immettere e rischiare nel gioco del denaro, seppure fossero cifre non altissime. Sì, perché se a tombola si potavano perdere al massimo 500 £, alle carte era possibile tornare a casa con 20.000 £ in meno. Il classico gioco che si praticava a partire da quella sera e fino al Capodanno, era la Bestia; ed è il caso di dire che mai parola fu azzeccata per definirlo, poiché chi aveva la sfortuna di perdere poteva veramente imbestialirsi. Ma questo capitava, spesso, soltanto a mio zio, e non soltanto nei casi in cui avesse perduto delle somme di denaro consistenti, ma anche quando individuava delle persone che, pur partecipando al gioco, non rischiavano quasi nulla, limitandosi a perdere pochissimi soldi o, nel caso in cui si fossero trovati tra le mani delle carte imbattibili, vincere con facilità. Quanto a me, finché fui considerato un bambino non partecipai ai giochi con le carte, e quando mi permisero di partecipare, non mi appassionai mai più di tanto. Per questo, quando mio padre, ad una certa ora, m'invitava ad andare a messa con lui, ci andavo volentieri e lasciavo il tavolo dei giochi senza rimpianti; la stessa cosa non accadeva alla mia mamma: amante del gioco e infastidita, spesso, dalle continue sollecitazioni del mio papà, affinché si unisse a noi. Mai una volta riuscì a convincerla, rischiando anche di prendersi qualche rimbrotto; d'altra parte, a pensarci oggi, il babbo era veramente asfissiante nei suoi troppo insistenti inviti, e non voleva o non sapeva accettare il rifiuto della mamma. Si tornava a casa ben oltre la mezzanotte, e il giorno dopo, verso le 11 di mattina, si tornava alla casa dei nonni; lì c'era già mia zia che aiutava mia nonna a preparare i tortellini (noi li chiamavano cappelletti); giunta mia madre, si procedeva alla preparazione del ripieno di carne, che era assai elaborato; verso mezzogiorno o mezzogiorno e mezza, i tortellini erano pronti da cuocere, così come le cotolette e le patate; così si procedeva con la cottura del tutto, e prima delle 13, quasi sempre, eravamo già seduto a tavola, pronti a consumare quel ricco e appetitoso pranzo di Natale. Poi, ancora una volta, dopo nemmeno un'ora, si ricominciava a giocare. La tombola ancora era gradita, ma durava poco, perché la maggior parte dei giocatori, come ho già detto, amavano la Bestia ed altri giochi di carte. Si giocava fino allo sfinimento, e quello stanzone si riempiva di fumo, poiché erano tanti i miei parenti che avevano il vizio. Io, dopo un po', infastidito me ne andavo in un'altra stanza - quella che era stata di mio zio prima che si sposasse - e mi mettevo a guardare la TV. Arrivate le cosiddette ore piccole, qualcuno si alzava dalla sedia dicendo: "E' tardi: io vado a casa." Ed allora uno dopo l'altro si alzavano tutti, si rimettevano i soprabiti e si salutavano. E si arrivava alla fine dell'anno, con altre riunioni in cui era facile mancassero alcuni di coloro che erano presenti a Natale. I miei nonni, in tal caso, ci rimanevano molto male, ma comunque si stava insieme e si facevano i soliti giochi aspettando la mezzanotte per brindare al nuovo anno. Quindi c'era il pranzo di Capodanno, arricchito sempre e comunque da piatti particolarmente appetitosi; e se a Natale erano stati cucinati i cappelletti, a Capodanno era facile che si preparassero le lasagne o i cannelloni; se per Natale il secondo piatto era consistito in cotolette, era probabile che per Capodanno si sarebbe optato per il pollo o per l'abbacchio; e per finire, non potevano mai mancare i dolci natalizi, con le solite torte fatte in casa. Si stava insieme anche per la cena del primo dell'anno e, qualche volta, perfino per il pranzo del 2 gennaio. Poi finiva tutto, e l'Epifania era una festa soltanto per i bambini come me, che in qual mattino trovavo i regali già scartati sotto l'albero nel salone della mia casa, e poi, fatta colazione, mi recavo, in compagnia di mia madre o di mio padre, nelle case dei miei nonni e dei miei zii a ritirare il resto dei doni.

Forse perché sono passati già tanti anni, o forse per un altro motivo che non so comprendere, oggi, il ricordo di quei natali non mi procura più grandi emozioni, né malinconie, anche se rimane intatto.  

 

***

 

Non so se i bambini di oggi scrivono le letterine di Natale, ma so per certo che in Italia quarant'anni fa c'era ancora questa usanza. Presso l'istituto religioso, dove io frequentavo le scuole elementari, pochi giorni prima del santo Natale, la suora-maestra invitava tutti gli alunni a scrivere i propri pensieri sulla festività natalizia. In realtà c'era pochissima spontaneità in quelle parole: era infatti lei che praticamente dettava ciò che tutti avrebbero scritto, in modo più o meno simile, su quelle belle letterine illustrate destinate a finire sotto al piatto del genitore posto sulla tavola apparecchiata della cena della vigilia di Natale, che ogni anno, rigorosamente, si svolgeva in famiglia. Se si leggono oggi, quelle frasi certamente risultano banali e forzate, ma, al di là di questo, rappresentano uno degli elementi più tradizionali di una festività molto sentita a quei tempi, che a volte prendeva le peculiarità di un vero e proprio rito. Parte essenziale del rito era, in quella sera prenatalizia, la lettura, da parte di un genitore o del bambino, della immancabile letterina. Questa specie di recita andava fatta prima di mangiare e doveva essere ascoltata con attenzione da tutta la famiglia, i cui componenti spesso commentavano in modo scherzoso quelle paroline così colme di buone intenzioni. Ma la parte più bella della serata avveniva, naturalmente, dopo la cena, ovvero nel momento dello "scarto" dei pacchi-regalo posizionati sotto l'albero di Natale: pieni di insospettabili sorprese per i bimbi e di inesorabili delusioni per i grandi.

 

***

 

I miei familiari hanno sempre trascurato la tradizione del presepe, nei giorni in cui si avvicinava il Natale. Nella mia casa e in quelle dei miei parenti, non poteva mai mancare il classico albero (che fosse vero o finto non aveva importanza), mentre il presepe diveniva un optional; quando c'era, si trovava in un angoletto, ed era tutt'altro che attraente e curato. Eppure mio nonno era campano, ed è noto a tutti quanto sia importante da quelle parti il presepe, così come tutti gli oggettini e i personaggi che lo caratterizzano¹; direi che è, se non una religione, certamente un piccolo mondo a sé stante, bellissimo e variegatissimo. Anche in casa mia c'è sempre stato un piccolissimo presepe, quasi una miniatura che comunque comprendeva la presenza di molti personaggi tipici: i pastori, le pecorelle, i Re Magi ecc. Questo piccolo presepe è ancora qui, e proprio in questi giorni l'ho recuperato dal mio sgabuzzino per metterlo nella mia stanza; è quasi identico a come era quando lo comprammo, a parte qualche pezzo che è andato perduto e qualche casetta che non ha più la tettoia. Il guardarlo mi trasmette una tenerezza infinita, e mi fa ricordare della meraviglia iniziale che provai la prima volta che lo vidi. Anche se in casa era negletto, il presepe, nelle chiese della mia città, è sempre stato in primo piano. Per questo, ricordo, ogni volta che ci recavamo in chiesa nei giorni precedenti il Natale (ma anche in quelli seguenti), era imprescindibile la visita al presepe: sempre bello e particolare, come da tradizione cristiana; era d'uopo quindi fare dei commenti sullo stesso, che comunque erano tutti positivi ed esternavano sentimenti di emozione, meraviglia e perfino di amore. Inutile aggiungere che il presepe simboleggia la festa del Natale in modo molto più significativo dell'albero e di qualunque altro oggetto, poiché rappresenta l'evento della nascita di Gesù: motivo principale e fondamentale per cui si festeggia il 25 dicembre.

 

***

 

Domenica, 22 dicembre 2013, centro commerciale "Le Terrazze" di Casal Palocco, ore 12. Passando per questi posti si ha l'impressione che la miseria non ci sia: gente elegante che passeggia lietamente e spensieratamente, musiche accattivanti ricche di atmosfere natalizie, vetrine con articoli costosi, bancarelle con i prodotti più strani e disparati e un clima invernale sì, ma molto attenuato, con un bel sole che invita ad uscire da casa e tuffarsi nelle strade cittadine. Mi ricorda, questa giornata, una delle tante vissute nei non lontanissimi natali opulenti, quando, ancora giovane e ingenuo, avevo l'impressione che tutto andasse bene e questa fosse una società perfetta: la migliore possibile; e viverci dentro fosse una vera fortuna.

 

***

 

Amore, mancano ormai pochi giorni all'arrivo del Natale, ed oggi devo confessarti una mia insistente tristezza, che non vuole andarsene malgrado i miei sforzi. E' nata dal pensiero di questa festa che ormai da tempo non ha più alcun significato per me e, credo, nemmeno per te. Ricordi? ieri pomeriggio siamo usciti insieme, e ci siamo incamminati nelle illuminate vie del centro, a guardare le vetrine. Sì, vi erano esposte tante belle cose, circondate dai soliti addobbi natalizi, che a me, adesso, procurano soltanto un certo fastidio. Hai visto quanta gente c'era, che come noi è uscita ed ha calcato le stesse vie, ha osservato le stesse vetrine degli stessi negozi? Però, se allungavi l'occhio all'interno degli esercizi commerciali, notavi pochissime persone; segno evidente che la crisi qui da noi perdura, al di là di ciò che vogliono far credere i giornali o i politici. E anche noi, Amore, ci siamo limitati a guardare dall'esterno queste sfarzose vetrine, e a fare commenti sulla bellezza o sulla convenienza delle merci che vi erano esposte. Poi ci siamo seduti intorno ad un tavolino di un bar, e abbiamo bevuto il nostro caffé; quindi siamo tornati ognuno alla sua casa. Ed ora, che è passato soltanto un giorno dal nostro ultimo incontro, sento il bisogno di scriverti per farti sapere quanto mi manchi, Amore, e quanta tristezza mi dà il pensare alle imminenti feste. Sì, è vero: saremo insieme il giorno di Natale; io fra qualche giorno comprerò un regalo per te e tu farai lo stesso - ma certamente con più entusiasmo e partecipazione -; quindi, il 25 dicembre sarà l'occasione per scambiarsi i doni, abbracciarsi, baciarsi e augurarsi buon Natale. Certo, sarà di nuovo bello, ma fino a un certo punto. Poiché, Amore, sai bene che gli oggetti in quei piccoli pacchi infiocchettati sono le solite, inutili, insignificanti cose che ci regaliamo da anni, e che fra un anno non ricorderemo nemmeno più di esserci regalati; poiché tu sai bene, Amore, che i regali autentici, bellissimi e indimenticabili, li ricevono soltanto i bambini. Eppure, come ti ripeto, saremo lì, a celebrare questo rito che oramai non ha più senso né valore: che santifica solamente il consumismo più sfrenato. Sicuramente tu non penserai al vero significato del Natale, alla festa religiosa; non ci recheremo in chiesa ad assistere alla messa di Natale, e anche se lo facessimo, non proveremmo quell'emozione vera e sincera, che prova soltanto chi possiede una fede. Ma alla fine che c'importa, Amore, noi saremo insieme, ci faremo compagnia e anche questo Natale trascorrerà serenamente, e scomparirà, vicino a te, questa tristezza che oggi mi attanaglia. Poi arriverà il Capodanno, e infine l'Epifania... E allora cominceremo il nostro nuovo anno con ottimismo e speranza. Scriverti queste povere parole mi ha già sollevato: ora avverto di meno la malinconia. Spero che tu le abbia gradite e non ti siano sembrate noiose. A presto, Amore.

 

 

CAPITOLO XXII: LA SOLITUDINE

 

La solitudine ai tempi d'oggi viene spesso considerata come uno spauracchio, una iattura da evitare sempre e comunque; se qualcuno è solo, nel senso che vive senza una compagna o una moglie, è quasi commiserato, come se fosse un pover uomo da tutti rifiutato, derelitto e tristissimo. Evidentemente in molti non hanno capito che la solitudine non è così brutta e così devastante come si pensa. Per esempio, se si vive con una persona soltanto per non rimanere da soli, anche se a fatica si sopporta la compagnia di questa persona, è secondo me assai peggio che vivere in completa solitudine. Praticamente si attua una soluzione riparatoria in cui il rimedio non solo non è migliorativo, ma è peggiorativo rispetto alla situazione precedente, perchè, se la persona che prima in solitudine poteva provare un sentimento di noia o di tristezza, rimanendo in compagnia di un altro individuo che mal sopporta, sostituirà quelle sensazioni con altre ben più devastanti: lo stress, il fastidio, il nervosismo, l'incomprensione, la rabbia, la collera e l'ira; tutto questo col tempo, inevitabilmente porterà a continue liti, oppure a mancanza totale di dialogo e quindi, ancora una volta, alla solitudine, con la differenza che essere veramente soli significa anche possedere una estrema libertà di agire e di vivere secondo le proprie preferenze, mentre, essere in compagnia di una persona non gradita limita anche e soprattutto la libertà.

Ora, volendo analizzare alcune sagge frasi di illustri personaggi del passato cui non si può dire che fossero degli stupidi, si potrebbero trovare i tanti lati positivi della solitudine, ecco allora una serie di aforismi dove questa temuta parola è associata ad una virtù o comunque ad un'altra parola "positiva".

 

 1 - LA SOLITUDINE-FORZA

* Ogni uomo che si eleva si isola (Antoine Rivarol)

* Quell'istinto ispirato dall'alto che costituisce il genio non vive che nella indipendenza e nella solitudine (Ugo Foscolo)

* La solitudine è la sorte di tutti gli spiriti eminenti (Arthur Schopenhauer)

* La solitudine non è consigliabile a tutti, perchè bisogna essere forti per sopportarla e per agire da soli (Paul Gaugin)

* La solitudine è la suprema prova dell'umanità e della sovranità di un'anima (Gabriele D'Annunzio)

* La solitudine è la patria dei forti (Reine Malouin)

* Bisogna essere molto forti per amare la solitudine (Pier Paolo Pasolini)

 

 2 - LA SOLITUDINE-RIFUGIO

* Nel mondo non si ha molto di più, oltre la scelta tra la solitudine e la volgarità (Arthur Schopenhauer)

* All'uomo di grandi doti intellettuali la solitudine offre due vantaggi: anzitutto quello di stare con sé stesso, e, in secondo luogo, quello di non stare con gli altri (Arthur Schopenhauer)

* La solitudine è per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta (Carl Gustav Jung)

* Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)

* Nel tumulto degli uomini e degli avvenimenti, la solitudine era la mia tentazione. Adesso è la mia compagnia (Charles De Gaulle)

* Sono talmente appagato dalla solitudine che il minimo appuntamento è per me una crocifissione (Emil Cioran)

 

 3 - LA SOLITUDINE-RISORSA

* La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo (Seneca)

* La solitudine è la dieta dell'anima, disse sensatamente non so chi (Francesco Algarotti)

* È soprattutto nella solitudine che si sente il vantaggio di vivere con qualcuno che sappia pensare (Jean Jacques Rousseau)

* La solitudine è fonte di felicità e di tranquillità dell'animo (Arthur Schopenhauer)

* Non è mai solo chi è in compagnia di nobili pensieri (Arthur Schopenhauer)

* Chi non ama la solitudine non ama neppure la libertà, poichè soltanto quando si è soli si è liberi (Arthur Schopenhauer)

* Non ho mai trovato un compagno che mi facesse così buona compagnia come la solitudine (Henry David Thoreau)

* La vera felicità è impossibile senza la solitudine (Anton Checov)

* La solitudine fa maturare l'originalità, la bellezza strana e inquietante, la poesia (Thomas Mann)

* Vivo in quella solitudine che è penosa in gioventù, ma deliziosa negli anni della maturità (Albert Einstein)

* La nostra solitudine è la nostra nobiltà. La nostra solitudine è la nostra gioia (Alberto Savinio)

* Solo stando solo un uomo è libero, cioè è lui (Mario Tobino)

* La solitudine è una cosa senza la quale non si fa niente, senza la quale non si guarda più niente (Marguerite Duras)

* La solitudine è una condizione alla quale l'artista in genere è votato (Alberto Sughi)

* Più mi lasciano sola più splendo (Alda Merini)

* Attraverso l'esercizio della solitudine si coltiva la dignità (Fabrizio De Andrè)

 

 Concludendo, si potrebbe citare un famoso proverbio che dice: "Meglio soli che male accompagnati", infatti la mia non è una incitazione né un inno alla solitudine, poichè quest'ultima la considero come minore dei mali, e ritengo cosa giusta, anzi sacrosanta, coltivare le amicizie e i rapporti umani così come cercare una compagna giusta per passarci insieme una parte della vita, ma questa non deve diventare una ossessione; meglio rimanere da soli che avere amici che non sono amici, o frequentare persone con le quali non abbiamo niente in comune, o, ancor peggio, vivere insieme ad una persona che non amiamo, non stimiamo e con cui non dialoghiamo.

 

***

 

Una recentissima indagine dell'ISTAT ha fatto emergere una realtà non certo entusiasmante: l'Italia di oggi è composta in maggioranza da persone anziane e sole. Al di là delle riflessioni e dei possibili rimedi riguardanti questo dato di fatto deprimente e scomodo per la nostra nazione, voglio qui parlare della solitudine che, a quanto pare, coinvolge e forse coinvolgerà un numero non indifferente d'individui, soprattutto da una certa età in poi, ovvero nell'ultima parte dell'esistenza. I lati negativi della solitudine li conosciamo bene e sono tanti (alcuni di essi sono così dolorosi che molti individui la evitano come fosse una tremenda sciagura, a costo di vivere insieme a persone con le quali non c'è e non ci sarà mai alcuna affinità); quindi non dedicherò a questo argomento nessuna parola. Vi sono, a mio avviso, anche dei lati positivi nella solitudine, ed è su questi che mi vorrei un poco soffermare. Prima di tutto, chi vive da solo è più libero: può gestire le sue giornate come vuole, senza alcuna interferenza; può prendere qualsiasi decisione per conto proprio, senza dover interpellare nessuno; può organizzare la propria vita in completa indipendenza. Poi, il solo non ha preoccupazioni inerenti alla mancanza di amore, di affetto, di salute o di fedeltà che possono avere coloro i quali vivono in comunità. Il solo, inoltre, non litigherà mai con nessuno, escludendo che possa farlo con sé stesso, naturalmente. Il solo, in aggiunta, non si affliggerà mai per dover lasciare, in caso di morte, un'altra persona da sola. Allo stesso modo il solo, quando verrà il momento della dipartita, non lascerà strascichi di sofferenza, perché nessuno lo piangerà (quest'ultimo aspetto, può essere interpretato in maniera negativa, ma io penso che alla fine, se si può evitare di far soffrire delle persone, soprattutto se queste non meritano alcuna sofferenza, bisognerebbe esserne contenti). Il solo, infine, può essere orgoglioso di se stesso, perché è in grado di affrontare la solitudine senza troppi drammi, e riesce perciò a vivere la sua esistenza senza compagnie di sorta in modo tranquillo e beato. C'è poi da aggiungere qualcos'altro: chi si ritrova in uno stato di solitudine dopo aver perso una o più persone molto care, è come chi, ormai, non ha più nulla da perdere, e prova una palpabile sensazione di rilassamento e di dolce rassegnazione; quindi, per costui la solitudine è dolorosa fino ad un certo punto, dato che la sofferenza provata nel momento della perdita delle persone amate e a cui era particolarmente affezionato è imparagonabile a qualsiasi altra situazione difficile; ed anche il pensiero della morte, rispetto a ciò che si è provato, diviene piacevole. Per finire, ci tengo a precisare che il solitario non sta meglio di coloro che vivono assieme ad un'altra persona, ma è giusto e opportuno vivere da soli esclusivamente quando non è stato possibile, per motivi che possono essere i più svariati, trovare una compagnia adeguata, capace di annullare la solitudine grazie ad un'intesa, ad un amore o ad un'affinità tali da garantire una convivenza piacevole.

 

***

 

La solitudine è una compagna non facile da accettare, va metabolizzata con lentezza, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Anche quando si è praticamente certi di rimanere da soli per il resto della vita, ogni tanto è facile che si riaffacci una speranza, o meglio, un'illusione; la ricerca, forse inconscia, di una compagnia nasce dal fatto che l'uomo non è stato concepito per la vita in totale solitudine. Per rimanere da soli senza cadere mai in tentazioni di alcun genere, bisogna essere molto forti. Ma necessità fa virtù, e chi è costretto a vivere solo, trova dentro di sé le forze necessarie per farlo, tanto più se si accorge che, in fondo, ha sempre vissuto da solo, nel senso che, molto spesso, pur trovandosi in compagnia di altre persone, aveva la coscienza della propria solitudine, non attenuata minimamente dalla presenza di altri esseri umani; anzi, in determinate circostanze, questa coscienza era ancor più accentuata. Insomma, la solitudine non dà certamente la felicità, ma si può continuare a vivere anche da soli, nonostante qualche cedimento.

 

***

 

Forse la mia mente se ne sta andando chissà dove, fatto sta che ultimamente, la gran parte degli esseri umani mi appaiono sempre più come dei piccoli mostri, simili a démoni, che amano soltanto il vizio, la maldicenza, l'odio e l'egoismo. Essi corrono e corrono ogni giorno dietro ai loro luridi e sordidi vizi, divenendo quest'ultimi il solo scopo di vita; non hanno anima, e si ritengono i soli depositari della verità; sputano sugli altri le loro certezze basate sul nulla, insultano chi non la pensa o non vive come loro, odiano qualunque essere che reputano "diverso" e si preoccupano soltanto di assecondare i loro bassi istinti, fregandosene di tutto il resto. Sono attaccati in modo pauroso alla vita, e farebbero veramente qualsiasi cosa, anche la più abietta, per tenersela da conto; allo stesso modo dispregiano quella degli altri, e se invidiano qualcuno, gli augurano una morte preceduta da mille sofferenze; il fatto è che costoro invidiano e nello stesso tempo odiano fin troppi di individui o gruppi sociali, per motivi legati al denaro che posseggono e che loro invece non hanno, o perché li ritengono comunque troppo fortunati; altresì, una vigliaccheria istintiva li fa scagliare contro le minoranze: siano esse religiose, razziali o comportamentali; il bisogno interiore di prendersela con qualcuno perché si sentono insoddisfatti della loro esistenza, li spinge a prendere di mira i "deboli", perché gli riesce più facile e perché trovano, intorno a loro, tanti altri esseri abietti che lo fanno; in tal modo, gli riesce facile abbracciare i cosiddetti ideali della parte politica più schifosa, disposta anche a commettere crimini gravi in nome di un razzismo che ha ormai devastato i cervelli di troppe persone. Coloro che non hanno i difetti elencati, pretendono comunque d'imporsi sugli altri, perché la loro infondata sicurezza li porta a pensare che hanno capito tutto della vita; eccoli allora che ti spiattellano i loro pensieri superficiali, le loro usanze grette, e vorrebbero che anche gli altri seguissero i loro stili di vita; questi maestri del nulla amano alzare la voce, convinti che chi urla di più ha ragione, e tentano in ogni modo d'imporsi, sopraffacendo chi si comporta in modo gentile ed onesto. Quando ci penso, mi accorgo anche di essere stato sempre un ingenuo, perché l'umanità non è mai cambiata, dai tempi dell'uomo primitivo, e chiunque lo abbia pensato è soltanto un povero illuso. Insomma, più mi succede di frequentarne un essere umano di tal guisa (e, ahimé, ve ne sono migliaia e migliaia), più si accresce il mio desiderio di essere da solo. Per questo motivo mi succede di sovente d'implorare un Dio dei cieli al quale non credo, affinché possa aiutarmi, d'ora in avanti, ad amare la solitudine come unica madre, amica e sorella. Soltanto quando sono da solo, trovo la pace esteriore ed interiore; in tali momenti i miei pensieri ridivengono candidi, e tutto il nero che aveva ricoperto la mia anima, frequentando biechi esseri, in breve tempo scompare. Voglio rimanere in completa solitudine fino alla morte, e di conseguenza vorrei che sparisse definitivamente, in me, ogni desiderio di fare qualsivoglia conoscenza; di frequentare chicchessia. Io voglio la pace e non la guerra, per questo mi allontano sempre di più da un mondo che - ora ne ho la certezza - ambisce all'autodistruzione.

 

***

 

Alberto, da una decina di anni ormai, vive solo, nella sua vecchia casa. Unico animaletto che gli fa un po' di compagnia è un canarino, che ha comperato per ascoltarne il canto melodioso; e l'animaletto certamente lo accontenta, cantando quasi tutti i giorni, soprattutto al mattino. Ma è pur vero che Alberto raramente si trova in casa quando il suo uccellino canta; dalle otto del mattino, infatti, lavora in un ufficio, e rimane lì fino alle prime ore pomeridiane. Anche nell'ambiente di lavoro, si può ben dire che sia solo, visto che i colleghi difficilmente scambiano delle parole con lui, anche perché Alberto non si dimostra così disponibile a fare delle chiacchiere e, questo è sicuro, non ha alcun amico in quel luogo, dove soggiorna soltanto per portare a casa uno stipendio e per fare qualcosa. Non ha mai fatto carriera, non essendo capace di sgomitare e di digrignare i denti; oltretutto non conosce o non sa adottare quei comportamenti tipici degli opportunisti e dei ruffiani, che nel nostro paese spesso sono necessari per chi vuole ottenere risultati importanti. Allora si accontenta di svolgere le solite mansioni, e comunque, si è guadagnato la stima dei superiori, poiché la voglia di lavorare certamente non gli manca. La sua giornata, ormai da moltissimi anni, si è ridotta a poche cose: dopo aver svolto il suo lavoro quotidiano, torna nella sua abitazione e non esce più per il resto del giorno, tranne nelle occasioni rare in cui ha degli obblighi che non può declinare. In casa, spesso, si abbandona ai ricordi con un rimpianto incommensurabile. Delle volte, per far sì che questi ultimi riaffiorino, si aiuta guardando delle vecchie foto o ascoltando delle musiche ormai datate, ma comunque capaci di far riaffiorare in lui dei momenti felici. Come già detto, vive in completa solitudine da circa un decennio, ovvero dal momento in cui si è separato dalla sua compagna. Non ha voluto più cercare un'altra donna, sebbene non sia così vecchio, e si è isolato sempre di più, creandosi un mondo tutto suo, dove sopravvive nutrendosi del passato. Quando pensa al futuro, una specie di avvilimento lo sovrasta, e in quei momenti vorrebbe morire; ma non è capace di suicidarsi, forse per vigliaccheria, o perché l'istinto di sopravvivenza è in lui ancora prevalente. Più che altro, spera di morire durante il sonno: s'immagina di coricarsi alla sera, e non svegliarsi più al mattino seguente. Quando pensa alle persone care della sua vita, quasi sempre gli salgono le lacrime agli occhi, perché si fa sovrastare dalla commozione. Soltanto i libri e la musica lo aiutano, in qualche modo, ad allontanare momentaneamente pensieri tristi e melanconici. Quando riesce ad immergersi in una lettura, può dimenticarsi di tutto, e solo in quei precisi istanti gli è possibile anche ritrovare un entusiasmo imprevisto, un nuovo motivo per continuare a vivere. Sì, non sono poi molti i motivi per andare avanti, e tutte le speranze di una vita migliore sono ormai scomparse; rimangono delle piccole distrazioni e qualche ridicola soddisfazione. Teme di ammalarsi seriamente e di non potere più badare a sé stesso; ma questo timore non lo porta a prevenire una possibile situazione complicata; così, simili pensieri gli causano soltanto una preoccupazione sotterranea, che lo abbatte ancora di più. Evoca il sonno: unico periodo in cui può abbandonarsi al nulla, e quando sogna, rivede sempre le persone care; la cosa che conta di più, per lui, è il ritrovarle vive, malgrado nel sogno si renda conto che la loro presenza sia fittizia. Il tempo, a volte gli sembra che passi troppo lentamente, ma, in altri momenti, ha l'impressione che voli via come il vento.

Ed eccolo lì, Alberto, accomodatosi sul suo divano che guarda un film alla TV, con lo sguardo un po' assente e un po' triste... Chissà se sta seguendo la vicenda del film, o, magari, è ancora una volta immerso nei suoi inutili pensieri.

All'improvviso Alberto capta una voce misteriosa, che potrebbe essere la voce della sua anima, e che gli dice: «Su, Alberto, concentrati sul film oppure apri un libro, ma non pensarci troppo, ché la vita non si risolve coi pensieri, quindi cerca di far passare il resto dei tuoi giorni nel miglior modo possibile». 


***


 Invecchiando ti accorgi che per te, l'unica felicità ancora possibile, si può presentare soltanto nella solitudine. Soltanto quando sei solo hai la possibilità di esercitare pienamente la tua libertà di fare e di agire, così come quella di non fare e di non agire. Nella totale solitudine puoi fantasticare, sognare, immaginare qualsiasi cosa, purché tu riesca a concentrarti (in questo ti aiuta il silenzio assoluto). Soltanto quando sei solo riesci a creare mondi impossibili; riesci a vedere persone che non esistono più o che non sono mai esistite; riesci a sognare ad occhi aperti ciò che ti rimane ancora da poter sognare; riesci a vivere altrove, ad estraniarti completamente dalla dura e triste realtà. La solitudine ti è amica quando vuoi pensare a qualcosa di bello, che ti conforta; essa ti è amica quando non vuoi intrusione alcuna su ciò che fai, che pensi, che costruisci o distruggi. La solitudine può regalarti, insomma, una piccola felicità: l'unica che ormai ti è concessa. La presenza degli altri non ti permetterà mai di essere felice in alcun modo,soprattutto  quando raggiungi un'età più che matura, e ti è del tutto impossibile comprendere chi ti è accanto (troppo tardi per farlo), il quale, in sostanza diviene una presenza sgradita, da allontanare al più presto, per poter di nuovo assaporare la dolcezza della solitudine, sperando che essa possa accompagnarti fino al giorno della morte.  

 

 

CAPITOLO XXIII: I LIBRI

 

Tra i cari ricordi dell'infanzia un posto di primo piano meritano "I Quindici", un'enciclopedia per ragazzi che ebbe larga diffusione in Italia negli anni settanta e che anch'io ebbi la fortuna di leggere. Si tratta di quindici volumi dai dorsi e dai piatti colorati, ciascun volume è numerato e corrisponde ad argomenti precisi che spaziano dalla letteratura (per l'infanzia o per ragazzi), alla storia, dalla scienza all'artigianato elementare, dalla geografia agli usi e costumi fino all'ultimo libro che rappresenta una sorta di programma informativo ed educativo per far crescere nel modo migliore possibile i bambini. In verità i mitici Quindici non erano altro che la versione italiana di una famosa enciclopedia illustrata per ragazzi nata negli Stati Uniti e denominata "Childcraft" che risale addirittura agli anni trenta del XX secolo. Ecco i titoli dei quindici volumi con, per ciascun libro, una breve esplicazione degli argomenti trattati.

 

1. POESIE E RIME: Questo primo volume raccoglie molte poesie brevi e filastrocche dirette evidentemente al pubblico infantile, l'antologia attinge un po' ovunque; vi sono infatti testi di poeti italiani così come di scrittori provenienti da ogni parte del globo terrestre e da ogni epoca storica. Tra i poeti nostrani non mancano i nomi altisonanti di Giuseppe Ungaretti, Giovanni Pascoli e Aldo Palazzeschi, ma è senz'altro Gianni Rodari, illustre scrittore per l'infanzia scomparso nel 1980, che è presente in maniera più assidua.

2. RACCONTI E FIABE: Dopo il primo volume che voleva occuparsi della poesia ecco il secondo dedicato alla prosa e in particolare alle favole. Interessante è notare una variegata presenza di scrittori, compresi i favolisti greci (Esopo) e gl'italiani che rispondono ai nomi di Guido Gozzano, Italo Calvino, Antonio Baldini e l'immancabile Gianni Rodari. Naturalmente non sono esclusi i nomi dei favolisti più largamente noti come Andersen e i fratelli Grimm.

3. PERSONAGGI ITALIANI FAMOSI: Come si evince dal titolo questo volume è dedicato ad alcuni personaggi del nostro paese che si sono messi in luce in varie discipline divenendo spesso famosi in tutto il mondo. Tra gli altri si parla di Dante Alighieri, Marco Polo, Leonardo Da Vinci, Cristoforo Colombo, Galileo Galilei, Antonio Vivaldi, Alessandro Volta, Giuseppe Garibaldi, Fausto Coppi, Papa Giovanni XXIII e Gianni Agnelli.

4. PERSONAGGI STRANIERI FAMOSI: Dopo gl'italiani ecco il primo di due volumi che parlano di personaggi illustri (alcuni dei quali leggendari) provenienti dal resto del mondo; qui, tra gli altri, vi figurano i nomi di: Mosè, Omero, Rembrandt, Abraham Lincoln, Napoleone Bonaparte, Ludwig van Beethoven, Simon Bolivar, Louis Pasteur e Florence Nightingale.

5. PERSONAGGI STRANIERI FAMOSI: Nel secondo volume dedicato ai grandi stranieri di tutti i tempi compaiono (tra gli altri) i nomi di: Mark Twain, Ferdinand von Zeppelin, Thomas A. Edison, Robert Louis Stevenson, Maria Curie, , Mahatma Gandhi, Wiston Churchill, Albert Einstein, George Gershwin e Charles Lindbergh.

6. IL MONDO E LO SPAZIO: Questo volume, ottimamente illustrato con bei disegni e molte fotografie, intende dare ai ragazzi delle nozioni elementari di geografia astronomica; si può infatti capire con facilità, seguendo il testo che è scritto con parole semplicissime e che incoraggia il lettore a fare degli esperimenti pratici, cos'è un pianeta o una stella, perchè cade la pioggia, come nasce un corso d'acqua e tante altre cose interessanti.

7. LA VITA INTORNO A NOI: Così come il volume precedentemente descritto anche il settimo si struttura in modo da semplificare al massimo l'argomento trattato che, in questo caso, è la vita degli esseri appartenenti al regno di cui l'uomo stesso fa parte, quello animale. Particolarmente attraente fu per me la sezione dedicata ai dinosauri, giganteschi mostri scomparsi che sollecitarono la mia infantile fantasia, grazie anche alle belle illustrazioni di questo libro.

8. COME FUNZIONANO LE COSE: Questo è probabilmente il volume che tratta l'argomento più concreto di tutti: il funzionamento delle cose che ci circondano. Si parte dalla casa dove abitiamo parlando delle porte, dei rubinetti, dei caloriferi e ancora di come si preparano i cibi e del meccanismo che fa funzionare gli orologi. Si passa quindi alla sezione dedicata ai suoni e ai rumori (campane, sirene, megafoni, strumenti musicali); poi si parla di tutto ciò che riguarda la percezione dei nostri occhi: specchi, lenti, foto, cinema; si prosegue con l'elettricità e cose affini per concludere con gli strumenti di lavoro e con i mezzi di trasoprto (dai pattini alle astronavi).

9. COME SI FANNO LE COSE: È il volume che più si avvicina al sottotitolo dell'enciclopedia, il libro dei come e dei perchè: Come fa il dentifricio a entrare nel tubetto? Perchè le patatine si accartocciano? Perchè la carta inzuppata si disfa? Perchè vengono i lividi? Come si cuociono i mattoni? Da queste e tantissime altre domande inerenti gli argomenti più svariati si giunge alle risposte scritte in maniera semplice e precisa, al fine di insegnare ai ragazzi quanto lavoro e quanto ingegno richiedono le cose apparentemente semplici che tutti i giorni si trovano davanti ai loro occhi. Nell'ultima parte del libro c'è un accenno ai calcolatori che di lì a poco sarebbero stati sostituiti dagli attuali computers.

10. LUOGHI DA CONOSCERE: Qui si parla di luoghi del passato (o della fantasia), come le sette meraviglie del mondo antico, e del presente: sedi di governi, edifici religiosi, sepolcri, tombe, castelli incantati, città fantasma, città in rovina, isole sperdute, luoghi desertici, luoghi di mare, luoghi di montagna e ancora di più. Il tutto per permettere ai ragazzi di conoscere le innumerevoli civiltà che si sono susseguite nella storia dell'umanità e di apprezzare la gran quantità di bellezze paesaggistiche che non solo l'opera della natura ma anche quella umana è riuscita a creare sulla Terra.

11. FESTE E COSTUMI: Un proverbio famoso dice: "Paese che vai, usanze che trovi" e ben si addice all'argomento di questo decimo volume in cui sono descritte le usanze, i costumi, le feste e le tradizioni più importanti di molti paesi sparsi per tutto il mondo; in più il libro tratta di linguaggi universali, di simboli e di varie forme di culto.

12. COME LE COSE CAMBIANO: Per capire l'argomento di questo volume basta leggere i titoli di alcuni paragrafi del tipo: Dai palloni alle navi spaziali e: Dalle tavolette di argilla ai libri o ancora: Dalle fumate alla televisione; come è evidente si parla dei mutamenti che il progresso scientifico e tecnologico ha apportato nella vita degli esseri umani praticamente in tutti i campi.

13. COSA FANNO GLI UOMINI: È questo il volume dedicato ai mestieri e a tutti gli oggetti (dagli indumenti agli attrezzi, dai distintivi ai macchinari) che gli uomini usano di più per fare moltissimi lavori; sono veramente tante le attività lavorative descritte in questo libro, tanto che è difficile trovare una categoria non inclusa.

14. FARE E COSTRUIRE: Trattasi del volume che più di tutti spinge alla creatività ed è, probabilmente, anche il più apprezzato dai ragazzi che possedevano questa enciclopedia. Qui ci sono le istruzioni, corredate da figure e illustrazioni, per costruire barchette e aeroplanini di carta, castelli di cartone, per ottenere un colore desiderato, per dipingere con le dita, per creare dei mosaici, per modellare forme con la creta, per fabbricare dei mobili di legno e tanto altro ancora. C'è anche una parte dove è possibile imparare le regole di alcuni giochi famosi tra i quali: la patata bollente, la sedia che scotta, rimpiattino, tris ecc. Non mancano altri argomenti come ad esempio il collezionismo, la prestidigitazione e l'illusionismo, il tutto servendosi di poche cose facilmente reperibili e "povere".

15. VOI E IL VOSTRO BAMBINO: L'ultimo volume, che è anche il più consistente (416 pagine), è l'unico a non essere dedicato ai ragazzi bensì ai genitori; per quanto riguarda l'argomento trattato da questo libro l'ho già brevemente esposto all'inizio di questo post, aggiungo che fu questo il volume che ottenne maggior gradimento, soprattutto evidentemente da parte degli adulti, all'epoca forse poco informati riguardo le buone regole e gli appropriati consigli concernenti la crescita ottimale dei figli.

 

***

 

I libri, al tempo dell'infanzia, erano per me oggetti totalmente inutili o quasi. In quei lontani anni leggevo soltanto perché mi veniva imposto, ed erano quindi i libri scolastici quelli che sfogliavo maggiormente. Facevano eccezione alcuni volumi speciali che la mia famiglia aveva acquistato da poco tempo: l'intera collezione dei Quindici e l'Enciclopedia illustrata del mondo degli animali; tra i primi, prediligevo al massimo due o tre volumi: quello delle poesie e delle filastrocche, quello delle favole e un altro in cui si spiegava come costruire determinati oggetti semplici, adatti soprattutto al gioco; della seconda, che si componeva di sei volumi totali, mi interessavano soltanto le illustrazioni, che erano moltissime e, per me, interessantissime, visto che mi permettevano di conoscere una quantità cospicua di animali mai visti prima. Ma, se si parla di libri veri e propri, devo ammettere che non ne fui mai interessato, né in quel preciso periodo, né in quelli successivi dell'adolescenza e della prima gioventù. Quando i miei mi regalarono una serie di libri per ragazzi, tra i quali ricordo: La capanna dello zio Tom, I ragazzi della via Paal, I figli del capitano Grant e Pattini d'argento, nemmeno iniziai a leggerne le prime pagine; fece eccezione Zanna bianca di Jack London, che lessi per un po' di tempo (senza portare a termine la lettura), anche perché in quel periodo seguivo in TV una serie intitolata Il grande Nord, ispirata ad un'opera di London, che in parte mi pareva somigliasse alla storia raccontata nel libro citato. Per il resto, non lessi mai, neppure le favole più famose di Andersen o dei fratelli Grimm; tutt'al più, relativamente alle fiabe, mi limitavo ad ascoltare i dischi che allora mi venivano regalati in discreta quantità. Però, come tutti i bambini e tutti i ragazzi, leggevo tantissimi giornalini a fumetti. La poesia, sempre ai tempi dell'infanzia, era per me una scocciatura e nulla più, in special modo nei casi in cui dovevo imparare a memoria dei versi per poi recitarli davanti alla maestra (e non furono pochi i brutti voti che rimediai per la mia scarsa capacità di memorizzarli). Per quel che ricordo, incominciai ad apprezzare delle poesie quando frequentai le scuole medie inferiori. Furono in particolare le più note di Giacomo Leopardi a suscitare la mia attenzione; ma più che per il "pessimismo cosmico", rimasi favorevolmente impressionato dalle immagini idilliache di certi componimenti come Il sabato del villaggio o La quiete dopo la tempesta. Solamente alcuni anni dopo approfondii la conoscenza dell'opera poetica pascoliana, rimanendone molto entusiasta. Mi piacque anche qualche cosa di Carducci; per il resto non ricordo altro. La prosa, invece, continuò a rimanermi indifferente, anche quando mia madre mi regalò l'intera collezione della Biblioteca Giovani pubblicata dalla Einaudi: 50 libri di narrativa che comprendeva opere famosissime. Di quel nutrito gruppo di volumi riuscii a leggere soltanto A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia e La metamorfosi e altri racconti di Franz Kafka (quest'ultimo non lo lessi interamente). Quando provai a leggere qualche altro romanzo, probabilmente scelsi un autore "sbagliato": uno, cioè, che seppure ebbe fama, non rientrava decisamente nei miei gusti d'allora (e nemmeno in quelli di oggi). Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello è stato un altro libro in prosa che riuscii a terminare, anche se non mi fece impazzire; portai a compimento anche la lettura de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, e Uomini e topi di John Steinback: erano, questi, alcuni tra i libri di mia madre che facilmente trovavo in casa, e che mi sforzavo di leggere per una sorta di vergogna da me provata, non avendo mai dimostrato particolare interesse per la lettura e venendo rimproverato per questo dai miei. In seguito, tornai di tanto in tanto a legge romanzi o opere in prosa; tra quelli che più mi piacquero ricordo Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, Esame di coscienza di un letterato di Ettore Serra, Il mio Carso di Scipio Slataper, Tre croci e Ricordi di un impiegato di Federigo Tozzi, Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, Il mestiere di vivere di Cesare Pavese, Il diario di Anne Frank, La storia di Elsa Morante e Cronaca familiare di Vasco Prartolini; quindi mi appassionai di certi romanzi di Dino Buzzati come Il segreto del bosco vecchio e Il deserto dei tartari: questi due, ricordo che li lessi in pochissimi giorni, non faticando minimamente, anzi entusiasmandomi durante la lettura. Ma il romanzo che mi esaltò maggiormente, e ancora oggi, di tanto in tanto, mi piace rileggere, è Bruges la morta di Georges Rodenbach, soprattutto per i luoghi e le atmosfere uniche in cui si svolge la vicenda del libro. Come ho già spiegato, l'interesse quasi morboso nei confronti della poesia italiana del Novecento nacque in me nei primi anni '90 del XX secolo. Da allora i libri di versi sono il mio pane e, forse, la mia droga. La prosa, malgrado rivesta un'importanza superiore rispetto a qualche tempo fa, occupa sempre un ruolo marginale.

 

***

 

Vera e propria "bibbia" degli appassionati di calcio, l'Almanacco Illustrato della Panini di Modena tanti anni fa diventò importantissimo anche per me. Iniziai a comperarlo nel 1980 e cogli anni, richiedendo anche alcune copie arretrate, ne collezionai una ventina. Il motivo che ha reso famoso l'Almanacco, così come le figurine e l'album della Panini, risiede secondo me nella certosina precisione e completezza delle notizie che vi compaiono. Ecco di seguito, per meglio capire l'essenza del libro, un elenco di tutte le informazioni che era (e forse è ancora) possibile rintracciare nel celebre Almanacco.

 

Parte I: STRUTTURA ED ATTIVITÀ DEL CALCIO ITALIANO

 ORGANIZZAZIONE DELLA F.I.G.C.

SCHEDE PERSONALI DEI PROTAGONISTI DELLA STAGIONE CALCISTICA DI SERIE A E B (schede dei calciatori che comprendono i dati biografici e fisici, i ruoli e la storia di ciascun giocatore di A e di B).

CAMPIONATO DI SERIE A (libro d'oro, storia dei campionati passati, classifica e tutte le statistiche riguardanti l'ultimo campionato conclusosi, rose delle squadre del campionato in corso e calendario dello stesso).

CAMPIONATO «PRIMAVERA».

CAMPIONATO DI SERIE B (le edizioni passate con promozioni e retrocessioni, classifica e statistiche dell'ultimo campionato conclusosi, rose delle squadre del campionato in corso e calendario dello stesso).

COPPA ITALIA (libro d'oro, statistiche dell'ultima edizione conclusasi, notizie sull'edizione in corso).

CAMPIONATO SERIE C (promozioni e retrocessioni degli ultimi 25 anni, classifiche e statistiche degli ultimi campionati conclusisi, rose delle squadre e notizie sui campionati in corso).

COPPA ITALIA DI SERIE C.

CAMPIONATO INTERREGIONALE.

INFORMAZIONI GENERALI.

 

Parte II: ATTIVITÀ  INTERNAZIONALE DEGLI «AZZURRI» E DELLE SOCIETÀ

 CRONOLOGIE E STATISTICHE DELLE SQUADRE NAZIONALI

ITALIA A (gare della stagione appena conclusasi, cronologia di tutte le gare dal 1910, bilancio schematico, programma della nuova stagione, commissioni e commissari).

ITALIA B (gare della stagione appena conclusasi, cronologia di tutte le gare dal 1927, bilancio schematico, programma della nuova stagione).

ITALIA GIOVANILE «UNDER 21» (gare della stagione appena conclusasi, cronologia di tutte le gare dal 1942, bilancio schematico, programma della nuova stagione).

BILANCIO GENERALE (stato di servizio, capitani «azzurri», «alfieri», cannonieri, «oriundi», patrecipazione delle società).

ITALIA JUNIORES (gare della stagione appena conclusasi, programma della nuova stagione).

ITALIA «UNDER 16» (gare della stagione appena conclusasi, programma della nuova stagione).

CRONOLOGIE E NOTIZIE SULLE «RAPPRESENTATIVE»

 

ORGANIZZAZIONE DEL CALCIO INTERNAZIONALE

COMPETIZIONI PER SQUADRE NAZIONALI (Olimpiadi calcistiche, Campionato del mondo, Campionato europeo ecc.)

COMPETIZIONI PER SQUADRE DI SOCIETÀ (risultati, tabellini e statistiche delle squadre italiane impegnate in coppe europee nella stagione appena conclusasi, libri d'oro delle competizioni europee per squadre di società, storia e statistiche delle ultime edizioni delle stesse, storia delle competizioni mondiali per squadre di società, storia e statistiche delle ultime edizioni delle stesse).

 

 

CAPITOLO XXIV: ALTRE COSE

 

Come ha perduto d'importanza, nella mia vita, la televisione! La guardo ancora, nella seconda parte della giornata e alla sera, ma in modo molto distratto. Ormai da quasi due anni, mi sintonizzo su uno di quei canali che propinano notizie a go go, 24 ore su 24, e non mi viene quasi mai voglia di cercare altro; qualche rara volta, cambio canale per seguire un evento sportivo particolarmente importante, ma alla fine non lo seguo più di tanto, e in breve tempo ritorno sul mio canale preferito. Evito accuratamente di seguire certe trasmissioni, che pure erano per me appuntamenti fissi fino a poco tempo fa; il motivo risiede nel fatto che, se facessi questo, nascerebbe in me una sottile e subdola sofferenza. Ormai, guardando questo canale di cui ho accennato, ho conosciuto un po' tutti i giornalisti e le giornaliste che ci lavorano; sono rimasto colpito in particolare da quest'ultime, alcune delle quali sono anche belle e brave, e mi sorprende sia il fatto che prima non le conoscessi, sia la loro assenza dalle emittenti più importanti. A parte ciò, come dicevo, la TV di oggi per me ha un'importanza marginale, e quasi ne potrei fare a meno, se non fosse che, assecondando una lunga abitudine personale e pure famigliare, non rinuncio ad accenderla ogni giorno, alla stessa ora, come ho sempre fatto e come fecero sempre o quasi i miei genitori e i miei nonni. E certamente, in passato, la televisione ha avuto un posto di rilievo nella mia esistenza. Quando nacqui già, nella casa dei miei, c'era un apparecchio televisivo; me lo ricordo ancora: un Westinghouse in bianco e nero, a forma di cassettone, in cui era possibile vedere soltanto i due primi canali della Rai. I programmi, allora (i miei primi ricordi risalgono al 1974 o giù di lì), iniziavano nel pomeriggio. Accendevamo la TV pochi minuti prima dell'inizio delle trasmissioni, quando ancora si poteva vedere soltanto il monoscopio; quindi assistevamo al solenne annuncio che inaugurava la giornata televisiva e poi, cosa graditissima per me, c'era la TV dei ragazzi, che spesso mi offriva la possibilità di sollazzarmi con dei cartoni animati (tra i miei preferiti c'erano quelli di Gatto Silvestro e di Willy Coyote); poi, nella fascia pre-serale, venivano trasmessi dei telefilm (famose alcune serie come quella fantascientifica intitolata UFO), e infine, puntualmente alle ore 20, c'era il telegiornale. Per me, allora, la giornata televisiva si concludeva verso le 20 e 30, quando ero obbligato ad andare a letto. Ma anno dopo anno, i miei mi consentirono di vedere la TV anche durante la sera, e così divennero celebri anche per me quei personaggi che in quegli anni attiravano maggiormente l'attenzione del pubblico del piccolo schermo: presentatori come Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo; giornalisti come Mario Pastore, Paolo Frajese e Tito Stagno; comici come Raimondo Vianello, Gino Bramieri, Cochi e Renato; soubrette come Sandra Mondaini, Raffaella Carrà e Loretta Goggi; imitatori come Alighiero Noschese, cantanti come Mina, Adriano Celentano e Gianni Morandi... Feci in tempo anche a vedere gli ultimi anni di Carosello: una trasmissione che seguiva il TG serale, in cui si faceva della pubblicità cercando, nel medesimo tempo, di intrattenere il pubblico di tutte le età (c'erano anche dei cartoni). A pensarci oggi, quella televisione è stata, per me, la più bella. Dal 1977 si diffusero in breve tempo i televisori a colori, e anche la mia famiglia ne acquistò uno: un Philips (il primo di una lunga serie) senza telecomando. La novità fu, almeno per quel che mi riguarda, sensazionale; ricordo che inizialmente, non erano molti i programmi a colori trasmessi dalla Rai, ma , proprio in quel periodo, erano nate o stavano per nascere numerose emittenti private regionali (ricordo, tra le altre, GBR, PTS e Videouno), che si andavano ad aggiungere a quei pochi canali esteri già visibili (Capodistria, Tele Monte Carlo e Antenne 2), le quali trasmettevano tutta una serie di programmi artigianali di fattura grossolana e un infinito numero di film, la cui gran parte era di scarso livello e vi primeggiavano quelli del genere horror ed erotico. Anche quella fase pionieristica del colore in TV è ben presente nei miei ricordi: ho ancora ben impressi nella mente i primi incontri di calcio della Nazionale, le prime gare di Formula Uno, i primi Festival di Sanremo, i primi varietà e i primi cartoni animati (in particolare quelli di Supergulp) trasmessi a colori; era, come si suole dire, tutta un'altra cosa rispetto al triste bianco e nero che per anni e anni aveva dominato lo schermo di tutti gli apparecchi televisivi italiani. Ma l'aspetto morboso del mio rapporto con la TV è arrivato qualche anno dopo, cioè quando, adolescente, mi fu regalato un televisore Nordmende neppure tanto piccolo, che un giorno trovai con mia grande sorpresa nella mia camera, a mia disposizione ogni volta che lo volessi guardare. Ed erano anche gli anni in cui la televisione si era ormai trasformata decisamente: erano nati i canali nazionali privati, trai quali Canale 5, Rete 4 e Pin; le trasmissioni iniziavano già dalla mattina e, di lì a poco, alcuni canali avrebbero cominciato a trasmettere ininterrottamente, per tutto il giorno e tutta la notte... In quegli anni, è inutile dire che la TV era divenuta, nella mia vita, qualcosa di cui mi era difficile fare a meno; eppure dovetti farlo, quando fui costretto a partire per il servizio di leva. Ma finito quell'anno di sofferenza, tornai di nuovo ad ubriacarmi di TV, per anni e anni. Oggi, sono cambiate molte, troppe cose, e quell'oggetto così ingombrante, così chiassoso, mi appare sempre più inutile. Forse, arriverà presto il giorno in cui non troverò più necessario usarlo, e rimarrà come un soprammobile o come un ricordo di ciò che fu: un oggetto sopravvalutato di cui sarebbe meglio fare a meno.

 

***

 

Sono sempre di più coloro che snobbano giornali e telegiornali, affermando che sono troppo di parte e che le loro notizie sono falsate da una particolare tendenza politica, o che comunque subiscono la pesante influenza dei loro editori, anch'essi coinvolti nella politica. Costoro dicono di informarsi attingendo le notizie direttamente dal web; in verità non so bene come facciano, e dove trovino i siti che ritengono imparziali e veritieri. Io continuo a seguire i telegiornali della Rai e, in alternativa, a visitare la pagina dell'Ansa presente nella rete. Rispetto quelli che s'informano in maniera diversa dalla mia, ma penso che io non riuscirei mai a seguirli, tanto mi sembra, il loro metodo, strano e impossibile da applicare.

 

***

 

Se c'è un'automobile a cui sono maggiormente affezionato, perché fa parte dei miei migliori ricordi, questa è senz'altro la Fiat 850. I miei genitori la acquistarono nel 1965 o nel 1966 - di ciò non sono certo - e scelsero un modello color avana, che allora, probabilmente, era il più richiesto. In seguito nel giro di pochi anni, tutti i componenti della famiglia di mia madre decise di comperare una Fiat 850. Ho saputo che questa macchina ebbe il suo periodo d'oro tra il 1964 e il 1971, ovvero tra la fine del boom economico e l'inizio della cosiddetta austerity; coprì un vuoto compreso tra la piccola cilindrata della 600 e la media del 110. Una sua caratteristica, che divenne sempre più rara negli anni seguenti, era possedere il motore nella parte posteriore e il portabagagli in quella anteriore. Ricordo che, sempre in quegli anni, i miei mi comperarono un modellino color cremisi della mitica Fiat 850; inutile dire che divenne subito uno dei mie giocattoli preferiti. Per i miei fu la prima automobile, e venne sempre guidata da mia madre, visto che mio padre inizialmente non aveva ancora preso la patente e poi, anche quando la prese, non volle mai guidare alcun mezzo. La tenemmo, se non vado errato, fino al 1974: anno in cui fu sostituita da una Fiat 128. La vendemmo ad un conoscente, che decise immediatamente di cambiargli colore, optando per uno stravagante verde oliva; per un po' di tempo la vidi ancora circolare per le strade di Ostia Antica, poi la persi per sempre di vista.

 

***

 

Quant'era bello e semplice l'album da disegno delle scuole elementari! Con una copertina coloratissima e con poche pagine a quadretti al suo interno, si presentava il mio album da disegno della 2° elementare. Dopo le pagine dei quaderni riempite di bastoncini, di vocali e di consonanti, finalmente era possibile liberare la propria fantasia e disegnare un albero, un uccello, il sole, le casette... e perfino Gesù bambino!

Il tema dei disegnini, che venivano eseguiti sempre a scuola, era suggerito dall'insegnante, e potevano riguardare stagioni, ricorrenze e festività come l'autunno, il giorno della commemorazione dei defunti, la giornata del risparmio, il Natale, il carnevale; ma era possibile che il disegno fosse incentrato su un frutto stagionale o su un simpatico animaletto. Alla fine dell'anno scolastico le pagine dell'album erano piene di colorati disegnini, e non restava che portarseli a casa per conservarli quale prezioso, indelebile ricordo di un'età felice.

 

***

 

Saint Honoré, Charlotte, Profitterol, Mimosa: questi erano i nomi delle torte comperate dai miei genitori nel giorno del mio compleanno, e sopra di esse non potevano mancare le colorate candeline accese che bisognava spegnere in un solo, potentissimo soffio, tra gli incoraggiamenti di coloro che mi circondavano. Lontani e pur nitidi sono oggi i ricordi di quegli anni e di quei dolci mangiati con inesprimibile golosità. La tradizione della torta di compleanno e delle candele poste sopra di essa è antichissima. Nel Medioevo in Germania si usava festeggiare il compleanno di una persona, adulto o bambino che fosse, cercando di illuminare il luogo del festeggiamento con il maggior numero di luci a disposizione (candele, torce, lampade), questo, secondo una credenza popolare, era necessario per allontanare gli spiriti maligni coi loro malefici. Inutile dire che, nella tradizionale torta per il compleanno dei bambini, le candeline stanno a simboleggiare gli anni dell'infante.

Per quanto riguarda l'aspetto gastronomico della festa di compleanno, furono gli Egizi i primi a instaurare la tradizione del buon cibo, preparato però solamente quando il festeggiato era il faraone. Furono quindi i Persiani a introdurre l'uso dei dolci e poi i Greci che, in occasione della festa di Artemide, dea della Luna, preparavano una torta di miele e farina dalla forma di cerchio e di colore bianco; su di essa posizionavano delle candele accese affinché potesse assomigliare proprio ad una splendente luna piena.

 

***

 

Posso affermare con assoluta certezza che, dal giorno in cui nacqui, sulla tavola della mia casa, a pranzo come a cena, c'è sempre stata della frutta in quantità elevata. Io, così come i miei familiari, ne sono stato sempre goloso: da bambino ne consumavo a bizzeffe, e in più bevevo almeno un succo di frutta al giorno, specialmente durante l'estate.

Il mio nonno materno ha sempre avuto l'anima del contadino - sebbene abbia dovuto fare un lavoro ben diverso - e non smise mai di coltivare un orticello, dove le piante da frutta dominavano su tutte le altre; ogni sera, quando ritornava a casa, usava portare con sé i frutti di stagione appena raccolti, donandone parecchi alla mia famiglia. Quante albicocche, pesche, susine, fragole e fichi che provenivano dall'orto di mio nonno ho mangiato! I fichi poi, li preferivo di gran lunga, e ogni qual volta mio nonno me ne coglieva uno, magari da un ramo che era assolutamente inaccessibile per me, che ero ancora piccolino, era una festa.

Mio padre divorava frutta a più non posso tutti i giorni; si recava quotidianamente in una frutteria e comperava almeno due grandi buste colme di frutti, per poi caricarsele sulla bicicletta e tornare a casa. Tutta quella frutta che portava in casa, ovviamente, non era soltanto per lui, e allora sia io che mia madre ne mangiavamo a pranzo, merenda e cena. D'estate, tutte le volte che andavamo al mare, tappa imprescindibile, al ritorno, era un cocomeraio, dove, sempre il mio papà, acquistava un grosso cocomero e almeno un melone: li avremmo mangiati a pranzo e a cena il giorno stesso.

Anche il mio nonno paterno, che risiedeva in Senigallia, era rimasto contadino, pur svolgendo lavori che non avevano nulla a che fare con l'agricoltura; anche lui aveva un orticello con tante piante di frutta, e quando io e i miei genitori, verso la fine dell'estate, gli facevamo visita, non mancava mai di farci assaggiare la sua frutta, come al solito in gran quantità.

Ora, tutte queste persone non esistono più. Però non per questo io ho rinunciato a mangiare della frutta: ogni volta che mi reco al supermercato ne compro a chili, e in special modo d'estate, ne mangio per tutto il giorno.

Dopo i dolci e la pasta asciutta, in una personale classifica dei cibi preferiti, porrei sicuramente l'amata frutta.

 

***

 

"Ridi, ridi, che mamma ha fatto i gnocchi"... Questa frase riporta un detto romano piuttosto famoso, che intende ridicolizzare chi mostra una ingiustificata e inopportuna allegria. Forse nasce dal fatto che, una volta, i bambini della capitale italiana, alla notizia che la loro madre aveva preparato gli gnocchi: un primo piatto gustoso che consiste in un tipo di pasta e che si cucina usando farina e patate, per pranzo o per cena, iniziavano a ridere perché particolarmente contenti, essendo sia estremamente affamati, sia mostruosamente golosi di questo piatto tipicamente romano. E allora ho pensato a quando, un po' di anni fa, anche mia madre faceva gli gnocchi; lei, pur essendo nata in Campania, era sempre vissuta a Roma, ed aveva perciò imparato a cucinare i classici piatti romani, tra cui gli gnocchi. Io, sia da bambino che da adulto, quando li faceva non ridevo, ma certamente ero contento, visto che la mamma era veramente brava a prepararli e a cucinarli. Quando accadeva questo evento, che fortunatamente era abbastanza frequente, io e mio padre le davamo una mano, svolgendo compiti non fondamentali ma utili. Si usavano le patate che avevamo in casa, anche qualora non fossero del tipo specifico, ovvero il migliore affinché questo primo piatto riesca alla perfezione. Una volta lessati gli ortaggi, spesso ero io ad avere l'ingrato compito di sbucciarli, ma lo facevo volentieri. Quindi mio padre, usando un utensile chiamato schiacciapatate, faceva in modo che la mamma potesse cominciare a svolgere la parte più importante del lavoro: impastare, compattare e tagliare. A questo punto il più era fatto, occorreva soltanto che l'acqua nel pentolone bollisse; quando ciò avveniva, tutti ci affrettavamo a porre, un po' alla volta, gli gnocchi sparsi sul tavolo della cucina all'interno del contenitore in ebollizione. Come molti sanno, non occorre molto tempo per la cottura degli gnocchi: tre o quattro minuti appena. Una volta cotti, con un altro utensile che ha nome cava gnocchi, si toglievano questi bocconcini di farina e patate e si mettevano in un piatto molto grande; lì mia madre aveva il compito finale di condirli con un sugo di carne preparato in precedenza e con una cospicua manciata di parmigiano grattugiato. A questo punto gli gnocchi erano pronti, e allora io e mio padre, che nel frattempo e precipitosamente avevamo apparecchiato la tavola, ci mettevamo seduti ai nostri posti con l'acquolina in bocca, pronti a farne una scorpacciata (due pozioni almeno). A proposito, c'è un altro detto, credo anch'esso romano che dice: "giovedì gnocchi, venerdì pesce e sabato trippa"; ma a dire il vero mia madre non ha mai dato molta importanza a questa specie di menù obbligato settimanale, perché secondo lei, il giorno per fare gli gnocchi era solo e soltanto la domenica.

Evviva gli gnocchi!  


***


Mi è bastato andare a controllare, nel frigorifero, il barattolino di vetro dove di solito tengo il parmigiano grattugiato, per ricordare degli episodi lontanissimi nel tempo, riguardanti me ed i miei nonni, ai tempi in cui accadeva spesso che io pranzassi a casa loro. Quando mia nonna stava per far cadere, sopra il mio piatto di pastasciutta fumante, un po' di parmigiano che aveva appena grattato, repentinamente gli facevo un cenno con la mano gridandogli: «No, non lo voglio!»; infatti all'epoca non gradivo alcun tipo di formaggio sulla pasta, poiché non mi pareva che la rendesse più appetitosa; la stessa identica cosa faceva mio zio, mentre mio nonno, che era a tavola accanto a me, aveva il suo pecorino (ovviamente anch'esso grattugiato), che preferiva di gran lunga a qualunque altro formaggio, quando si trattava di condire la pasta. Allora, la nonna, rimaneva con un palmo di naso, tenendo nella mano il suo parmigiano quasi inutilizzato, e allora diceva: «Ma ci sta bene sulla pasta!». A proposito, quando ho controllato il mio barattolino, ho scoperto che il mio parmigiano emanava un cattivo odore, ed in effetti vi ho trovato un po' di muffa, tanto era il tempo che non lo utilizzavo più, questo pregiato e saporito formaggio italiano, usatissimo per rendere più saporita la pastasciutta.


***


Ah!... perché ho aperto le persiane della mia finestra? il sole mi accieca, mi procura un enorme fastidio agli occhi...

Mi sono appena svegliato dopo otto ore di sonno. Ultimamente dormo tanto, e non so spiegarmene la ragione. Dicono che con l'avanzare dell'età il sonno gradualmente venga meno, e si dorma poche ore a notte. Eppure per me questa regola sembra non valere, mah...

Come sono lontane le estati di una volta! e ciò lo riscontro non soltanto guardandomi intorno, o allo specchio: un tempo mi sembrava che, soprattutto nella stagione estiva, tutto andasse per il verso giusto; ora , invece, succede il contrario: non c'è una cosa che funzioni.

Comunque passerà anche questa insulsa estate. Il tempo, da qualche anno a questa parte sembra che trascorra velocissimo. Gli anni si sovrappongono tutti uguali, tutti inutili e vuoti.

Certo, questi ultimi sono stati peggiori, a causa della famigerata e maledetta pandemia che non ha mai fine. Poi, a tutti i mali, si aggiungono gli assordanti, incessanti allarmi dei mass media sul clima che sta cambiando, e sul pianeta che si riscalda sempre di più. Ce lo dicono in continuazione, come se noi, poveri cristi, potessimo fare qualcosa per migliorare la situazione.

Poi sento spesso altre notizie poco rassicuranti, sulla violenza alle donne, sul razzismo, sul bullismo e chissà quali altre forme di sopraffazione e d'intolleranza. O l'umanità sta andando alla deriva, o i notiziari gonfiano in modo abnorme ogni tipo d'informazione.

Ma al di là di tutto questo, io che vivo un po' al di fuori del mondo (e meno male!), trovo delle piccole consolazioni quando faccio dei viaggi a ritroso, quando penso ad un passato ormai remoto. Come sono distanti gli anni felici! E quanto sei lontana anche tu, che mi hai lasciato già da cinque anni!

Sempre più stanco e rassegnato, vivo il mio presente da assente. A volte desidero di diventare un robot, senza sentimenti, programmato per svolgere determinate mansioni e, una volta esaurito il compito principale per cui è stato costruito, docilmente, senza fare una piega si prepara ad essere smontato non provando alcun dolore di sorta.

Quando arriverà la mia ora? me lo chiedo spesso ormai, e so che, vista la mia età, può arrivare in qualsiasi momento. Può farsi intravedere o può giungere improvvisa, davanti a me, per ghermirmi definitivamente. Eppure vado avanti, perché questo gli uomini sono condannati a fare, e il pensiero della morte, seppure baleni di tanto in tanto nella mente, non impedisce la continuazione della vita fino alla sua fase estrema, che, in qualunque momento avverrà, dovrà essere considerata soltanto un punto di arrivo inevitabile, un evento naturale che non va giudicato in modo negativo.  

Ma è giunto il momento che io torni nel buio, questa luce così forte, oltre ad infastidirmi, mi fa pensare troppo...


***


I colori sono stati d'estrema importanza nella mia infanzia: ricordo ancora bene le perline colorate che allora si usavano per creare delle collane; ricordo i colori dei miei vestiti, e in particolare delle mie maglie più belle; ricordo i colori delle magliette dei calciatori e delle squadre di serie A e B degli anni '70; ricordo i colori delle automobili d'allora e soprattutto quelle dei miei genitori e dei miei parenti;  alla stessa stregua ricordo i colori delle mie automobiline, che, tra l'altro, erano insieme ai soldatini (anch'essi colorati) i miei giocattoli preferiti; ricordo i colori delle biglie di vetro, che possedevo in grande quantità; ricordo i colori delle tute dei supereroi della Marvel Comics (l'Uomo Ragno, i Fantastici 4, Devil, Capitan America, Iron Man ecc.), le cui avventure appassionatamente leggevo grazie ai  giornaletti che compravo regolarmente. Però, più di ogni altra cosa, i colori assumevano un'importanza fondamentale nei miei disegni, che creavo con i famosi pennarelli, pur avendo usato anche le matite colorate, nonché i colori a olio ed a cera. Il mio colore preferito era ed è ancora il verde. Ora amo un po' tutte le tonalità di questo colore stupendo; da bambino, invece, preferivo decisamente il verde smeraldo e il verde bandiera.  Evviva tutti i colori!


***


"Passare a miglior vita" è un modo di dire che nasconde un'ironia beffarda, unita ad una rassegnazione causata da sofferenze provate durante quella che è, per noi  umani, l'unica vita esistente. Però, questa frase può anche sottintendere una verità inoppugnabile: con la morte, chi ha avuto una vita fatta di dolori e di stenti, passa ad una fase decisamente migliore, che è rappresentata dal nulla eterno. Chi non è d'accordo sul fatto che è meglio una non-vita ad una vita atroce? Per tale motivo, tanti esseri umani che vivono in modo inadeguato, soffrendo moralmente e fisicamente, non dovrebbero temere la morte, come invece fanno; non dovrebbero rimanere abbarbicati alla loro esistenza, facendo scongiuri di ogni tipo perché la morte si allontani e giunga il più tardi possibile. È vero: quando periremo non ci sarà alcun passaggio a "miglior vita", ma certamente smetteremo di soffrire (e di pensare), e sarà come dormire un sonno senza fine, senza incubi, senza niente di niente...


***


Qualche giorno fa, guardando la TV, ho appreso la notizia riguardante un noto personaggio politico, che per la prima volta, dopo tanti anni di attività pubblica, ha indossato una cravatta. Allora ho pensato ad uno degli innumerevoli problemi che assillavano la mia giovinezza: «Saprò fare il nodo della cravatta, quando sarà necessario che la indossi per lavoro?» Una questione che allora, per me, appariva di estrema importanza; ero convinto del fatto che, se avessi mai trovato un lavoro (come ardentemente speravo), lo avrei trovato da impiegato; di conseguenza, soprattutto in certe aziende private, sarebbe divenuto un obbligo presentarsi nel luogo di lavoro in giacca e cravatta. Poi vedevo mio padre che, quando andava a lavorare, era sempre ben vestito, e la cravatta era immancabile. Quando i miei mi comperarono un bel vestito elegante (pantaloni e giacca in tinta unita), non dimenticarono di aggiungervi una cravatta perfettamente intonata. Da allora, con l'aiuto paziente di mio padre, cominciai ad esercitarmi nel fare il nodo, che trovavo assolutamente complicato; ricordo che alla fine vi riuscivo, seppure a stento, ma dopo qualche mese dimenticavo tutto, ed ero costretto a cominciare da capo, chiedendo di nuovo a mio padre un soccorso per ricordare tutti i passaggi del caso. Col tempo capii che la cravatta non mi sarebbe mai servita per lavorare. Dopo molti anni, gettai nell'immondizia tutte le cravatte che possedevo: le mie, che erano al massimo due o tre, e quelle di mio padre (ben poche in verità), che dopo la sua scomparsa volli conservare. Ricordo infine che mi lamentavo dell'obbligatorietà della cravatta, quando ci si reca in determinati luoghi, poiché la consideravo un vero e proprio cappio al collo. Al diavolo tutte le cravatte!


***


Il Tempo... Ah, il Tempo: come si capisce che passa in fretta, quando si è giunti in età matura! E ripensare i "nostri" tempi, che a noi sembrano così vicini, ci fa percepire quanto invece siano lontani... Il nostro tempo è passato, se n'è andato via, velocemente e senza che noi ce ne accorgessimo. Ora, pensarci, è occupazione inutile, poiché ci provoca fastidio e tristezza... Ma il Tempo se ne infischia di noi e dei nostri stati d'animo: lui va, prosegue la sua corsa infinita travolgendoci. E allora noi, se non vogliamo soffrire inutilmente, non possiamo fare altro che prenderne atto: rassegnarci alla nostra vecchiaia prima, e alla nostra morte poi.


***


Cenere, grigia cenere, fredda cenere è tutto ciò che resta del fuoco che arse poco fa; è tutto ciò che resterà di noi quando non saremo più.

Ho davanti agli occhi la cenere del mio camino; la guardo, mentre penso a tutto il calore che, fino a poche ore fa, arrivava a me proprio da lì: da quel breve perimetro che ora è coperto da uno strato di cenere incolore. E mentre lo guardo, sento fuori di me un gelo insopportabile, e tremo, e soffro pensando a quel fuoco così grande, così potente che ora non c'è più. Ma sento, nello stesso tempo, un freddo terribile dentro di me, sapendo che quel mucchietto di cenere è simile a ciò che diverrò dopo la mia scomparsa. Di tutto ciò che ho fatto o non ho fatto, di tutto ciò che ho provato, dei miei migliori o peggiori ricordi, di tutte le cose o le persone che ho amato, della mia vita intera, rimarrà soltanto un pugno di cenere. Nel giro di poco tempo (anni o forse soltanto mesi), sarò dimenticato da tutti, ed anche quel po' di cenere verrà disperso chissà dove... E allora sarà come se non fossi mai vissuto.


 

 

CAPITOLO XXV: I SOGNI

 

Nella mia famiglia, i sogni hanno avuto sempre grande importanza. Ricordo che mia madre, non di rado, usava raccontare i suoi sogni, in special modo se in essi comparivano persone care scomparse; era come se queste, volessero col sogno mandargli dei messaggi importanti, comunicandogli che continuavano a vivere in un mondo migliore. Il suo interesse per i sogni, la portò a comperare anche dei libri che ne parlassero, ma da quel che ricordo, in quei volumi l'argomento era trattato superficialmente e non meritavano di essere letti. Conservò anche una minuscola guida all'interpretazione dei sogni, che gli fu data in supplemento all'acquisto di una rivista; tale opuscolo è ancora qui, nella mia casa, e sfogliandolo dopo tanti anni, mi sono accorto che anch'esso, come quei libri di cui ho parlato, non merita molta attenzione.

Anche per me i sogni hanno sempre avuto un certo peso, anche se quasi sempre mi è successo di sognare cose stupide, per non dire insignificanti; diversamente, gli incubi che facevo erano attinenti alla realtà, ed erano anche collegati ad alcune mie paure più o meno inconsce. Ho provato a leggere qualcosa di scientifico, riguardo ai sogni ed al mondo onirico, scegliendo un volume dello psicanalista più famoso in assoluto: Sigmund Freud. Ammetto di non essere riuscito nell'impresa, un po' perché la lettura mi sembra ostica, un po' perché il modo in cui Freud tratta il tema mi sembra noioso e per nulla interessante.

Molto più attraenti mi appaiono alcuni versi dedicati ai sogni, così come gli spezzoni di film memorabili (mi vengono subito in mente Il posto delle fragole di Ingmar Bergman e Io ti salverò di Alfred Hitchcock); non di meno esistono alcune tele di pittori simbolisti che ritraggono sogni fantastici.

 

***

 

Lo squallore, la tristezza e la situazione pessima che caratterizza i nostri tempi, fanno sì che io, come tanti altri d'altronde, non riesca a vedere nulla di buono nel presente e tanto meno nel futuro. La mia città poi, che è Roma, vive una situazione ancora più deprimente, oppressa e, direi, sommersa da mille problemi irrisolti e forse mai risolvibili, che la rendono sempre meno vivibile e sempre meno affascinante. Per questi motivi, con la mente mi succede spesso di fare voli nel passato remoto, a volte facilitato dalla visione televisiva di documentari; ad esempio, mi sono emozionato nel vederne uno che parlava del 1960: anno bellissimo e irripetibile per la capitale italiana. Fu proprio nel 1960 che le olimpiadi ebbero luogo a Roma, e fu, per chi partecipò all'evento e per chi lo osservò, un'esperienza unica. Quell'anno fatidico, poi, a Roma furono girati tantissimi film che rimasero nella storia del cinema; bastino per tutti due titoli: La dolce vita e Ben Hur. Fu un anno di sviluppo e di prosperità per l'intera nazione italiana, ma per Roma in particolare, dove l'occupazione crebbe in modo inatteso. Fu proprio in questo magnifico anno che la mia mamma trovò un posto di lavoro da impiegata in un ente parastatale; ed io, ricordando i suoi racconti che riguardavano la sua assunzione e le sue prime giornate lavorative, ho sognato di poter ritornare indietro nel tempo e di divenire un fantasma: un'entità invisibile in grado di rivivere accanto a lei quei momenti così importanti; in grado di visitare la città così com'era allora: assai meno caotica e vivibilissima... Naturalmente ho sognato ad occhi aperti, ma con la mente ho provato comunque a fare un viaggio fantastico con la macchina del tempo, e mi sono immedesimato in un uomo qualunque che girava allora per le strade della città capitolina, che si emozionava per una competizione sportiva o, semplicemente, per l'apparizione di una bella ragazza. Ed ho visto anche la mia mamma, che in quanto a bellezza, specialmente allora, non scherzava affatto. L'ho vista salire preoccupata le scale di quel palazzo dove, proprio da quel giorno, avrebbe lavorato per anni e anni; l'ho vista in ufficio, insieme alle colleghe ed ai colleghi, parlare delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere; l'ho vista recarsi al bar, per prendere un caffè e rilassarsi un po'; l'ho infine vista mentre prendeva un autobus verde (così come erano i mezzi pubblici di allora), per ritornare a casa. E nel vivere, sebbene con l'immaginazione, questi lontani momenti, mi sono emozionato a tal punto che le lacrime hanno cominciato a scendere copiosamente dai miei occhi. Nulla ormai mi fa felice più dei viaggi a ritroso nel tempo; soltanto quando riesco a farli (e non mi è facile), io sono contento di vivere.

 

***

 

Ho fatto un sogno che in verità è un terribile incubo. Ero sceso dal treno alla stazione del mio borgo, e mi ero avviato verso casa; ad un certo punto, non so come, mi resi conto che quello in cui mi trovavo non era il mio borgo; eppure la campagna intorno sembrava la stessa... Mi ero totalmente perso e mi trovai, allora, su un viale lungo, alberato, e cominciai ad attraversarlo sperando di trovare delle indicazioni per poter tornare alla stazione o di incontrare qualche passante per chiedere qualche informazione. Camminavo, camminavo, e non vedevo nessuno, né trovavo alcun cartello che potesse aiutarmi. Il sole stava per calare, e cominciai a sentire un po' di freddo. Intravidi poi, delle ombre che si muovevano dagli alberi, ma non gli diedi molta importanza, perché pensai potessero essere delle cornacchie o chissà quali uccelli. Ma le ombre, a mano a mano che proseguivo inconsapevole il mio cammino, aumentavano; le vidi quindi avvicinarsi a me sempre più ed ebbi la netta impressione che fossero animali: uccelli? pipistrelli? non so, non riuscivo bene a distinguerle. Ma quando, una di esse si avvicinò ancora di più, mi accorsi che la sua testa aveva sembianze umane. Naturalmente inorridii, e cercai rifugio dietro ad un albero, sperando che, non vedendomi, quegli strani esseri se ne andassero via. Mi accorsi in quel momento, che il viale era costeggiato da un canale, le cui acque, scure e torbide, scorrevano molto velocemente. Guardavo quella corrente andare e intanto il sole era ormai calato: il freddo mi faceva tremare e non sapevo più come tornare o cosa fare. D'improvviso vidi da lontano, nel canale, galleggiare un oggetto chiaro che veniva nella mia direzione; una volta vicino lo riconobbi con estrema meraviglia: era il mio berretto. Posi una mano sulla mia testa e mi accorsi che non avevo più il berretto, e che esso ora si stava allontanando sempre più con le acque del canale. Lo avevo perduto lungo il cammino, pensai, senza accorgermene, ma, pensavo anche, come mai si trovava nel canale? chi ce lo aveva gettato? Fu proprio allora che notai una delle strane ombre proprio sopra di me, che spuntava da un ramo dell'albero: la guardai e riconobbi il suo viso. Era il viso di una persona morta: una ragazza da me adorata in gioventù, a cui non ebbi mai il coraggio di dichiarare il mio amore per lei. «Che ci fai tu qui?» chiesi, sbalordito: «Tu sei morta...». Ma ella non mi rispose e nel giro di pochi secondi scomparve. Pensai, terrorizzato, tutto ciò non è possibile, certamente sto sognando; devo soltanto svegliarmi e fuggire da questo incubo, non altro. In quel momento scorsi un'altra ombra che, dalla vetta di un albero si avvicinava rapidamente verso di me: riconobbi un altro volto conosciuto, anch'esso di un morto, che io odiai per lungo tempo; vedendo che le distanze si accorciavano sempre più tentai di fuggire, ma all'improvviso sentii come un nodo alla gola e non vidi più nulla, all'infuori di una finestra aperta a metà, al cui davanzale era poggiata una garza sporca di sangue. Finalmente mi risvegliai: ero nella stanza dell'ospedale, era sera, e avevo da poco subito un delicato intervento chirurgico alla gola.  Pensai tra me: «ma io non ho nulla alla gola, che ci faccio qui... perché sono stato operato?». Mi alzai e uscii dalla stanza in cerca di qualche medico o infermiere, ma inciampai e caddi. Non riuscivo più a rialzarmi: il corpo era divenuto estremamente pesante ed ogni sforzo era vano. Rimasi in terra, sfinito, a riposare un po' e notai, lungo il corridoio del reparto, un vecchio con un bastone, avvicinarsi lentamente. Il suo volto, solcato dalle rughe, mi metteva un senso di orrido. Quando fu sopra la mia testa mi avvidi che perdeva bava dalla bocca e muco dal naso. In pochi secondi sentii sulla mia testa cadere quei liquidi e cominciai ad urlare, non potendo fare altro, visto che ormai il mio corpo era paralizzato. Allora il vecchio si slacciò la patta dei pantaloni e mi accorsi che aveva un catetere; in pochi secondi mi resi conto che quel maledetto aveva intenzione di orinare sulla mia testa. Urlavo e urlavo ma nessuno sentiva, nessuno veniva, come se l'ospedale fosse deserto... Fu allora, finalmente, che mi svegliai con un forte mal di stomaco, e andai immediatamente a vomitare.

 

***

 

Era un giorno sereno d'inizio autunno, quando ci siamo incontrati in quel ristorante tu ed io, chissà perché lì, insieme. Poi, una signora ci ha detto di seguirla ed ha aperto una porta indicandoci un pergolato e dicendoci di entrare, di scegliere un tavolo e metterci comodi, in attesa degli altri invitati. E noi così abbiamo fatto tra sorrisi e qualche parola di circostanza. Ma dopo cinque minuti d'inutile attesa, abbiamo cominciato a capire che stava accadendo qualcosa di strano. Quindi, dopo che era passato altro tempo, finalmente ci siamo resi conto che non sarebbe mai giunto nessuno a quel tavolo: gli altri invitati erano tutti morti, non c'erano camerieri in quel ristorante, né cuochi, e la signora che avevamo visto non era altro che un fantasma, una nostra astrazione mentale. Sconcertati, affranti e incapaci di dir qualsiasi parola, siamo rimasti lì, col la testa abbassata, lo sguardo fisso a quel vecchio tavolo. Sono passate le ore, e già cominciava a far sera, mentre noi eravamo ancora lì, come statue. Io e te, muti e tristi, in quel luogo abbandonato, desolato, spettrale... Io e te, chissà perché insieme...


***


Questa notte ho fatto un sogno bellissimo, e questo sogno era così bello perché insieme a me c'eri tu. Mi trovavo, chissà perché, a Firenze: ero, insieme ad altre persone, all'interno di un hotel; dovevamo fare qualcosa d'importante, ma non so bene cosa (lo sai, i sogni sono assai strani). All'improvviso sei apparsa tu, venuta da non so dove.  Non ti dico la sorpresa nel vederti: tutti, io compreso ovviamente, ti abbiamo accolto nel migliore dei modi; gli altri hanno parlato con te per un po', poi noi due ci siamo appartati; ti ho fatto delle domande riguardanti la tua vita ed i tuoi viaggi, e tu mi hai risposto con poche parole; poi ti ho mostrato delle foto che ti ritraevano, che portavo sempre con me; ti ho detto che, se volevi, potevi tenerle, ma non ricordo cosa hai risposto tu. Come già aveva fatto in precedenza qualcun altro, anch'io ti ho chiesto di rimanere qualche giorno con noi; tu eri titubante, e all'inizio hai rifiutato l'invito, probabilmente perché avevi timore di disturbare; poi, però, insistendo un po', sono riuscito a convincerti, ed hai deciso di rimanere (non ti dico la soddisfazione che ho provato in quel momento). Quindi mi sono domandato come tu facessi a sapere che io ero lì, trovando, forse, un'unica spiegazione, neppure tanto plausibile. Poi il sogno è finito, e quando mi sono svegliato ricordavo bene tutti i particolari di questa fantastica avventura notturna. Non mi sono rammaricato affatto del risveglio, ho soltanto pensato dentro di me: «Che bellissimo sogno ho fatto, questa notte!» 


***


A volte mi accade, in sogno (ed è proprio il caso di quest'ultima notte), di visitare dopo tanti anni le case che erano dei miei parenti, e che io una volta frequentavo spesso; praticamente erano le mie case, poiché potevo entrarvi a mio piacimento e rimanervi anche per un lungo periodo di tempo. Di una, possedevo perfino la chiave della porta principale. Ora, quando mi trovo in una di esse - chissà come e perché - durante un sogno notturno, mi accorgo quasi immediatamente di essere divenuto un estraneo; allora, subito mi prende una sorta di angoscia, poiché temo di essere scoperto dai proprietari. Prima che uno di essi mi sorprenda e magari mi ritenga un ladro, cerco in tutti i modi di uscire ed allontanarmi da quelle abitazioni; ma, sempre, accade qualcosa che me lo impedisce: le stanze si susseguono, così come i corridoi, e la casa diviene un vero e proprio labirinto in cui mi ritrovo intrappolato; oppure la porta da cui ero entrato, richiusasi, non si apre più, ed ogni tentativo di fuga diventa inutile: sono prigioniero di quella casa. Quando tutto sembra perduto, e l'angoscia ha raggiunto il picco, arriva finalmente il risveglio. Per lungo tempo, però, rimane il ricordo di questi strani incubi.

La scorsa notte, invece, il sogno era un po' differente: inizialmente pensavo di essere in casa mia, fino a quando ho visto scomparire degli oggetti che pochi minuti prima erano ben presenti nelle stanze della mia abitazione; poi, mi sono accorto che il bagno era quasi devastato; recatomi in cucina, vi ho trovato degli alimenti poggiati sul tavolo che non avevo comperato; infine, una volta tornato nel salone, ho compreso di essere all'interno dell'appartamento che era stato dei miei nonni materni. Non so come ero riuscito ad entrarci, ma nel sogno ero consapevole del fatto che ancora potevo farlo; inoltre, sempre in sogno, ero convinto che mia nonna fosse ancora viva, e che potesse tornare da un momento all'altro; nello stesso tempo, sapevo che qualcun altro, oltre a me, poteva entrare lì, e tale personaggio, non ben identificato, ritenevo fosse il responsabile delle devastazioni e dei mutamenti apportati all'interno dell'appartamento. Poi, improvvisamente, il sogno è terminato.  

 

 

CAPITOLO XVI: PENSIERINI

 

Che c'è di nuovo? di nuovo nulla: tutto è vecchio, stravecchio.

 

Si va avanti quasi per inerzia: nessuna ambizione, né speranze o progetti.

 

Giornate di fine gennaio fredde nelle ore notturne e nel primo mattino, tiepide nel resto del giorno (almeno qui a Roma).

 

Nichilismo: "ogni atteggiamento genericamente rinunciatario e negativo nei confronti del mondo con le sue istituzioni e i suoi valori". Spero di non essere nichilista, ma in questo atteggiamento mi ci ritrovo assai.

 

A volte i bei ricordi riaffiorano in me improvvisamente, causandomi una emozione talmente dolce e forte che mi viene di piangere un pianto quanto mai gradevole.

 

Ormai sono convinto che la società italiana stia vivendo un periodo di assoluta involuzione, di netto regresso. Spero di sbagliarmi.

 

Non bisogna illudersi, soprattutto a cinquant'anni: i furbetti e gli imbroglioni l'avranno sempre vinta.

 

Se non ci fosse la poesia a consolarmi sarebbe tutto estremamente tetro.

 

E' la natura che mi affascina: gli spazi verdi, i paesaggi marini e montuosi. A volte anche le creazioni degli uomini possono risultare incantevoli. 

 

Camminavo per le strade di Roma in cerca di libri. Cercavo qualcosa di non precisato e mi piaceva più la ricerca che il resto (visto che il resto era molto astratto).

 

Col tempo si perdono tante cose, ma le perdite più dolorose, a pensarvi bene, sono la meraviglia e l'entusiasmo nati per un nonnulla.

 

Se fosse veramente esistita, Eva, ovvero la prima donna sulla Terra, sarebbe da considerarsi responsabile assoluta di tutti i mali che affliggono l'uomo.

 

Un'ottima o al massimo buona salute è la base fondamentale per vivere una vita decente.

 

"Nessuno tocchi Caino" qualcuno disse tempo fa. Ma io che mi sento molto vicino al fratello dico: "Sia resa giustizia al povero Abele".

 

Mi è sempre piaciuto il sonno, ma ora lo amo follemente.

 

Il debito pubblico grava su noi come un enorme macigno; anche su coloro che non hanno mai chiesto un soldo a chicchessia, nemmeno per sbaglio.

 

Nel mio paese la categoria del rompicoglioni può certamente vantare un numero di iscritti sterminato. Tra di essi anche parecchi animali.

 

Ad una certa età bisogna cominciare a fare i conti con la morte, che potrebbe arrivare all'improvviso e che, pur annunciandosi, potrebbe lasciarci piuttosto scioccati.

 

Le gioie del collezionista sono forse stupide, ma di una intensità formidabile!

 

Non mi ritengo invidioso, ma se dovesse esistere una forma d'invidia in me, sarebbe certo tra le più innocue.

 

I giorni della merla si annunciano tutt'altro che freddi. Era facilmente prevedibile quest'anno.

 

Trovo il carnevale una festa assai stupida; forse, per qualche tempo, mi piacque da bambino.

 

Quando cercavo di individuare quale sarebbe stato il mio futuro mi spaventavo a tal punto da dover pensare ad altro.

 

La più bella cosa a cui pensare quando ti alzi la mattina presto è che tornerà la notte e portai di nuovo coricarti.

 

Quell'anno, a ricordarlo, mi sembra eccezionalmente bello. So che così non poteva essere, ma non ci posso fare nulla.

 

Il fallito spesso ripensa a come è andata la sua vita, e alle possibilità che ha sprecato. Unica consolazione è che ormai tutto è avvenuto.

 

Le donne, molto probabilmente, son per gli uomini gioie e dolori. Io ho preferito evitare i dolori.

 

Bella = stupida: una regola reale, ma, seppure raramente, esistono delle eccezioni.

 

Le canzonette ora per me son più importanti di qualsiasi altro tipo di musica: mi fanno ricordare meglio il passato.

 

L'Adagio di Albinoni è semplicemente sublime. Peccato che Albinoni non c'entri nulla.

 

Il corpo femminile possiede qualcosa di ultraterreno. Molti dipinti famosi stanno a dimostrarlo.

 

Se immagino una divinità la vedo col corpo di una bellissima donna. La chiamo "Dea" e non "Dio".

 

La canzone più bella di tutti i tempi è senz'altro "Le plat pays" di Jacques Brel.

 

Tra gli strumenti musicali mi va più a genio il violino, poi il mandolino.

 

La canzone italiana ha toccato l'apice della sua storia con i cantautori (Fabrizio De André su tutti).

 

Ogni genere di musica è rispettabile, perché comunque di musica si tratta.

 

Cantava Giorgio Gaber: "Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono"... Per fortuna?

 

Indubbiamente il bianco e nero è da preferire al colore: è più artistico e lascia maggior spazio all'immaginazione.

 

Tra i colori ho sempre amato il verde bandiera; dicono rappresenti la speranza, ma io son tutt'altro che speranzoso.

 

L'ottimista vede rosa, il realista vede grigio, il pessimista vede nero... l'indifferente non vede nulla.

 

Se c'e stato un pittore che meglio ha saputo usare i colori, quello è Calaude Monet.

 

La fantasia è una delle qualità più importanti per vivere in modo migliore in questo mondo di merda.

 

Il tempo mi fa perdere qualsiasi entusiasmo: tutto è già visto, è già stato, è già passato.

 

Alla coerenza oggi non vien data più alcuna importanza. Anche per questo molte cose non vanno bene.

 

Una giornata di vento freddo mi può piacere, soprattutto se dopo il cielo è sereno e l'aria è divenuta limpida.

 

Il miracolo annuale della fioritura primaverile degli alberi è qualcosa di straordinariamente bello.

 

Ad una certa età bisognerebbe fare più attenzione a cosa si mangia, ma non è così facile.

 

In passato mi interessai degli insetti cercando maggiori informazioni sulle enciclopedie (chissà perché).

 

Ebbi la curiosità di sapere tutti in nomi dei papi da San Pietro ad oggi, pur non essendo credente.

 

Ricordo l'emozione che provai quando riuscii a trovare un libro tanto desiderato (a pensarci è molto ridicolo).

 

Se penso alla vecchiaia inorridisco, ma se dovessi arrivarci mi ci dovrò abituare per forza.

 

Ho la netta impressione che la chiesa abbia reso il nostro paese tra i più arretrati d'Europa (e del mondo).

 

Che disgrazia è stata il fascismo per noi italiani! Probabilmente lo è tutt'ora.

 

Il comunismo è fallito, ma il socialismo no, anche se non sta attraversando un ottimo momento.

 

Certi candidati presidenziali americani dei repubblicani sembrano usciti da un fumetto (spero non vincano!).

 

In TV ho visto un anziano signore che doveva difendere la nostra classe politica. Qualcosa si è dovuto inventare...

 

E' vero che ormai sono scomparsi tutti gli ideali, ma coi politici di oggi come potevano esistere!

 

Nell'infanzia, le scatoline dei formaggini Bel Paese erano ottime prigioni per insetti come maggiolini e formiche.

 

Ricordo che da bambino, una notte, sognai di essere in Portogallo e di vedere, nel mare, mostri spaventosi.

 

Vita ideale: essere un bambino, svegliarsi una mattina d'estate e andare a giocare finché non tramonti il sole.

 

Le poesie imparate a memoria sui banchi di scuola, belle o brutte che siano, rimangono sempre nella mente.

 

Nell'album di disegni delle scuole elementari, spesso mi divertivo a fare le rondini. Ricordo che piacevano a molti.

 

Il migliore periodo della poesia italiana è quello compreso tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo.

 

I crepuscolari sono stati i migliori poeti italiani di sempre. I loro versi mi hanno incantato.

 

Scoprii le poesie dei crepuscolari per caso. E' per me incredibile che a scuola non ne abbia mai imparata una.

 

Quando lessi la prima volta il capolavoro di Sergio Corazzini non sapevo che l'avesse scritto a vent'anni.

 

Il simbolismo e il decadentismo sono tra le correnti letterarie che più mi affascinano.

 

Sogno ancora spesso mio padre, e allora non mi accorgo che non c'è più qui, con noi.

 

"Anima" è una parola meravigliosa, il concetto che esprime è sublime... peccato che non esista!

 

Anni fa comperai un viseoregistratore e cominciai a vedere film in modo compulsivo. Ora non ne vedo più alcuno.

 

Mi richiudo spesso nel mio guscio, soltanto lì mi trovo bene.

 

Nove volte su dieci è preferibile la solitudine alla compagnia.

 

Amo i luoghi deserti, i posti isolati; al contrario detesto gli affollamenti.

 

La mia vita non l'ho decisa, non l'ho fatta io. Io l'ho soltanto vista passare.

 

Questa nuova ondata di razzismo non si placa: è sorretta da una massiccia quantità di odio, egoismo e ignoranza.

 

Non hanno ucciso soltanto l'uomo ragno, ma anche tutti gli altri supereroi. Dovremo difenderci da soli.

 

I padroni del mondo ci vogliono togliere anche le ultime sicurezze; ci vogliono vedere in balia del vento.

 

Che direi se dopo la morte mi trovassi davanti a Dio? «Buon giorno, scusi, sa... pensavo che non esistesse...»

 

In quest'epoca di pazzi mi tocca sopportare anche i neofascisti e i neonazisti.

 

Esprime una realtà (escluse rarissime eccezioni) il detto: "Beata solitudo, sola beatitudo".

 

Sono conscio della mia inettitudine, ci devo convivere e basta.

 

La maggior aspirazione di quasi tutti gli uomini di oggi è fare sesso fino al decesso.

 

Quando vedo situazioni non risolvibili, e ne vedo sempre di più, mi dico fra me e me: cosa ci vuoi fare, c'est la vie!

 

Arrabbiarsi oggi è molto facile, ma è anche completamente inutile.

 

Certi programmi televisivi sono così imbecilli che mi fanno sentire molto intelligente.

 

Andremo in pensione (se ci andremo) già pronti per la cremazione.

 

Il mondo sarebbe un paradiso se non ci fosse l'uomo.

 

Chi ha inventato l'amore è stato un bel furbacchione capace d'illudere un numero infinito di persone.

 

La prima volta che lessi "Il passero solitario" di Leopardi mi ci ritrovai immediatamente, completamente.

 

Tra gli animali prediligo il gatto: ne ammiro, oltre alla bellezza, il modo di fare.

 

L'animale più detestabile è, ovviamente, la zanzara.

 

Da bambino uccisi per gioco una quantità abnorme di insetti; il tutto, solo e soltanto per divertimento.

 

Se dovessi rinascere in forma animale desidererei essere uno di quei mostri marini che vivono negli abissi.

 

Molti non amano la parola "rinuncia", eppure, a pensarci bene, cogli anni, tutti devono rinunciare a tutto.

 

Se c'è una cosa penosa è vedere tante persone che non riescono ad invecchiare decentemente e dignitosamente.

 

Il film più bello di sempre è "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick.

 

I film horror sono delle idiozie novantanove volte su cento.

 

Considero Ermanno Olmi quale miglior regista italiano della storia del cinema.

 

Ermanno Olmi è riuscito spesso ad inserire la poesia nel cinema (non è affatto facile).

 

La genialità di Totò è smisurata: dopo aver visto dieci volte alcuni suoi film, ancora non smetto di ridere.

 

Il teatro è una forma artistica nobilissima, ma che mi ha sempre attratto poco.

 

Una persona perbene oggi non si metterebbe mai a fare politica.

 

Non riesco più a riconoscermi in alcun partito o movimento di sinistra odierno.

 

Pur con qualche contraddizione, politicamente parlando mi ritengo di sinistra.

 

La politica italiana di oggi non mi piace per nulla: non c'è un partito che m'ispiri alcuna fiducia.

 

I migliori politici della storia d'Italia furono della DC; si chiamavano De Gasperi, Fanfani e Moro.

 

Sono stato affetto per qualche decennio da una depressione molto leggera, che non mi ha impedito di sopravvivere.

 

C'era e c'è chi si vergogna di essere un poeta, ma di essere un politico ci si dovrebbe vergognare!

 

A volte mi chiedo perché, oggi come oggi, la violenza ancora la fa da padrone.

 

Mi sono illuso che il progresso potesse sconfiggere la violenza, ma quest'ultima è una parte sostanziale dell'uomo.

 

Con la scusa che la cultura non si mangia stanno costruendo una società di ignorantoni.

 

Fra un po' (forse presto) sarò cancellato per sempre e sarà come se non fossi mai esistito (così è la vita).

 

Stai lontano dal fuoco perché hai paura di scottarti, ma così rinunci anche a scaldarti.

 

Ho sofferto di più il freddo l'anno del servizio militare, nei giorni in cui facevo la guardia al nulla.

 

Uno dei miei giorni più felici è stato sicuramente quello del congedo militare.

 

Da adolescente amavo le canzoni melodiche e sdolcinate; perfino oggi le riascolto volentieri.

 

I social network sono molto utili... ma a volte fanno cadere le braccia!

 

Progressi della tecnologia! Ora, tramite la rete, posso scaricare e leggere libri usciti più di cento anni fa.

 

Il computer, per me, è come la Bibbia per il religioso.

 

Come vivevamo quando non c'erano i telefonini e internet? Boh... Certamente non sappiamo più farne a meno.

 

I fantascientifici robot di certi racconti che lessi da ragazzo non li vedo ancora... ma in futuro, chissà?

 

Cento anni fa, in guerra morirono soltanto i soldati. Oggi, nelle guerre muoiono soltanto i civili.

 

Sognai un mondo senza guerre... Al mio risveglio la guerra era ovunque.

 

Una delle migliori leggi italiane è quella che ha abolito il servizio di leva obbligatorio.

 

Una volta c'erano i rapinatori che depredavano le banche, ora le banche derpredano i clienti.

 

Dicono: il presente è meglio del passato, e il futuro sarà migliore del presente! (Ma ci fanno o ci sono?).

 

I momenti felici sono così rari e durano talmente poco che non ci accorgiamo immediatamente di averli vissuti.

 

Pur essendo iscritto a qualche social network sono un'asociale convinto.

 

Sei veramente libero soltanto quando sei solo, basta un'altra presenza a limitarti le decisioni e i pensieri.

 

Ogni tanto bisogna pensare all'universo: ci fa capire la nostra totale insignificanza.

 

Da molto tempo non m'illude più la storiella che il nostro passaggio sulla Terra ha la sua importanza.

 

Cominciai ad ammirare i suicidi in età adolescenziale: mi sembravano veri eroi.

 

La prima volta che vidi i barboni rimasi intristito e preoccupato: pensavo di diventarlo.

 

Di non saper nuotare e di non saper sciare non me ne è mai importato un fico secco.

 

Guido l'automobile per necessità: ne avrei fatto volentieri a meno.

 

Penso che preferirò sempre una cattiva democrazia a qualunque dittatura.

 

Twitter e facebook non eliminano la solitudine, anzi, a volte la aumentano.

 

Virtualmente si può fare di tutto (anche far credere di tutto). La realtà è ben altra cosa.

 

Li definiscono "razzisti", "xenofobi", "omofobi"... ma io li chiamerei semplicemente "idioti comuni".

 

Ho sempre avuto simpatia per le persone schive, riservate, appartate, poco appariscenti.

 

Mal sopporto l'esibizionismo, tanto più se alla sua base non c'è nulla.

 

A vederlo nei filmati e nelle foto Mussolini era una persona molto buffa e alquanto ridicola.

 

I fascisti usavano un vestiario esilarante per commettere crimini orripilanti.

 

Fui entusiasta alla nascita dell'Unione Europea. Ora la considero bell'e morta (ma in verità non è mai esistita).

 

I politici e i giornalisti fanno di tutto per deprimerci (e ci riescono benissimo).

 

In TV tutto è falso, tutto tranne il canone da pagare (quello è tristemente reale).

 

Elettrodomestici intelligenti, automobili intelligenti, telefoni intelligenti... Ma le persone intelligenti dove sono andate?

 

Emergenza terrorismo, emergenza emigrazione, emergenza incendi, emergenza siccità... Ma quando tornerà (se tornerà) un periodo di normalità?

 

Troppo egoismo, troppa cattiveria, troppa crudeltà si vedono in giro. Non porteranno nulla di buono.

 

Si andrà in pensione sempre più tardi, d'accordo, ma quali lavori è possibile fare quando si è anziani?

 

Bisognerà inculcare nella testa (piccina) di certe persone che il nostro sistema pensionistico non può fare a meno della presenza, in Italia, di una certa quantità di stranieri.

 

Sembra che i telegiornali, con le loro notizie allarmanti a profusione, vogliano creare in chi sta dall'altra parte del video un'angoscia senza fine.

 

E poi ci sono i soliti politici razzisti e xenofobi, che oltre all'angoscia, riescono a inculcare, nella povera gente che li sta a sentire, anche un odio immotivato verso lo straniero.

 

La vita ideale sarebbe quella in un posto bello e appartato, dove non giungesse traccia di TV, radio e persino di internet.

 

Ecco come parlano del futuro i mass media: più povertà, più persone anziane, clima deteriorato, possibili guerre nucleari... potrei continuare.

 

Anche qui da noi c'è tanta brava gente: la cosiddetta "maggioranza silenziosa"; ma, proprio perché è silenziosa, spesso pare che non vi sia.

 

Una volta credevo negli ideali della sinistra e in parte ancora ci credo... ma è la politica in generale che mi nausea sempre di più.

 

Questi nuovi partiti e movimenti che anche da noi sono nati di recente esprimono ed esternano soltanto la rabbia dilagante diffusa tra il popolo.

 

Ho l'impressione che anche l'illusione dell'Europa unita stia per crollare definitivamente. Naturalmente spero di sbagliarmi.

 

Cantava anni fa Franco Battiato: "Com'è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore"; come dargli torto?

 

 

CAPITOLO XXVII: LA POESIA

 

Perché vergognarsi di amare la poesia? Perché vergognarsi di essere poeti?

Non c'è alcun motivo per farlo, anzi, bisognerebbe essere orgogliosi di essere poeti, poiché la poesia è qualcosa di immenso, di divino: una forma comunicativa essenziale, che esiste da quando è nato il linguaggio e che ci permette di provare emozioni e sensazioni fortissime, così come ci succede ascoltando una musica soave.

Anch'io sono un poeta, ma con la P minuscola. Tutti coloro che hanno scritto almeno un verso nella loro vita sono dei poeti, ma per essere dei veri Poeti, ovvero con la P maiuscola, è necessario che i versi abbiano saputo attrarre migliaia di anime; quest'ultime hanno il potere di creare e immortalare un Poeta.

Il Poeta è un essere che ha delle possibilità incredibili, non presenti nella moltitudine degli altri esseri umani.

Il Poeta guarda un paesaggio, un animale, una pianta, un oggetto, il cielo e anche ciò che non si può vedere, in un modo particolare, anzi... direi eccezionale; è questo che gli permette di descrivere le sue visioni in maniera tale che risultino memorabili, soprattutto per coloro che, leggendo i suoi versi, riescono a percepire la sua elevata capacità di trasmettere stupore, meraviglia, emozione o anche tristezza, compresi i casi in cui si parli di cose semplici.

Il Poeta non può odiare, ma soltanto amare.

Il Poeta ama tutto ciò che è bello, ma anche ciò che non lo è; il Poeta è in grado di trasformare in oro anche il fango, poiché è in grado di descrivere un luogo senza nessuna attrattiva in modo tale da farlo divenire interessante; lo stesso discorso vale se il Poeta descrive una persona, una pianta o un oggetto.

Il Poeta, molto spesso, possiede in sé i più cari ricordi della sua vita, e li sa tramutare in versi; codesti, divenuti poesia, rimangono nella mente di chi legge e li fa suoi, venendo ad assumere un'importanza estrema, ché i bei ricordi degli uomini si somigliano, e quasi sempre hanno a che vedere col periodo più bello dell'esistenza: l'infanzia.

Il Poeta riesce a ricordare le sensazioni che provava quando era un bambino, e le descrive in modo talmente perfetto che queste divengono le sensazioni di tutti noi, bambini invecchiati a cui piace rievocare il nostro migliore tempo.

Il Poeta ama il passato e forse il presente, ma non il futuro. Quando scrive dei versi non pensa mai al domani.

Il Poeta non deve per forza scrivere versi, tanto meno rime; può essere definito Poeta anche chi scrive soltanto in prosa.

Il Poeta non considera la tristezza e la malinconia come fanno in molti; per lui questi sentimenti, da cui scaturiscono emozioni e sensazioni straordinarie, posseggono qualcosa di divino; così, nei versi di tanti Poeti la tristezza e la malinconia predominano su tutti gli altri stati d'animo, divenendo basilari. Sono questi i Poeti che io preferisco, e in cui amo rispecchiarmi.

Il Poeta può parlare con tutti gli esseri viventi del presente e del passato, ma anche con gli animali e le cose.

Il Poeta, come tutti noi, teme la Morte, ma non per questo evita di parlarne, anzi, spesso ci dialoga, come se fosse di fronte a lui.

Purtroppo, come tutti gli esseri umani, anche i Poeti muoiono, ma grazie a Dio non muore la Poesia.

Sbaglia chi dice che la Poesia è morta. Forse un giorno morirà, e forse questo giorno non è molto lontano, ma è certo che la Poesia esiste ancora; le anime che la amano sono di meno, è vero, ma esistono; però, come quegli animali che si stanno estinguendo perché la violenza, l'egoismo e l'indifferenza dell'umanità li stanno distruggendo, è sempre più difficile notarle.

Ma anche nel caso in cui la Poesia dovesse morire, esisterebbe comunque quella del passato, e per coloro che, come me, la amano alla follia, ciò basta e avanza.


***


Il 1992.... Sì, ricordo ancora bene che fu quello l'anno in cui mi avvicinai per la prima volta alla poesia, e fu un amore intenso, destinato a durare. Dopo la grande paura di restare solo, cominciai a leggere dei versi che mi confortavano; da allora non fui mai più solo, proprio grazie alla poesia: voci morte eppur vivissime, parole scritte sulla carta che avevano ed hanno un potere consolatorio incommensurabile. Ricordo che da quell'anno iniziai a visitare le librerie di Roma, cercando libri con i versi di quelli che erano e sono i miei poeti preferiti. Poesia, tu sola esisti per me, tu sola sei vera e non mi tradisci mai, tu sola amo in questo squallido mondo. Soltanto grazie a te mi sento ancora vivo.


***

Ci sono dei poeti che stanno nella tua mente come monumenti: grandi, immobili, imprescindibili, e tu sai che vi rimarranno per tutta la vita, perché su di loro non hai dubbi.

Ci sono dei poeti che per te sono diventati importantissimi col tempo; magari non lo erano anni fa, ma ora decisamente lo sono; la loro grandezza l'hai compresa progressivamente, leggendo e rileggendo i loro versi.

Ci sono dei poeti che ti piacciono fino ad un certo punto; è vero, hanno scritto dei versi assai belli, ma ne hanno scritti altri che non ti dicono nulla; li tieni in considerazione, ma non li ami alla follia.

Ci sono dei poeti famosissimi, che però non gradisci affatto; leggendoli, ti domandi il motivo per cui sono tanto valutati e considerati, e non lo trovi. È un fatto di gusto personale, pensi.

Ci sono dei poeti che ti piacciono, pur essendo poco conosciuti; i loro versi li hai scoperti rintracciando, magari a fatica, i libri quasi introvabili che hanno pubblicato una marea di anni or sono; questi semi-sconosciuti sono diventati, forse soltanto per te, di massima importanza.

Ci sono dei poeti che ti piacciono, e comprendi che non li conosce pressoché nessuno; alcuni di essi, probabilmente, non sono stati mai presi in considerazione; li hai scoperti tramite percorsi tortuosi, ed ora comprendi il loro grande valore; nello stesso tempo, però, capisci che sono stati del tutto obliati fin da quando hanno cominciato a scrivere versi. Sono questi i poeti che preferisci.




FINE

Qui termina questo "diario senza le date", parafrasando il titolo di una raccolta poetica di Marino Moretti. In verità, non so se è veramente finito, o se, in futuro, aggiungerò ancora qualcosa ai miei noiosi scritti; fatto sta, che già da un po' di tempo non scrivo più nulla di me o dei miei pensieri. I motivi di questa lunga pausa, sono principalmente due: il primo è che non ne ho più voglia, ovvero è venuta a mancare quella che era per me una valvola di sfogo, ponendo la scrittura a mo' di salvagente in determinate, difficili situazioni personali. Il secondo è la chiara, inequivocabile sicurezza che le mie opinioni e tutto il resto del diario non interessino nessuno tranne me. 
Grazie, comunque, a tutti coloro che si sono soffermati, anche solamente per qualche secondo, su questo blog.

Commenti